Il realismo della radicalità. tratto da "liberazione " del 2 settembre 2004 Domani la Fiom ricorda a Melfi Claudio Sabattini a un anno esatto dalla sua morte. La scelta della sede nasce non solo dall’importanza che quest’anno ha avuto la lotta dello stabilimento Fiat, ma anche dal dolore per il fatto che Claudio Sabattini non abbia potuto vedersi avverare una delle sue tante intuizioni felici: che la lotta in fabbrica sarebbe ripartita da Melfi. In questi giorni domina sulla stampa la crisi dell’Alitalia. Mi viene allora in mente che Claudio Sabattini soleva spesso ricordare che la svolta antisindacale nel mondo occidentale, cominciò negli Usa, con il licenziamento di 15.000 controllori di volo all’inizio dell’80 da parte di Ronald Reagan. Oggi di fronte ad una direzione aziendale e ad un governo che, per far ripartire l’azienda, pongono come condizione lo smantellamento di ogni forma di garanzia e diritto contrattuale di lavoratori, sono sicuro che Claudio saprebbe ben interpretare il significato generale di questo attacco. Che, del resto, è lo stesso che c’è in Francia o in Germania, nei tanto esaltati “accordi”, ove si impone ai lavoratori di rinunciare a salari e diritti sotto la minaccia della perdita dell’occupazione. E’ questa nuova offensiva contro i diritti e la contrattazione, per la flessibilità selvaggia del lavoro, che rende di urgente attualità tutta l’elaborazione di Claudio Sabattini. Soprattutto dopo gli accordi separati e di fronte al crollo da destra di quel sistema concertativo, nel quale per un periodo aveva investito in termini difensivi, Claudio aveva sviluppato un’analisi impietosa quanto rigorosa della crisi sindacale. Nel contesto del liberismo il sindacato era condannato all’estinzione. Almeno, questa era la fine che inevitabilmente sarebbe giunta per una organizzazione sindacale fondata sui principi della solidarietà e dell’uguaglianza. Un sindacalismo di “mercato”, cioè collocato in nicchie burocratiche e aziendaliste come organizzatore della flessibilità, qualche spazio l’avrebbe sempre avuto, ma questa sarebbe stata un’altra storia. Da questo rigorosissimo pessimismo non nascevano certo passività o rassegnazione. Al contrario da qui partivano un’analisi e una proposta d’azione, radicali quanto realistiche. La fine della concertazione italiana, la fine dei vari sistemi europei di patto sociale, il tracollo del sindacalismo americano, portano in sè il nucleo di una possibile ricostruzione. Non si tratta di inseguire patti sociali o accordi centralizzati, che possono solo ricontrattare in peggio le intese precedenti. Bisogna invece ripartire da là ove sono ripartiti i padroni per sconfiggere il sindacato: dall’organizzazione del lavoro, dalla gestione della impresa, dalla condizione concreta delle persone che vivono sulla propria pelle gli effetti del liberismo. E questa ripresa va collocata nella diffusione della contestazione al liberismo, nella contaminazione con i movimenti. Per questo la Fiom è andata a Genova. La lotta di Melfi è stata una prima realizzazione di questa intuizione e di questa speranza. Essa ha immediatamente assunto un significato generale, è stata vissuta come propria da milioni di lavoratori, anche lontanissimi come condizione concreta dagli operai Fiat, proprio per il suo immediato significato generale. Davanti ai cancelli della fabbrica venivano rapidamente ribaltati i luoghi comuni di venti anni di egemonia liberista. Si scopriva che nello stabilimento modello, c’era un lavoro duro, c’era sfruttamento, c’era oppressione materiale e psicologica, c’era repressione. Stupefatti commentatori erano costretti ad ammettere che gli operai esistevano ancora, che l’economia non era mossa solo dagli indici di borsa, dai computer, dalle luci e dai suoni dei mass media, ma che dietro anche al più informale dei lavori, c’erano sempre persone in carne ed ossa, con problemi di tempi, ritmi, orari, salari e diritti. La lotta di Melfi ha squarciato il velo ideologico che copre il lavoro e il suo valore, velo indispensabile per tenere in piedi la baracca liberista. Senza quel velo, essa appare in tutto il suo squallore, la sua ingiustizia, la sua stupidità, con esso invece mantiene una apparente razionalità. Gli operai di Melfi, poi, hanno rifiutato quell’idea del lavoro come compassionevole elemosina, che è alla base dell’attacco delle imprese ai diritti. Potrei investire altrove, dice il padrone, dove gli operai chiedono meno e non hanno sindacato, se sono così buono da restare qui, tu te lo devi meritare. Ecco, gli operai di Melfi hanno detto basta a questo ricatto, hanno detto no alle gabbie salariali e dei diritti, e così, con la lotta di un solo stabilimento, hanno mostrato a tutti il valore del contratto nazionale. Infine gli operai di Melfi hanno voluto decidere loro. Davanti ai cancelli in lotta, così come con il referendum sull’intesa, essi hanno detto con chiarezza che non c’è ripresa sindacale senza democrazia sindacale e che la separazione dei destini dell’organizzazione da quelli delle lavoratrici e dei lavoratori che deve rappresentare, è quanto di più assurdo e autolesionista possa accadere ad un sindacato. A mio parere il merito principale della Fiom in questa vertenza è stato proprio quello di stare fino in fondo assieme ai lavoratori, anche nei momenti drammatici, anche in quella drammatica assemblea del 29 aprile, splendidamente raccontata dal film di Stefano Consiglio. In quell’assemblea la Fiom si è battuta per una certa scelta di lotta, ma avendo già deciso di stare in ogni caso con i lavoratori, quale che fosse il loro voto. Nella centralità della democrazia e del protagonismo dei lavoratori per fronteggiare l’attacco liberista, ritroviamo ancora una volta l’elaborazione e le scelte di Claudio Sabattini. La rottura del 2001 con Fim e Uilm nel contratto, avvenne prima di tutto sulla democrazia. Claudio era consapevole, nel momento in cui proponeva questa scelta, che essa non segnava una parentesi, ma indicava una nuova strada. Nel novembre del 2001 parlando in piazza San Giovanni a 200 mila metalmeccanici, Sabattini disse che nessuno poteva illudersi che quella in corso era solo una nottata, di cui, come nella commedia di Eduardo, si doveva aspettare la fine. La lotta di Melfi, i conflitti che si annunciano di fronte all’attacco alla contrattazione che il liberismo scatena in Italia e in Europa, ci dicono che l’unica alternativa alla rassegnazione e al declino è quella della ricostruzione democratica del sindacato e delle sue capacità di lotta. Giorgio Cremaschi |