presentazione di Gabriele Polo

Formato: 15x21 cm

Pagine: 60

Pubblicato in agosto 2004

A cura del Centro Studi R 60 in collaborazione con Fiom Bologna
e Fiom Reggio Emilia

Casa editrice: Edizioni Teorema

 

 

Claudio Sabattini - alcuni interventi. autunno 2002 - estate 2003

 

È stato pubblicato un volume che raccoglie alcuni interventi di Claudio Sabattini, tenuti nel corso del biennio 2002-2003. Il libro, a cura del Centro studi R 60 e promosso dalla Camera del lavoro di Reggio Emilia, in collaborazione con la Fiom di Bologna e di Reggio Emilia, è stato presentato in occasione del convegno "Politica industriale e modello contrattuale, tra sviluppo e declino", organizzato dalla Fiom a Melfi il 3 settembre 2004, a un anno dalla scomparsa del dirigente sindacale.

Come viene sottolineato nell’introduzione, si tratta di "testi  inediti,  con  l’eccezione  di  Il  lavoro  di  fronte al suo rovescio  (comparso  su "il manifesto"  del  3 ottobre 2003, in occasione del trigesimo), trascritti   dalla   registrazione   su   nastro. Conservano intenzionalmente  la  forma derivante dalla comunicazione orale, non avendo avuto Claudio la possibilità di rivederli".

Il volume è preceduto da una nota redazionale, dove vengono illustrati i convegni da cui sono tratti gli interventi e dalla presentazione di Gabriele Polo, condirettore de "il manifesto", che ha coordinato le tre iniziative pubblicate.

Il costo di ogni volume è di 3 euro, ma è possibile sottoscrivere quote maggiori. Il ricavato della contribuzione volontaria, fatte salve le spese per la pubblicazione, è destinato a un fondo istituito dalla Fiom per raccogliere, ordinare e pubblicizzare gli scritti e gli interventi di Claudio Sabattini.

Per richiedere copie della pubblicazione ci si può rivolgere al Centro studi R 60, presso la Camera del Lavoro territoriale di Reggio Emilia, via Roma 53 - 42100 Reggio Emilia - tel. 0522 457237/8  fax 0522 433668.

 

 

NOTA REDAZIONALE

Sono raccolti in questa pubblicazione alcuni degli ultimi interventi di Claudio Sabattini, del periodo compreso tra l’autunno del 2002 e l’estate del 2003. Li proponiamo nell’ordine cronologico in cui, nelle seguenti occasioni sono stati svolti:

22 novembre 2002; incontro organizzato dalla Camera del Lavoro territoriale di Reggio Emilia e dal Centro studi R 60 sul tema Terrorismo, guerra, globalizzazione (le guerre come prosecuzione degli attuali processi di globalizzazione?), Che cosa fare contro l’attuale deriva, con la partecipazione di Giulietto Chiesa, Franco Ferretti, Adolfo Pepe.

11 luglio 2003; seminario su Catene al lavoro. Il controllo sociale dentro e fuori la fabbrica organizzato in collaborazione tra il Centro studi R 60 e l’Associazione Storie in movimento.

Hanno partecipato Luca Baldissara, Damiano Palano, Maria Turchetto, Paola Zappaterra.

Questo intervento è comparso su "il manifesto" del 3 ottobre 2003 nel trigesimo della morte di Claudio.

18 luglio 2003; assemblea pubblica organizzata dalla Fiom di Bologna su La democrazia negata, con la partecipazione di Maurizio Landini, Ignazio Masulli, Danilo Barbi.

Le tre iniziative sono state coordinate da Gabriele Polo.

 

 

PRESENTAZIONE

È passato poco più di un anno. Un anno e qualche mese da quando a Reggio Emilia e poi a Bologna si pronunciavano parole pesanti perché pensate, pesanti perché ragionavano attorno a temi come guerra, libertà, democrazia, uomini e donne che lavorano.

È passato un anno dalla morte di Claudio che quelle parole pronunciava.

Un anno eppure quelle parole sembrano scritte per domani. Per chi oggi si interroga e ragiona attorno a quei temi. Parole lucide lungimiranti e di una attualità straordinaria.

Sono le parole e i temi che hanno accompagnato e segnato la vita di Claudio Sabattini: la vita perché per lui l’impegno sindacale, prima di tutto, e l’impegno politico, era la vita stessa. E i lavoratori, le loro condizioni, le loro lotte il paradigma da cui tutto scaturisce, che tutto spiega. Anche la guerra.

Già, la guerra. Per il lui davvero la guerra era il male assoluto, l’insensatezza totale. Le immagini televisive di uomini in armi avevano fatto riemergere una angoscia mai sopita che spesso gli faceva ripetere: «Non esiste nessuna guerra accettabile. Non esiste nessuna giustificazione per la guerra. E le vittime vere di ciascuna guerra sono i bambini. Se un bambino conosce la guerra ne rimarrà segnato, per sempre».

Ed anche la guerra in Iraq non ha nessuna giustificazione, anche se molto chiare sono le ragioni che a questa guerra hanno portato. O perlomeno sono chiare a Claudio. In quelle motivazioni ci sono ancora una volta, al fondo, i lavoratori. Perché quelle motivazioni si trovano dentro la volontà egemonica "dell’impero" statunitense di occuparsi dei propri affari ovviamente a livello globale.

Le ragioni della guerra scatenata dagli Usa contro il paese mesopotamico sono le stesse che erano all’origine di quasi tutti i conflitti armati che si sono accesi dalla fine della II° Guerra mondiale, anche di alcuni di quelli che non hanno visto direttamente impegnati gli americani: la grande potenza mondiale ha bisogno di continuare a fare profitti.

Globale il mercato, il liberismo, il capitalismo senza vincoli. Ed è proprio questo il cuore del problema che non nasce oggi ma in quei terribili anni 80 di Reagan negli Stati Uniti, della Tatcher in Inghilterra e dalla sconfitta alla Fiat in Italia che fu per noi l’inizio di quel processo che in maniera vorticosa ma forse troppo silenziosamente ha portato allo smantellamento totale di ogni vincolo sociale.

Oggi ci ritroviamo noi e il resto del mondo occidentale immersi in un capitalismo ormai libero (ma come suona improprio usare questo termine per definire un contesto così terribile) da ogni vincolo che vuole ridurre uomini e donne a mera forza lavoro, strumento fra gli altri, del processo produttivo. Semplici merci per la produzione di merci.

Il problema, o meglio il tema di riflessione e di elaborazione culturale e politica che è al centro di questi interventi, ma che era anche il fulcro attorno al quale ruotava l’attività intellettuale, e non solo, di Claudio è proprio la ricerca di una interpretazione e di una spiegazione della globalizzazione non come fenomeno scaturito dalla favolosa e positiva innovazione tecnologica, che pure ne ha certamente facilitato il diffondersi nelle forme contemporanee, ma come necessità caparbiamente cercata per rispondere a quell’esigenza di "occuparci degli affari nostri" onestamente espressa dai padri fondatori degli attuali Stati Uniti.

La globalizzazione serve agli Usa per affermare il proprio modo di concepire il rapporto con il mondo: mercato libero mondiale all’interno del quale vige sostanzialmente la legge del più forte. In questa ricostruzione non c’è, non c’era una demonizzazione senza costrutto.

Anzi, quel paese esercitava su di lui un grande fascino e agli americani riconosceva senz’altro alcune supremazie, ma questo fascino non gli impediva la lucidità di analisi. E la sua passione per la storia gli consentiva di cercare nel passato i fili che portano al presente.

I fili che portano all’oggi, dicevamo, partono dall’80 e questi vent’anni sono serviti alla distruzione metodica ma quasi totale di quello che con fatica e lotte durissime era stato conquistato dal movimento operaio, innanzitutto il suo riconoscimento come soggetto sociale che come tale era anche produttore di cultura. Ed alla fine la cultura americana imperniata sull’individualismo e sulla lotta per l’affermazione di sé senza vincoli, ha permeato l’Europa. Ma perché questo si potesse realizzare occorreva che la classe operaia non fosse più classe, che il lavoro e i lavoratori non fossero più al centro del processo di sviluppo, che non esistesse più un soggetto in grado di rappresentare quella classe e quei contenuti. In Italia questo processo ha trovato il suo luogo «generatore» appunto nell’autunno dell’80 davanti ai cancelli della Fiat. Allora davanti a quei cancelli, attorno ai fuochi dei picchetti non si è consumata una lotta sindacale per temperare una tra le altre ristrutturazioni industriali. No, in realtà su quei piazzali si è celebrato l’inizio di un percorso il cui obiettivo era ed è quello di un ridimensionamento della soggettività delle lavoratrici e dei lavoratori, di annullamento progressivo della loro libertà, processo indispensabile all’affermazione di un capitalismo senza vincoli, senza neanche il vincolo dato dalle donne e dagli uomini, che si gioca su un mercato sempre più grande. Che certamente ha bisogno di allargarsi e che quindi assume la guerra come uno tra gli strumenti per la propria conservazione e affermazione.

Quanto in quei lunghi giorni di un autunno abbiamo tutti quanti perso su quel piazzale senza che ve ne fosse nemmeno la consapevolezza?

La questione, o una delle questioni, infatti è proprio questa: la capacità di leggere gli avvenimenti del presente e saperli proiettare nel futuro. Questa era, fra le altre, una delle capacità migliori di Claudio, la lettura del presente gli dava le chiavi di interpretazione del futuro.

Questa, forse, anche una delle ragioni del non essere sempre compreso, dell’essere spesso considerato un poni problemi invece che un risolutore di essi.

Ma se provassimo a leggere ciò che oggi in Italia accade tenendo presente ciò che lui, inascoltato, ripeteva allora tra Roma e Torino non potremmo che dargli ragione.

In un ordine che non è né quello cronologico né quello logico proviamo ad elencare: l’adesione incondizionata dell’Italia alla guerra, non solo in Iraq ma in Kosovo e in Afghanistan, lo smantellamento pezzo pezzo dello stato sociale senza che questo sia avvertito come un problema, l’attacco ai diritti dei lavoratori a partire dalla lotta senza quartiere contro l’articolo 18, la mancata approvazione anche da parte dei governi di centro sinistra della Legge sulla rappresentanza, la Legge 30 e il Patto per l’Italia con quello che contengono sanciscono sostanzialmente la fine del contratto nazionale e del sindacato così come fin qui li abbiamo conosciuti e che però trova l’accordo di Cisl e Uil, fino ad arrivare all’esaltazione di Montezemolo come fosse il salvatore di tutti noi, salvo poi dover sentire a «sinistra» critiche a un sindacalista posato come Epifani perché non ha accettato di discutere un documento che voleva certificare la morte del contratto e quindi di uno degli ultimi baluardi del sindacato.

«Il soggetto diventa oggetto e l’oggetto diventa soggetto, cioè la merce diventa soggetto e il soggetto diventa merce. Non è un cambiamento radicale di cultura questo? Esiste forse un riconoscimento della soggettività del sindacato da parte del capitalismo. O è vero che oggi questo riconoscimento non esiste? - E questo non vuol dire proprio nulla, è un dettaglio della battaglia sociale e politica in Italia? O è il punto principale dell’attacco che sta avvenendo?». Quanto queste parole pronunciate un anno fa parlano a noi oggi? Ma la ragione a posteriori, oltre che essere un giusto riconoscimento di valore, ha poco senso. Poco senso se la memoria non torna ad essere uno strumento vivo che consente di continuare a capire e ad imparare. Se è così allora la battaglia per il diritto dei lavoratori ad esprimersi in maniera vincolante su ciò che riguarda le proprie condizioni di lavoro, il proprio destino, non è un esercizio retorico o la rivendicazione di un sindacato maggioritario (la Fiom che Claudio ha saputo rivitalizzare) che vuole vedere -  per altro giustamente - riconosciuta la propria rappresentatività. È uno strumento di affermazione, può darsi di difesa, forse di ampliamento della democrazia.

È il modo per restituire ai lavoratori, alle lavoratrici la dignità di soggetto sociale che si autodetermina. Ecco che allora questa battaglia acquista un senso diverso. Si inserisce perfettamente nel ragionamento sulla globalizzazione fatto fin qui. Ed era questo il modo, per Claudio di concepirla. Lavoratori e lavoratrici non sono uno dei pezzi del processo produttivo, sono il soggetto determinante del processo produttivo ed in quanto tale deve decidere su se stesso in maniera autonoma e a maggioranza. Questo è un elemento essenziale della democrazia, non della democrazia del lavoro, ma della democrazia in quanto tale. Ed allora se ai lavoratori questa soggettività non viene riconosciuta, se sono ridotti a merce, si riducono gli spazi di democrazia. Questo da noi sta già avvenendo. È già avvenuto se per due volte un contratto firmato dai due sindacati meno rappresentativi e non sottoposto alla verifica dei lavoratori e delle lavoratrici è potuto entrare in vigore, vuol dire che al sistema democratico del nostro paese è stato inferto davvero un ferita profonda.

Quando Claudio poneva queste questioni, con la forza e a volte con la brutalità che gli conoscevamo, aveva la consapevolezza che il suo non era un ragionamento «sindacale» ma un pensare culturale e politico. Aveva la consapevolezza che se al centro del ragionamento si pone il lavoro, le lavoratrici e i lavoratori, si ragiona del mondo. Cosa che oggi ci costringe a confrontarci con l’assenza di una rappresentanza politica all’altezza dei bisogni di chi rappresentanza non ha quasi più: non tanto un’alleanza o un «semplice» programma, ma una vera e propria identità dell’agire pubblico, la ricerca dell’autonomia vera e radicale dal pensiero unico del mercato e dalle sfumature dei tanti che lo vogliono - quello sì - rappresentare.

Per questo le parole di un anno fa - e anche quelle più antiche - ci parlano oggi e ci parlano del futuro. Anche se ci fanno sentire più acuta e più grave la perdita. Perché di altre parole sentiamo la mancanza. Ci resta come eredità importante la memoria delle sue parole e del suo pensiero da usare non come ricordo del passato ma strumento per capire il presente e ostinarci a costruire un futuro diverso e possibile.

 

Gabriele Polo