presentazione di
|
Claudio
Sabattini
È stato pubblicato un volume che raccoglie alcuni interventi di Claudio Sabattini, tenuti nel corso del biennio 2002-2003. Il libro, a cura del Centro studi R 60 e promosso dalla Camera del lavoro di Reggio Emilia, in collaborazione con la Fiom di Bologna e di Reggio Emilia, è stato presentato in occasione del convegno "Politica industriale e modello contrattuale, tra sviluppo e declino", organizzato dalla Fiom a Melfi il 3 settembre 2004, a un anno dalla scomparsa del dirigente sindacale.
Come viene sottolineato nell’introduzione,
si tratta di "testi inediti, con
l’eccezione di Il
lavoro di fronte al suo rovescio (comparso
su "il manifesto" del
3 ottobre 2003, in occasione del trigesimo), trascritti dalla registrazione su
nastro. Conservano intenzionalmente
la forma derivante dalla
comunicazione orale, non avendo avuto Claudio la possibilità di
rivederli".
Il volume è preceduto da una nota redazionale, dove vengono
illustrati i convegni da cui sono tratti gli interventi e dalla presentazione di Gabriele Polo,
condirettore de "il manifesto", che ha coordinato le tre iniziative
pubblicate.
Il costo di ogni volume è di 3 euro, ma è
possibile sottoscrivere quote maggiori. Il ricavato della contribuzione
volontaria, fatte salve le spese per la pubblicazione, è destinato a un fondo
istituito dalla Fiom per raccogliere, ordinare e pubblicizzare gli scritti e gli
interventi di Claudio Sabattini.
Per richiedere copie della pubblicazione ci si può rivolgere al Centro studi R 60, presso la Camera del Lavoro territoriale di Reggio Emilia, via Roma 53 - 42100 Reggio Emilia - tel. 0522 457237/8 fax 0522 433668.
Sono raccolti in questa
pubblicazione alcuni degli ultimi interventi di Claudio Sabattini, del periodo
compreso tra l’autunno del 2002 e l’estate del 2003. Li proponiamo nell’ordine
cronologico in cui, nelle seguenti occasioni sono stati svolti:
22 novembre 2002; incontro organizzato dalla Camera del
Lavoro territoriale di Reggio Emilia e dal Centro studi R 60 sul tema Terrorismo,
guerra, globalizzazione (le guerre come prosecuzione degli attuali processi di
globalizzazione?), Che cosa fare contro l’attuale deriva, con la
partecipazione di Giulietto Chiesa, Franco Ferretti, Adolfo Pepe.
11 luglio 2003; seminario su Catene al lavoro. Il
controllo sociale dentro e fuori la fabbrica organizzato in collaborazione
tra il Centro studi R 60 e l’Associazione Storie in movimento.
Hanno partecipato Luca Baldissara, Damiano
Palano, Maria Turchetto, Paola Zappaterra.
Questo intervento è comparso su "il
manifesto" del 3 ottobre 2003 nel trigesimo della morte di Claudio.
18 luglio 2003; assemblea pubblica organizzata dalla Fiom
di Bologna su La democrazia negata, con la partecipazione di Maurizio
Landini, Ignazio Masulli, Danilo Barbi.
Le tre iniziative sono state coordinate da Gabriele Polo.
È passato poco più di un anno. Un anno e qualche mese da quando a Reggio Emilia e poi a Bologna si pronunciavano parole pesanti perché pensate, pesanti perché ragionavano attorno a temi come guerra, libertà, democrazia, uomini e donne che lavorano.
È passato un anno dalla morte di Claudio
che quelle parole pronunciava.
Un anno eppure quelle parole sembrano
scritte per domani. Per chi oggi si interroga e ragiona attorno a quei temi.
Parole lucide lungimiranti e di una attualità straordinaria.
Sono le parole e i temi che hanno
accompagnato e segnato la vita di Claudio Sabattini: la vita perché per lui l’impegno
sindacale, prima di tutto, e l’impegno politico, era la vita stessa. E i
lavoratori, le loro condizioni, le loro lotte il paradigma da cui tutto
scaturisce, che tutto spiega. Anche la
guerra.
Già, la guerra. Per il lui davvero la
guerra era il male assoluto, l’insensatezza totale. Le immagini televisive di
uomini in armi avevano fatto riemergere una angoscia mai sopita che spesso gli
faceva ripetere: «Non esiste nessuna guerra accettabile. Non esiste nessuna
giustificazione per la guerra. E le vittime vere di ciascuna guerra sono i
bambini. Se un bambino conosce la guerra ne rimarrà segnato, per sempre».
Ed anche la guerra in Iraq non ha nessuna
giustificazione, anche se molto chiare sono le ragioni che a questa guerra hanno
portato. O perlomeno sono chiare a Claudio. In quelle motivazioni ci sono ancora
una volta, al fondo, i lavoratori. Perché quelle motivazioni si trovano dentro
la volontà egemonica "dell’impero" statunitense di occuparsi dei
propri affari ovviamente a livello globale.
Le ragioni della guerra scatenata dagli Usa
contro il paese mesopotamico sono le stesse che erano all’origine di quasi
tutti i conflitti armati che si sono accesi dalla fine della II° Guerra
mondiale, anche di alcuni di quelli che non hanno visto direttamente impegnati
gli americani: la grande potenza mondiale ha bisogno di continuare a fare
profitti.
Globale il mercato, il liberismo, il
capitalismo senza vincoli. Ed è proprio questo il cuore del problema che non
nasce oggi ma in quei terribili anni 80 di Reagan negli Stati Uniti, della
Tatcher in Inghilterra e dalla sconfitta alla Fiat in Italia che fu per noi l’inizio
di quel processo che in maniera vorticosa ma forse troppo silenziosamente ha
portato allo smantellamento totale di ogni vincolo sociale.
Oggi ci ritroviamo noi e il resto del mondo
occidentale immersi in un capitalismo ormai libero (ma come suona improprio
usare questo termine per definire un contesto così terribile) da ogni vincolo
che vuole ridurre uomini e donne a mera forza lavoro, strumento fra gli altri,
del processo produttivo. Semplici merci per la produzione di merci.
Il problema, o meglio il tema di
riflessione e di elaborazione culturale e politica che è al centro di questi
interventi, ma che era anche il fulcro attorno al quale ruotava l’attività
intellettuale, e non solo, di Claudio è proprio la ricerca di una
interpretazione e di una spiegazione della globalizzazione non come fenomeno
scaturito dalla favolosa e positiva innovazione tecnologica, che pure ne ha
certamente facilitato il diffondersi nelle forme contemporanee, ma come
necessità caparbiamente cercata per rispondere a quell’esigenza di
"occuparci degli affari nostri" onestamente espressa dai padri
fondatori degli attuali Stati Uniti.
La globalizzazione serve agli Usa per
affermare il proprio modo di concepire il rapporto con il mondo: mercato libero
mondiale all’interno del quale vige sostanzialmente la legge del più forte.
In questa ricostruzione non c’è, non c’era una demonizzazione senza
costrutto.
Anzi, quel paese esercitava su di lui un
grande fascino e agli americani riconosceva senz’altro alcune supremazie, ma
questo fascino non gli impediva la lucidità di analisi. E la sua passione per
la storia gli consentiva di cercare nel passato i fili che portano al presente.
I fili che portano all’oggi, dicevamo,
partono dall’80 e questi vent’anni sono serviti alla distruzione metodica ma
quasi totale di quello che con fatica e lotte durissime era stato conquistato
dal movimento operaio, innanzitutto il suo riconoscimento come soggetto sociale
che come tale era anche produttore di cultura. Ed alla fine la cultura americana
imperniata sull’individualismo e sulla lotta per l’affermazione di sé senza
vincoli, ha permeato l’Europa. Ma perché questo si potesse realizzare
occorreva che la classe operaia non fosse più classe, che il lavoro e i
lavoratori non fossero più al centro del processo di sviluppo, che non
esistesse più un soggetto in grado di rappresentare quella classe e quei
contenuti. In Italia questo processo ha trovato il suo luogo «generatore»
appunto nell’autunno dell’80 davanti ai cancelli della Fiat. Allora davanti
a quei cancelli, attorno ai fuochi dei picchetti non si è consumata una lotta
sindacale per temperare una tra le altre ristrutturazioni industriali. No, in
realtà su quei piazzali si è celebrato l’inizio di un percorso il cui
obiettivo era ed è quello di un ridimensionamento della soggettività delle
lavoratrici e dei lavoratori, di annullamento progressivo della loro libertà,
processo indispensabile all’affermazione di un capitalismo senza vincoli,
senza neanche il vincolo dato dalle donne e dagli uomini, che si gioca su un
mercato sempre più grande. Che certamente ha bisogno di allargarsi e che quindi
assume la guerra come uno tra gli strumenti per la propria conservazione e
affermazione.
Quanto in quei lunghi giorni di un autunno
abbiamo tutti quanti perso su quel piazzale senza che ve ne fosse nemmeno la
consapevolezza?
La questione, o una delle questioni,
infatti è proprio questa: la capacità di leggere gli avvenimenti del presente
e saperli proiettare nel futuro. Questa era, fra le altre, una delle capacità
migliori di Claudio, la lettura del presente gli dava le chiavi di
interpretazione del futuro.
Questa, forse, anche una delle ragioni del
non essere sempre compreso, dell’essere spesso considerato un poni problemi
invece che un risolutore di essi.
Ma se provassimo a leggere ciò che oggi in
Italia accade tenendo presente ciò che lui, inascoltato, ripeteva allora tra
Roma e Torino non potremmo che dargli ragione.
In un ordine che non è né quello
cronologico né quello logico proviamo ad elencare: l’adesione incondizionata
dell’Italia alla guerra, non solo in Iraq ma in Kosovo e in Afghanistan, lo
smantellamento pezzo pezzo dello stato sociale senza che questo sia avvertito
come un problema,
«Il soggetto diventa oggetto e l’oggetto
diventa soggetto, cioè la merce diventa soggetto e il soggetto diventa merce.
Non è un cambiamento radicale di cultura questo? Esiste forse un riconoscimento
della soggettività del sindacato da parte del capitalismo. O è vero che oggi
questo riconoscimento non esiste? - E questo non vuol dire proprio nulla, è un
dettaglio della battaglia sociale e politica in Italia? O è il punto principale
dell’attacco che sta avvenendo?». Quanto queste parole pronunciate un anno fa
parlano a noi oggi? Ma la ragione a posteriori, oltre che essere un giusto
riconoscimento di valore, ha poco senso. Poco senso se la memoria non torna ad
essere uno strumento vivo che consente di continuare a capire e ad imparare. Se
è così allora la battaglia per il diritto dei lavoratori ad esprimersi in
maniera vincolante su ciò che riguarda le proprie condizioni di lavoro, il
proprio destino, non è un esercizio retorico o la rivendicazione di un
sindacato maggioritario (la Fiom che Claudio ha saputo rivitalizzare) che vuole
vedere - per altro giustamente - riconosciuta la propria
rappresentatività. È uno strumento di affermazione, può darsi di difesa,
forse di ampliamento della democrazia.
È il modo per restituire ai lavoratori,
alle lavoratrici la dignità di soggetto sociale che si autodetermina. Ecco che
allora questa battaglia acquista un senso diverso. Si inserisce perfettamente
nel ragionamento sulla globalizzazione fatto fin qui. Ed era questo il modo, per
Claudio di concepirla. Lavoratori e lavoratrici non sono uno dei pezzi del
processo produttivo, sono il soggetto determinante del processo produttivo ed in
quanto tale deve decidere su se stesso in maniera autonoma e a maggioranza.
Questo è un elemento essenziale della democrazia, non della democrazia del
lavoro, ma della democrazia in quanto tale. Ed allora se ai lavoratori questa
soggettività non viene riconosciuta, se sono ridotti a merce, si riducono gli
spazi di democrazia. Questo da noi sta già avvenendo. È già avvenuto se per
due volte un contratto firmato dai due sindacati meno rappresentativi e non
sottoposto alla verifica dei lavoratori e delle lavoratrici è potuto entrare in
vigore, vuol dire che al sistema democratico del nostro paese è stato inferto
davvero un ferita profonda.
Quando Claudio poneva queste questioni, con
la forza e a volte con la brutalità che gli conoscevamo, aveva la
consapevolezza che il suo non era un ragionamento «sindacale» ma un pensare
culturale e politico. Aveva la consapevolezza che se al centro del ragionamento
si pone il
Per questo le parole di un anno fa - e
anche quelle più antiche - ci parlano oggi e ci parlano del futuro. Anche se ci
fanno sentire più acuta e più grave la perdita. Perché di altre parole
sentiamo la mancanza. Ci resta come eredità importante la memoria delle sue
parole e del suo pensiero da usare non come ricordo del passato ma strumento per
capire il presente e ostinarci a costruire un futuro diverso e possibile.
Gabriele Polo