da
"il manifesto" del 3 ottobre 2003
Il lavoro di fronte al suo rovescio
«Il sindacato è scomparso» L'attacco al
potere di coalizione è il frutto di un'ideologia che considera i
lavoratori dei semplici «fattori produttivi». L'esito dell'onda lunga
partita dagli Usa negli anni '80 che cancella soggettività e autonomia
e prepara un collasso democratico.
Un mese fa moriva a Bologna Claudio
Sabattini, ex segretario nazionale della Fiom. Quello che segue è uno
dei suoi ultimi interventi pubblici, tenuto a luglio nel corso di un
seminario sul tema «Catene al lavoro», organizzato dall'associazione
«Storie in movimento» e dalla rivista «Zapruder» (edita da Odradek)
che lo pubblicherà nel suo prossimo numero, a dicembre.
Uno degli ultimi interventi pubblici di Claudio
Sabattini, deceduto un mese fa. L'analisi di una società che, oscurando
il lavoro, diventa sempre più autoritaria
CLAUDIO SABATTINI
Osservando la letteratura sociale e quella
massmediologica potremmo concludere che il sindacato non esiste più.
Penso che siamo davvero vicini a questo esito, almeno analizzando gli
avvenimenti degli ultimi trent'anni. Ovviamente il processo che ha
portato o - se vogliamo introdurre una nota di ottimismo- che sta
portando all'estinzione del sindacato non parte dal movimento sindacale
italiano, ma ha avuto origine negli Stati uniti e poi via via ha
conquistato l'Europa e l'Italia affermando e facendo diventare senso
comune, cultura diffusa che la forza lavoro può essere considerata come
uno dei tanti strumenti della produzione, seguendo quindi logiche che
sono tipiche dei fattori produttivi, per usare una espressione
neoclassica. L'origine di tutto ciò credo si possa far risalire alla
fine degli anni `70. Da una parte Reagan, dall'altra la Thatcher hanno
fortemente operato in questo senso. Non solo: hanno posto l'accento
sull'inesistenza di una socialità complessiva, affermando che una
società è fatta di singoli cittadini. Partendo da questo assunto, che
ha caratterizzato le politiche dei due capi di stato lungo gli anni 80,
si è arrivati ad affermare che il lavoro non è solo un fatto
strumentale ma è un fattore della produzione e quindi, come tale, è
inserito nei processi di ottimizzazione delle fasi produttive. Questo
significa che come si cambia un macchinario diventato obsoleto, così si
possono sostituire i lavoratori ritenuti non sufficientemente
produttivi. Nello stesso arco temporale si è sviluppata anche un'altra
teoria che affermava che i processi di automazione, soprattutto di
origine asiatica, avrebbero consentito di sostituire totalmente i
lavoratori con le macchine. Il risultato di queste due teorie era lo
stesso: il lavoro scompariva non solo come socialità, ma come elemento
essenziale del processo produttivo. Ovviamente tutto ciò non è stato
privo di conseguenzeanche sul piano ideologico e politico. Basta
guardare, ad esempio, i tanti accordi generali fatti dalle
Confederazioni sindacali in Italia in cui il termine «lavoro» non
compare più e viene sostituito da «costo del lavoro». Vengono
stipulati accordi sulla flessibilità, sulla produttività che alludono
al fatto che riguardano i lavoratori ma essi non vengono più
rappresentati come tali, non si parla mai di «flessibilità dei
lavoratori», ma di «accordi sulla flessibilità», «sulla
competitività». Accordi, accordi, accordi... E' da questo punto di
vista che nel giro di un ventennio è stato sostanzialmente liquidato il
sindacato, e questo non è avvenuto per caso. Per capire davvero la
portata di ciò che è accaduto occorre, secondo me, tornare alle
origini del sindacato. Esso nacque alla metà dell'800 in Inghilterra
(grazie al riconoscimento fatto dai Wigh) da una equazione assai
semplice: allora venne riconosciuto che se il lavoratore è solo di
fronte all'impresa lo squilibrio di poteri è tale che non è possibile
ne esca un contratto libero. Si riconobbe allora ai lavoratori la
possibilità di coalizzarsi e quindi il riconoscimento dell'esistenza
del sindacato. Finalmente i lavoratori poterono organizzarsi, esercitare
un potere di coalizione, condizione indispensabile per equilibrare i
rapporti di potere e dar vita a un contratto in senso proprio. Perché
in presenza di un forte squilibrio di potere tra impresa e lavoratore
non è possibile parlare di contratto. Oggi, dopo un secolo e mezzo di
storia sindacale e del movimento operaio, considerando gli ultimi
avvenimenti sociali succedutisi nel nostro Paese siamo alla liquidazione
di due capisaldi di questa storia: il contratto e il potere di
coalizione dei lavoratori.
Del sindacato abbiamo detto. Per quanto riguarda il
contratto collettivo possiamo certamente affermare che è stato
liquidato sostanzialmente ma anche tecnicamente come ci insegnano le
recenti vicende dei metalmeccanici: la firma posta da Fim e Uilm a quel
testo ne ha sancito la definitiva estinzione visto che l'accordo non
conteneva alcun elemento delle piattaforme presentate da quelle
organizzazione che l'hanno firmato sottoscrivendo esattamente ed
esclusivamente la posizione presentata da Federmeccanica e da
Confindustria. Con l'aiuto, ovviamente, del Parlamento e del Governo che
hanno provveduto a sostituirne la parte normativa - quella che riguarda
le relazioni tra le parti e i diritti - con una sequenza di leggi che
liquidano i diritti dei lavoratori. La liquidazione di questi diritti ha
come connotato fondamentale un'estrema frammentazione delle forme di
lavoro si va dal job-on-call, al lavoro intermittente ad altre forme di
lavoro sempre, però, a tempo determinato lasciando quindi il lavoratore
in una perenne condizione di ricattabilità.
Esiste, ed è su questo che vorrei soffermare la
nostra attenzione, un elemento che ha reso possibile queste due
operazioni di liquidazione, il potere di coalizione sindacale da una
parte, il contratto collettivo dall'altra: i lavoratori non possono più
votare. I datori di lavoro possono fare il contratto con chi vogliono
senza considerare quanto sia rappresentativo. Così nasce il paradosso
del contratto dei meccanici i cui lavoratori sono in maggioranza
iscritti alla Fiom, più numerosi di quelli iscritti alla Fim e alla
Uilm messe insieme. Che quel contratto sia stato sottoscritto da una
minoranza è fuor di dubbio, la cosa grave è che questo non provoca
nessun effetto perché non vi è una legge sulla rappresentanza e
l'articolo 39 della Costituzione (che garantisce la libertà
dell'organizzazione sindacale) non è mai stato applicato.
Per rendere completa l'analisi, però, a mio
giudizio occorre tenere presente un altro elemento che probabilmente ha
una valenza ancor più generale. Se è chiarissimo cosa sia la
manifattura, cosa sia la fabbrica, invece, non lo è affatto. Nel corso
degli ultimi trent'anni la fabbrica è stata attraversata da
trasformazioni profondissime, causate non solo dai processi di
internazionalizzazione, che l'hanno completamente modificata rendendo
assolutamente non paradonabile quella di oggi a quella di ieri. Il modo
in cui si produce, si progetta, si dirige e si vende è completamente
cambiato: l'impresa non è più sequenziale. Una volta si cominciava
dall'ideare il prodotto per poi, per tappe successive, arrivare fino al
prodotto finito e a organizzare la sua vendita. Ora ogni fase della
produzione è svolta contemporaneamente alle altre in luoghi diversi, in
tempi diversi, con costi e valori differenti e molte funzioni che una
volta si svolgevano all'interno ora vengono esternalizzate dall'impresa
stessa e vengono chiamati servizi, terziario. E un enorme quantità di
ciò che comunemente viene chiamato terziario in realtà è puro e
semplice prodotto industriale fatto fuori dalla fabbrica. I primi a
percorrere questa strada sono stati i giapponesi che, avendo realizzato
subforniture di tutte le componenti lasciando all'interno dell'impresa
soltanto l'assemblaggio, riuscirono a produrre automobili a una
velocità tale da immetterne sul mercato quantità di sette o otto volte
maggiori rispetto alle tradizionali fabbriche fordiste per la pura e
semplice ragione che facevano fare due terzi dell'automobile fuori dalla
fabbrica. Però, nonostante le modifiche che molti lavori hanno subito
nel corso di questi decenni, diluendosi diversamente, è assai difficile
che un qualsiasi prodotto, sia esso terziarizzato o meno, posso essere
slegato dall'oggetto. Solo l'oggetto, infatti, può essere
commercializzato. E anche la teoria sui beni immateriali in realtà, non
è fondata sul fatto che in passato si lavorava di braccia e ora si
lavora di testa, ma sul concetto classico che esiste una supremazia del
lavoro intellettuale su quello materiale. Concetto ovviamente sbagliato:
anche per eseguire lavoro materiale occorre metterci testa! Gli skilled
tedeschi ce ne mettevano molta di testa nel produrre le loro macchine
utensili e non credo che «avessero meno testa» di quelli che oggi
fanno il software dentro le imprese meccaniche o quelle informatiche. Lo
dico perché senza comprendere il processo di riorganizzazione
produttiva dell'impresa è difficile fare un'analisi di ciò che è
avvenuto, nella terziarizzazione e nel suo gonfiamento.
Infine, ho ascoltato con molto interesse l'analisi
sulla società dei consumi. Io, però, rimango legato ad un concetto
novecentesco: il taylorismo non è solo un metodo di produzione, ma è
anche una cultura, una struttura di società. E l'idea forte su cui
costruire quel modello sociale era, ed è, che la produzione anche di
beni ritenuti di lusso, come ad esempio era considerata un tempo
l'automobile, potesse diventare produzione di beni di massa. Si
trasformò il sistema produttivo abbandonando sostanzialmente la
manifattura e rendendolo altamente gerarchizzato e sequenziale, facendo
così in modo che un qualunque lavoratore della Ford potesse acquistare
un automobile Ford. In sintesi, che i prodotti potessero essere
accessibili a chi lavorava. Dalla produzione di massa, quindi, alla
società di massa - e non viceversa - attraverso un'altissima e
crescente produttività e una parziale redistribuzione di reddito che
permetteva il consumo di massa.
In questo quadro, oggi, il problema che abbiamo
davanti, non solo in Italia ma per lo meno in tutta Europa, è quello
della definitiva svalorizzazione fino al nascondimento del lavoro
operaio. Per affermare il valore della finanza e del capitale rispetto a
qualunque altro elemento, sia esso macchinario o struttura produttiva,
è indispensabile dare significato di assoluta marginalità al lavoro
operario. E allora lo si definisce - tutto il lavoro operaio, anche
quello che un tempo si chiamava professionalizzato - come poco
qualificato e, non a caso, tendenzialmente lo si riserva agli uomini e
alle donne «marginali» nella scala sociale, fino ad arrivare agli
extracomunitari. A me pare che questa nuova gerarchizzazione del lavoro
tenga conto di una ideologia fortemente reazionaria e dispotica e,
ritengo, non sia un caso che stia invadendo il complesso delle relazioni
delle società occidentali. Il tentativo di liquidare il sindacato,
così come il tentativo di liquidare qualsiasi autonomia soggettiva
dell'impresa, come qualsiasi forma di relazione contrattuale tra
capitale e lavoro è la forma moderna di dequalificazione e
segmentazione sociale; una forma moderna di autoritarismo basata
sull'oscuramento del lavoro operaio, sulla sua segmentazione e
ricollocazione dentro una nuova gerarchia sociale, una piramide castale.
E' molto di più dell'antiegualitarismo (del resto nel `900 non abbiamo
mai vissuto di eguaglianza), è la creazione di una gerarchia altamente
dispotica basata sul fatto che le persone che sono la base materiale
della ricchezza - da noi come nel mondo povero - sono collocate alla
base della piramide, private di diritti, impedite a coalizzarsi,
schiacciate, negate nella loro stessa esistenza. Ecco, mi pare che
questa sia la questione del lavoro oggi in Italia, in Europa; ma forse,
chissà, molto di più. |