Seminario nazionale Fim, Fiom, Uilm

I metalmeccanici e la previdenza complementare. L’esperienza e le prospettive di Cometa

 

Comunicazione: Prestazioni pensionistiche sotto forma di rendita

di Alessandro Falcione – Attuario, componente consulta Uil Previdenza Complementare

E’ meglio avere un reddito duraturo piuttosto che avere fascino”. E’ una massima di Oscar Wilde. Ma se questo reddito duraturo fosse rappresentato da una rendita vitalizia, allora molti pensionandi, reputo, riterrebbero meglio possedere fascino. Cercherò di dimostrare che non hanno del tutto ragione.

Quello di rendita vitalizia è il contratto che, verso il pagamento di un premio, impegna la controparte, generalmente un assicuratore, a corrispondere all’assicurato una somma ricorrente per tutta la durata della vita dello stesso. E’ un contratto che, semplicemente, permette di proteggersi dal rischio di vivere più a lungo della durata del proprio patrimonio. Per illustrare meglio questo concetto mi permetto di fare un esempio. Un maschio 65 enne, come noto in questa materia la differenza tra maschi e femmine continua ad essere importante, in base a recenti tavole di sopravvivenza può contare su di una speranza di vita di circa 16 anni, deve aspettarsi cioè di vivere sino ad 81 anni. Qualora utilizzasse il suo patrimonio pianificando di non disporre più di denaro a 81 anni, rischierebbe parecchio. Infatti 81 è una media: il 25% dei 65enni vivrà sino a 90 anni ed oltre (il 33% se si fosse trattato di donne). Lo strumento con maggiore efficacia per distribuire il proprio reddito per tutta la vita è appunto la rendita. Efficace ed efficiente: se nella programmazione basata sulla speranza di vita di cui in precedenza  si fosse utilizzato uno strumento solo finanziario (considerando il capitale iniziale e gli interessi relativi) si sarebbe ottenuta una disponibilità annuale inferiore a quella riveniente da una rendita assicurativa  calcolata allo stesso tasso di interesse, senza spese e limitata a 81 anni (rendita temporanea), in quanto al rendimento finanziario si sarebbe aggiunto quello demografico).

Una delle ragioni che portano a sottostimare l’utilità della rendita, come peraltro emerge da una inchiesta Irsa/Eurisco, potrebbe essere rappresentata dalla percezione da parte della maggioranza dei lavoratori che la loro pensione di primo pilastro, quella dell’Inps per intendersi, continuerà a rappresentare all’incirca l’80% dell’ultimo salario e potrà essere quindi sufficiente per le esigenze dell’ età anziana e che tale loro pensione non ha la minima correlazione con grandezze relative a fenomeni finanziari e demografici. Nessuna delle due percezioni corrisponde alla realtà. Quanto alla misura, infatti, pur nella grande difficoltà di effettuare previsioni di cui parleremo di seguito, una stima tratta dal rapporto governativo sulle strategie nazionali per i futuri sistemi pensionistici del 2002 indica che il tasso di sostituzione, e cioè il rapporto tra pensione e salario a fine carriera, per un lavoratore dipendente del settore privato andato in pensione nel 2000 con 60 anni d’età e 35 di contribuzione era pari al 67,3% (del resto coerente con l’80% percepito a 40 anni di anzianità). Una analoga situazione pensionistica riferita al 2050 portava ad ipotizzare un tasso di sostituzione del 48,1%, con un abbassamento di quasi 20 punti percentuali. Quanto alla dipendenza da fenomeni finanziari e demografici, va considerato che il calcolo della pensione nel regime di contribuzione definita vigente, tiene conto dell’intera storia contributiva del singolo, dell’andamento del prodotto interno lordo italiano in alcuni anni precedenti il pensionamento, dell’andamento dei tassi di sopravvivenza dei maschi e delle femmine, del livello dei rendimenti finanziari e, per finire, della composizione per struttura ed età delle famiglie.

In definitiva la riforma pensionistica degli anni 90 del secolo scorso, incentrata a regime su di un sistema retributivo a capitalizzazione virtuale, porta a tassi di sostituzione sicuramente più contenuti dei precedenti con la caratteristica, peraltro, di notevole aleatorietà dei tassi di sostituzione e con assoluta assenza di garanzia sul loro livello: oltre alle variabili relative alla singola posizione ( ad esempio la storia contributiva), tale tasso di sostituzione risulterà in futuro più elevato per coloro che avranno vissuto favorevoli periodi di espansione economica in certi momenti piuttosto che in altri. Basterà considerare che se il calcolo finale si andrà ad effettuare su medie di Pil dell’ordine del 4%( attuale andamento americano) si potrà godere, con 40 anni di anzianità, di pensione doppia rispetto a quella che, a parità di tutto il resto, spetterebbe in caso di Pil pari all’1%.

La presenza di previdenza integrativa, peraltro dipendente dal ciclo economico relativo a tutto il periodo di accumulo,  costituisce necessaria protezione per un futuro che presenta garanzie pensionistiche minori ed incerte. Al momento della quiescenza, a conoscenza del tasso di sostituzione della pensione di primo pilastro, sarà possibile, salvi i minimi di legge, destinare quote accumulate a rendita integrativa sino a raggiungere il tasso di sostituzione complessivo desiderato.

Il poter fruire di risparmio integrativo accumulato sotto forma di rendita erogabile per tutta la vita, evita sì allo Stato di doversi far carico di future possibili situazioni di disagio dei singoli, ma, e soprattutto, evita agli stessi di dover far conto su future aleatorie provvidenze pubbliche. Nè i contesti sociologico ed economico attuali sembrano poter permettere di sopperire alla certezza della rendita integrativa con la solidarietà familiare. Ulteriori eventuali necessità di disponibilità di risparmio potrebbero egualmente essere risolte assicurativamente. Basta pensare alle coperture che permettono di ovviare ad eventuali stati di non autosufficienza (Long term care).

La normativa sulla previdenza complementare contiene disposizioni assai scarne relativamente alla rendita vitalizia o meglio alle “ prestazioni pensionistiche sotto forma di rendita”, come recita la legge. Scarne ed altalenanti. Dapprima il legislatore della previdenza integrativa contemplava solo prestazioni pensionistiche erogabili sotto forma di rendita, con la possibilità però per le forme costitutive di prevedere la facoltà di chiedere la prestazione sotto forma di capitale, per un importo non superiore al 50% dell’accumulato (100% per i vecchi iscritti ai fondi preesistenti). Successivamente, nel 2000, veniva consentito, nel caso in cui l’impiego del montante accumulato portasse ad una rendita inferiore all’assegno sociale (4667 euro per il 2003), che l’obbligo del minimo in rendita potesse essere superato, norma questa di non poco peso visto che le posizioni di pensione integrativa sono in essere da non molti anni e che pertanto non presentano forti accumuli e che, soprattutto, permette, in base ai tassi di premio della rendita adottata( come vedremo in seguito molto variabili sia per le molteplici forme di rendita adottabili che per le condizioni di mercato in vigore al momento della stipula delle convenzioni), disparità di trattamento da fondo a fondo e possibilità di elusione dell’obbligo di rendita. Attualmente si è tornati a privilegiare la rendita: la legge delega che, tra l’altro, incentiva il trasferimento del Tfr dalle aziende alle forme pensionistiche complementari, assume pieno significato solo se si considera che queste ultime erogheranno anche rendite; altrimenti, e più semplicemente, le aziende avrebbero potuto continuare a mantenere il Tfr ed erogarlo sotto forma di capitale. Nel contempo, nel verso contrario, la legge dispone di superare l’attuale condizionamento fiscale nell’esercizio della facoltà di chiedere capitale invece che rendita, in ipotesi di non supero dell’assegno minimo.

La presenza di obbligatoria trasformazione in rendita di parte dei montanti accumulati è importante non solo dal punto di vista previdenziale in senso lato, ma anche sotto il profilo tecnico. L’obbligatorietà permette di eliminare la cosiddetta antiselezione, il fenomeno del tutto naturale per cui coloro che si sentono in piena forma sono maggiormente portati a scegliere la rendita rispetto a coloro che si sentono un po' “acciaccati”, come si dice a Roma. Sarà così possibile adottare, nella costruzione dei premi assicurativi, tavole di sopravvivenza relative alla popolazione generale, notevolmente più vantaggiose in termini di importo di rendita  assicurabile (rendite superiori anche del 20-30% nei primi anni di erogazione) rispetto alle rendite calcolate con tavole selezionate, relative cioè a collettività di assicurati volontari di rendita vitalizia; e queste appunto sono le tavole che, peraltro in maniera tecnicamente corretta, vengono adottate dagli assicuratori per le rendite attualmente reperibili sul mercato.

Il superamento, tramite l’obbligatorietà, dell’antiselezione ha come ulteriore effetto positivo la possibilità, in corso di erogazione della rendita, di chiedere all’assicuratore il rilascio delle attività accantonate a fronte del contratto (cosiddette riserve matematiche), possibilità giustamente esclusa dagli attuali contratti stipulati volontariamente ma che, una volta introducibile ed introdotta, garantirebbe opportuna mobilità nell’ambito del mercato delle rendite.

Il legislatore, pur nella essenzialità con la quale tratta di rendite, trova modo di stabilire l’importo minimo del montante accumulato trasformabile in rendita (ne abbiamo largamente parlato); di prevedere che le rendite, ricorrendo determinate condizioni e con specifiche modalità,  possono essere erogate direttamente dal fondo pensione oppure, tramite convenzione, da un assicuratore (o in via diretta in caso di previdenza integrativa attuata con i Fip); di normare dettagliatamente sulle modalità di scelta di tale assicuratore; di fissare la fiscalità cui le rendite debbono essere assoggettate. Evita però accuratamente di definire cosa si deve intendere per rendita, di prevedere la necessaria presenza di alcune caratteristiche e la non  adottabilità di altre.

I contratti di rendita esistenti sul mercato sono molti e molto diversi tra di loro. Senza considerare che gli attuari (coloro che predispongono i contratti) sono dei professionisti molto fantasiosi e che quindi possono rimboccarsi le maniche e inventarsene altri. Sicuramente il legislatore, in senso lato, attende che il fenomeno rendita si concretizzi maggiormente in termini di urgenza, che dal mercato e dagli operatori, ivi compreso naturalmente il sindacato, vengano esperienze, studi e richieste, per poi intervenire in via normativa.

Quale primo e modesto contributo, al fine di monitorare la situazione, proviamo a elencare i contratti più noti esistenti sul mercato:

-        rendita fissa;

-        rendita adeguabile a tasso minimo garantito, inizialmente più alta e poi piuttosto piatta;

-        a tasso zero e crescenti più rapidamente (maggiore copertura età anziane);

-        rendita collegata ad un paniere di titoli pubblici garantenti l’inflazione;

-        rendita espressa in unit-linked (anche strutturati su fondi azionari);

-        rendita differita;

-        rendita temporanea (esclusa giustamente da disposizioni Covip):

-        rendita con coperture complementari implicite (certa per un determinato periodo ed importo, successivamente ed anche per importo diverso, vitalizia; con il rimborso della parte di premio eventualmente non erogata per decesso; ecc.);

-        rendite con coperture complementari esplicite (reversibilità libera o limitata a moglie e figli; infortunio; “long term care”; ecc.).

A fronte del molto che permette, la previdenza privata non può però offrire alcune prestazioni che invece sono presenti nella previdenza di primo pilastro e che, in base alla considerazione che le rendite di cui si tratta costituiscono previdenza integrativa o complementare, si potrebbe essere giustamente tentati di introdurre totalmente o parzialmente. In dettaglio:

-        nel sistema pubblico la prestazione pensionistica non può essere decrescente ma si incrementa nel tempo in connessione con il fenomeno inflattivo. Non si possono garantire prestazioni analoghe con le rendite private a meno che lo Stato non emetta titoli indicizzati e quindi si assuma lui il rischio. E’ però forte, da questa premessa, la deduzione che sarebbe opportuno non consentire rendite dal valore erratico quali quelle collegate a sottostanti molto rischiosi o rendite fisse o poco dinamiche o addirittura decrescenti quali quelle certe per un determinato periodo;

-        nel sistema pubblico, la reversibilità (dirottamento della rendita o di parte di essa ad altro soggetto in caso di morte del pensionato) è automatica nel senso che, a prescindere dalla volontà del pensionato, è prevista a favore della moglie e dei figli, in certe proporzioni ed a certe prefissate condizioni, anche se  tali familiari, in ipotesi, non esistevano al momento della messa in quiescenza del lavoratore. Nel sistema privato bisogna invece indicare i soggetti cui la reversibilità viene indirizzata che debbono peraltro essere in vita al momento della stipula, e fissare i corrispondenti importi di rendita erogabile. Tali soggetti possono essere anche non parenti del pensionato. Data l’estrema costosità di tali garanzie, sembra opportuno un minimo di regolamentazione;

-        nel sistema pubblico i tassi conversione in rendita, tra maschi e femmine della stessa età, sono uguali, anche se notoriamente il garantire le femmine è molto più costoso, per la loro maggiore longevità. C’è però compensazione nel sistema per il maggior costo per i maschi della reversibilità. Nel sistema privato, a meno di un costoso ombrello pubblico o consortile, non è possibile raggiungere tale uniformità (si pensi alla diversa composizione per età dei singoli gruppi assicurati);

-        nel sistema pubblico il rischio cosiddetto di emittenza non esiste in quanto le pensioni sono garantite dallo Stato. Nel privato i singoli operatori che erogano la rendita, invece, sono soggetti alle leggi di mercato. Sorgono pertanto problemi in ordine alla opportunità di un fondo di garanzia per le rendite (per esempio ne esiste uno presso l’Inps per il trattamento di fine rapporto, ne esistono per le rendite in Svizzera ed in Germania; in Italia sono presenti fondi per garantire i depositi, l’intermediazione finanziaria attuata con promotori, uno per i broker di assicurazione, e chissà quanti altri); sorgono problemi in ordine alla responsabilità dei fondi pensione nei confronti dei loro iscritti pensionati; in ordine alla creazione di un sano e concorrenziale mercato delle rendite a premio unico; in ordine alla incentivazione all’ erogazione diretta delle rendite da parte del fondo con la susseguente possibilità di trattenimento da parte dello stesso dei montanti accumulati.

-        nella previdenza pubblica, salvo la reversibilità, non esistono complementari. Anche nel sistema privato si potrebbe prevedere che le coperture complementari vengano pagate con la parte dell’accumulo non obbligatoriamente convertibile in rendita.

Non credo che possano essere lasciate alla libera scelta degli operatori tutte le rendite attualmente possibili e magari qualche altro contratto inventato e che sarà denominato rendita. La scelta dell’assicurato, subordinata alle prescelte effettuate dalle forme pensionistiche integrative alle quali è iscritto o presso le quali si trasferisce prima del pensionamento, appunto al fine di scegliere la rendita e l’operatore assicurativo desiderato, deve essere effettuata nella classe di rendite che rispondano a requisiti prefissati. Solo così sarà possibile fornire tutte le informazioni che necessitano all’assicurando per la sua scelta, creare un mercato competitivo su prodotti comparabili, ottenere un minimo di uniformità  e quindi di esperienze condivisibili tra operatori di diversi comparti e dello stesso comparto nel corso del tempo.

Molto c’è da fare ma sono fiducioso che lo faremo. Così potremo trasformarci, se non in redditieri almeno in renditieri.