Nota sulla delega previdenziale

di G. Ferrante

 

Si è svolta il 10 giugno 2004 presso la Confederazione, a Roma, una riunione del Dipartimento Welfare, cui hanno partecipato rappresentanti territoriali Cgil e responsabili dei fondi, per una valutazione critica del disegno di legge sulla previdenza (pubblica e complementare) così come é emerso dal voto di fiducia espresso al Senato.

Riportiamo qui elementi conoscitivi e di valutazione utili all’intensificazione dell’iniziativa e della mobilitazione della categoria sui temi in oggetto.

 

Previdenza pubblica

Il 13 maggio il Senato ha approvato con la fiducia il disegno di legge delega sulla riforma delle pensioni. Si tratta di un primo epilogo negativo di una vicenda aperta da ormai tre anni, in cui il governo, come in altri casi, si è distinto per il rifiuto del confronto democratico tra le parti sociali e nello stesso Parlamento.

Il sindacato ha risposto a suo tempo a quest’orientamento governativo con gli scioperi generali dell’ottobre 2003 e con quello del 26 marzo 2004, legando opportunamente, in modo unitario, i temi previdenziali a quelli dello sviluppo.

L’iniziativa del sindacato ha consentito di respingere alcuni provvedimenti particolarmente negativi previsti dalla delega: lo strumento della decontribuzione e l’obbligatorietà del versamento del Tfr ai fondi complementari. Ma nel nuovo testo si annidano, se possibile, nuove peggiori insidie, come ci ricorda anche il documento/commento alla delega predisposto dal Dipartimento Welfare della Cgil.

1) Viene cancellato uno dei punti cardine della riforma Dini: la flessibilità dell’età pensionabile (flessibilità nell’età in cui collocarsi in pensione e parificazione dei diritti tra uomo e donna).

L’età pensionabile flessibile costituiva inoltre un patto con i giovani che avevano cominciato a lavorare dopo il 1° gennaio 1996 (la legge Dini garantiva si un trattamento diverso da quello retributivo – ovvero quello contributivo, commisurato alla contribuzione effettivamente versata dal singolo nell’arco della propria attività lavorativa – però garantiva una variabilità nell’andata in pensione – 60, 62 o 65 anni). Oggi questo patto non c’è più: dal 1° gennaio 2008 per i lavoratori che si trovano nel sistema contributivo la nuova età pensionabile è fissata a 60 anni per le donne e 65 per gli uomini.

Sarà anche possibile andare in pensione:- con 40 anni di contribuzione;- con 35 anni di contribuzione ma 60 anni di età per i lavoratori dipendenti (l’età salirà a 61 nel periodo 2010-2013 e a 62 nel 2014).

2) I lavoratori che acquisiscono il diritto alla pensione di vecchiaia o anzianità nel sistema retributivo (o contributivo) entro il 31 dicembre 2007 “conseguono” il diritto alla prestazione pensionistica. Ma la certificazione del diritto alla pensione contenuta nella legge delega e la garanzia del mantenimento dei requisiti rischia di essere una mera promessa per convincere i lavoratori a non esercitare il diritto alla pensione, dal momento che qualsiasi provvedimento di legge emanato in data successiva può modificare il precedente!

3) Per il periodo 2004-2007, solo per i lavoratori dipendenti del settore privato, sono previsti incentivi di carattere retributivo e fiscale in caso di prolungamento dell’attività lavorativa con posticipo del diritto alla pensione. A parere della Cgil gli incentivi debbono andare ad incidere sulla prestazione pensionistica, garantendo un maggiore importo della pensione stessa. Invece gli incentivi previsti dalla nuova normativa legittimano il lavoro nero e l’evasione fiscale, mettendo in discussione uno dei principi cardine del sistema previdenziale: a qualsiasi lavoro prestato a qualsiasi età deve corrispondere la relativa contribuzione.

Di conseguenza i lavoratori che decidono di continuare a lavorare devono continuare a versare la contribuzione. Ciò comporterà sia un beneficio per il singolo lavoratore sia per il sistema previdenziale. Il lavoratore al momento in cui deciderà di andare in pensione avrà diritto per gli anni in cui ha proseguito l’attività lavorativa ad una maggiorazione della percentuale di calcolo.

Al contrario la percezione dell’incentivo economico non tassato può apparire allettante ma di fatto si traduce in una perdita per il lavoratore, che si troverà successivamente a percepire un trattamento pensionistico ridotto per tutti gli anni di godimento della pensione.

4) Dal 1° gennaio 2008 sarà possibile andare in pensione di anzianità nel sistema retributivo o con 40 anni di contributi, a prescindere dall’età o con 35 anni di contribuzione ed un’età pari ad almeno 60 anni per i lavoratori dipendenti. Nel 2010-2013 l’età crescerà a 61 anni; nel 2014 l’età sarà di nuovo aumentata a 62 anni per i dipendenti.

In via sperimentale e fino al 31 dicembre 2015, sarà possibile per le lavoratrici dipendenti andare in pensione di anzianità con 35 anni di contribuzione e con 57 anni di età, a condizione che le stesse optino per la liquidazione del trattamento in base alle regole del sistema contributivo.

La deroga concessa alle donne appare iniqua e pericolosa, dal momento che non si tratta di una vera opportunità ma di un attentato ai loro diritti pensionistici.

La riduzione delle finestre di accesso per la decorrenza della pensione costituisce poi un’ulteriore penalizzazione per tutti i lavoratori, spostando la decorrenza della prestazione in alcuni casi anche per periodi pari a 1 anno e mezzo rispetto alla data di maturazione del diritto.

5) Il governo è delegato ad emanare, entro 18 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, decreti legislativi su una serie di argomenti specifici (lavori usuranti, lavoratrici madri, ecc.).

Nello stesso periodo di tempo il governo potrà decidere soluzioni alternative rispetto a quelle previste per la modifica del diritto alla pensione di anzianità (preoccupazioni si affacciano circa il trattamento verso i cosiddetti lavoratori precoci).

6) Anche se alcune questioni sono state definite nel testo di legge, molte sono le deleghe affidate al governo:

a)      liberalizzare l’età pensionabile, ovvero possibilità per i lavoratori che le chiedono di continuare a lavorare oltre il compimento dell’età pensionabile stabilita dalla legge, con salvaguardia delle norme previste per le lavoratrici sia nel sistema retributivo sia nel sistema contributivo, solo se c’è l’accordo del datore di lavoro: norma questa che già esiste!

b)      b) arrivare progressivamente alla cumulabilità tra pensione di anzianità ed il reddito da lavoro dipendente o autonomo, in funzione dell’anzianità contributiva e dell’età: tale occasione appare, secondo la Cgil, in netto contrasto con le norme che mirano al posticipo del pensionamento di anzianità.

c)      Ridefinire la totalizzazione dei contributi versati in varie gestioni, casse o fondi ai fini di un unico trattamento di pensione.

Sono previste ulteriori deleghe al governo in merito a diversi altri argomenti.

 

Previdenza complementare

Nel disegno di legge approvato dal Senato la modifica più importante relativamente alla previdenza complementare riguarda la cancellazione dell’obbligatorietà del versamento del tfr ai fondi pensionistici integrativi.

Anche se la battaglia sulla decontribuzione è stata vinta, va notato come le scelte finalizzate al rafforzamento della previdenza complementare sono subordinate al fatto che il trasferimento del tfr alle forme previdenziali complementari non dia luogo ad oneri per le imprese, prevedendo, oltre alle giuste compensazioni in termini di accesso al credito (soprattutto per le pmi), anche un”equivalente riduzione del costo del lavoro” e l’eliminazione del contributo relativo al finanziamento del fondo di garanzia del tfr. Quest’ultimo punto contiene problemi di non secondaria importanza. Cresce infatti la casistica di fallimenti aziendali e i lavoratori iscritti al fondo non sempre sono tempestivamente informati (e quindi messi in grado di reagire) del fatto che, in non pochissimi casi, l’azienda in difficoltà economiche, trattiene indebitamente il contributo del lavoratore al fondo oltre a non versare la quota di tfr e il contributo a  proprio carico. La conseguenza di questo stato di cose è che mentre bisognerebbe rinforzare le garanzie per il lavoratore a usufruire di un diritto (che è insieme contrattuale e previdenziale!!), sottraendolo all’aleatorietà dei comportamenti non corretti del datore di lavoro, si profila nel disegno di legge delega l’eventualità di una soppressione del finanziamento a copertura di una garanzia Inps.

In base alla nuova formulazione della normativa il lavoratore avrà sei mesi di tempo, dalla data di entrata in vigore del provvedimento, per manifestare in forma scritta il proprio dissenso in merito al trasferimento del tfr al fondo. Se il lavoratore non agisce nel tempo stabilito il suo silenzio si considera come risposta affermativa: in questo caso il lavoratore deve scegliere il fondo in cui deve essere effettuato il trasferimento. Nel caso in cui non scelga sono previste “tacite” modalità di conferimento ai fondi, senza che il lavoratore abbia espresso la sua volontà e soprattutto non si capisce con quale ordine di priorità verrebbe effettuata la scelta. Come è del tutto evidente non fa poca differenza indirizzare le risorse derivanti dal tfr a fondi istituiti dalle Regioni, a fondi negoziali o a fondi aperti.

Sempre su questo punto il disegno di legge delega avvisa che dovrà preventivamente essere garantita un’adeguata “informazione sulla tipologia, le condizioni per il recesso anticipato, i rendimenti e sulla facoltà di scegliere le forme pensionistiche a cui conferire il tfr”. Sarebbe utile capire a questo proposito se il carico derivante dalla necessità di informare il lavoratore ricadrà anche questa volta sulle spalle delle organizzazioni sindacali e sui fondi stessi o se gli organi pubblici competenti sentiranno la responsabilità di farsi parte diligente in un’azione capillare d’informazione verso gli utenti.

Per quanto attiene poi ai fondi regionali, ai quali il ministro Maroni sembra voler demandare il vero decollo della previdenza complementare, è evidente che il sistema dei fondi per decollare non ha bisogno di una frantumazione e soprattutto devono essere stabilite delle regole che valgano per tutti onde evitare che il diritto all’integrazione dipenda dalla Regione in cui uno si trova.

Nel testo licenziato dal Senato si fa riferimento alla possibilità per i fondi di dotarsi di linee di investimento tali da garantire rendimenti comparabili al tasso di rivalutazione del tfr. Si tratta di una norma eccessivamente generica, che omette di dire che le garanzie (contrattuali, assicurative) hanno un costo, non basso e che esistono strumenti alternativi, privi di costo, che garantiscono quasi gli stessi risultati (seppur non garantendoli formalmente). Inoltre, nella loro autonomia, i fondi contrattuali, man mano che adottano il multicomparto, prospettano tra le varie linee d’investimento (con una gradualità di rischio/rendimento) su cui l’associato può scegliere, anche forme opzionali garantite.

Particolarmente grave appare l’equiparazione tra diverse forme previdenziali complementari (fondi negoziali, fondi aperti, piani pensionistici individuali). I fondi negoziali avviati con la contrattazione collettiva considerano soci gli aderenti, così non è per le altre forme. Si tende a omologare realtà diverse: i fondi negoziali non sono hanno un controllo democratico, una trasparenza che non sono ravvisabili, al momento, negli altri istituti, ma si distinguono per il fatto di non perseguire fini di lucro, legittima aspirazione invece da parte delle assicurazioni private.

Ancora una volta, per limitarci alla previdenza complementare, ci troviamo davanti ad un metodo inaccettabile, dove a cose fatte si chiama il sindacato ad un incontro per un improbabile confronto, che può al massimo riparare in modo marginale il danno.

All’inaccettabilità del metodo si aggiungono i problemi di sostanza tesi nel complesso a indebolire l’istituto della previdenza complementare piuttosto che, com’è da lungo tempo nelle attese, rafforzarlo.

Al danno prodotto dalla totale equiparazione tra fondi negoziali, fondi aperti e forme previdenziali gestite dalle assicurazioni (realtà che presentano gradi di tutela e di trasparenza assai diversi tra loro), si aggiunge anche una netta apertura a favore dei fondi regionali. Quello che rischia di emergere sono pericolose implicazioni per il modello contrattuale, ovvero che i fondi contrattuali regionali si accompagnino con una destrutturazione del sistema contrattuale, a favore del livello decentrato, a partire da quello regionale.

Si tratta quindi – come dichiara la Cgil – di non dare per conclusa una battaglia unitaria aperta ormai da tempo. Non solo la legge delega non è stata ancora approvata alla Camera, ma ci sono 18 mesi in cui andranno discussi molti decreti attuativi non secondari: il disegno di legge presenta ancora molti punti che non hanno ricevuto una lavorazione adeguata.

Su queste basi andranno promosse iniziative d’approfondimento sia a livello territoriale che regionale sia per informare la platea più vasta possibile dei pericoli in corso che, di conseguenza, predisporre le iniziative di mobilitazione. La Cgil ha già individuato la possibilità di programmare per fine settembre un convegno nazionale, auspicabilmente unitario, d’approfondimento sui temi sopra descritti legati al disegno di legge delega.

Tra le priorità del movimento sindacale, in materia di previdenza complementare c’è (oltre e insieme ai temi descritti) innanzitutto la necessità di rilanciare le adesioni dei lavoratori. Chi non aderisce ai fondi pensione, in particolare tra i giovani, perde la possibilità di bilanciare la progressiva caduta del livello della prestazione pubblica dovuta all’adozione del sistema contributivo.

Occorre inoltre reperire soluzioni per porre termine all’esclusione dei lavoratori precari dalla possibilità di iscriversi ai fondi pensione. Infine va detto in modo chiaro che le diverse forme previdenziali (fondi negoziali, aperti e piani pensionistici individuali) non sono affatto comparabili, sia in termini di costi che di diritti di partecipazione controllo per l’associato. Si tratta di una prospettiva che ha la finalità di indebolire la tutela previdenziale e lo strumento innovativo dei fondi negoziali per favorire gestioni finanziarie disancorate dalle finalità previdenziali.

 

Roma, 14 giugno 2004