XXIII Congresso Nazionale Fiom

Intervento di Noam Wiener, riservista israeliano, refusnik

 

Mi chiamo Noam Wiener, ho 29 anni e sto studiando per un dottorato alla Facoltà di Legge dell’Università di Tel Aviv. Ho anche un alter ego: sono un capitano riservista nell’esercito israeliano. Sono stato chiamato all’età di 18 anni, come la maggior parte dei ragazzi ebrei israeliani. Sono andato nel reggimento paracadutisti ed ho passato i quattro anni successivi ad imparare come essere efficace nel correre e nello sparare.

Durante il mio servizio militare che si è svolto in quelli che qualcuno chiama gli anni di Oslo, 1993-1997, ho passato un bel po’ di tempo nei territori conquistati da Israele con la guerra del  1967.

Ciò che ho visto e sentito in quegli anni, quando pensavo di star “mantenendo la pace fino a che fosse finita l’occupazione”, ha provocato il mio rifiuto di servire l’esercito oggi, dal momento che adesso ho realizzato che l’attuale Governo di Israele non ha alcuna intenzione di mettere fine all’occupazione. E di questo vorrei parlare qui. Nel mio intervento cercherò di spiegare la quantità di violazioni dei diritti umani nella vita quotidiana della popolazione occupata, con due premesse.

Parlerò del male dell’occupazione e delle azioni dell’esercito israeliano. Dirò cose dure sul modo in cui Israele ha trattato la popolazione araba della Cisgiordania negli ultimi 37 anni. Non parlerò del male del terrorismo, ma voglio che risulti molto chiaro che non è perché io o alcuno dei miei amici giustifica il terrorismo o pensa che sia giusto farsi esplodere in un supermercato ammazzando innocenti clienti. Tali azioni non sono mai giustificabili, neanche quando sono fatte in risposta ad un carro armato israeliano che bombarda un quartiere abitato – che è altrettanto ingiustificabile anche se è la risposta ad un attacco in un bar, e così all’infinito.

Voglio anche dire qualcosa sul perché fare quest’intervento all’estero. Trovo che attualmente il dialogo dominante è un dialogo dicotomico. Uno o è un propalestinese che diffonde l’idea che Israele è uno Stato diabolico basato sulla discriminazione e la bigotteria, oppure un pro Israele, che sostiene l’idea che i palestinesi sono tutti terroristi incapaci di sentimenti umani. La narrazione dicotomica impedisce qualsiasi possibilità di costruire a un dialogo moderato. Per esempio, il conflitto e l’antisemitismo sono usati da entrambe le parti come “trappole” per giustificare la propria causa: gli antisemiti e quelli che negano il diritto all’esistenza dello stato di Israele usano l’occupazione per giustificare la loro posizione, mentre la destra israeliana usa l’antisemitismo per rigettare automaticamente qualsiasi critica come illegittima – come se il popolo che vive in un paese che viola i diritti umani non avesse diritto ad una identità nazionale e come se tutta la politica israeliana fosse sempre al di là di qualsiasi rimprovero e perciò ogni critica fatta contro di essa è antisemita.

Credo sinceramente che questa narrazione vada cambiata, che se gli israeliani devono poter spiegare il loro diritto ad una esistenza sociale libera, non possono chiudere gli occhi sugli errori dell’occupazione. Se la gente crede che Israele ha diritto ad esistere e che l’occupazione è sbagliata e dannosa per la società israeliana (come cercherò di dimostrare tra un minuto), devono dirlo ad alta voce e senza vergogna. Perché un cambiamento avvenga, il dialogo dicotomico deve essere sostituito da un confronto che riconosca che può esserci una critica nei confronti di uno Stato senza che questo neghi il suo diritto ad esistere e che qualche volta le critiche possono essere costruttive.

Tutti noi abbiamo storie sanguinose, alcune più lontane, altre recenti, ma questo non evoca il nostro diritto all’identità culturale e alla autodeterminazione.

E allora che cos’è questa occupazione di cui parlo tanto? Nel 1967 l’esercito israeliano spinse l’esercito giordano ad est del Giordano e quello egiziano ad ovest del canale di Suez. A sud questo portò l’intero Sinai e la striscia di Gaza sotto il controllo israeliano, a nord le alture del Golan e ad est l’intera area conosciuta come riva occidentale del Giordano, territori che io conosco in ebraico con il loro nome biblico, Giudea e Samaria.

Queste terre non erano vuote. Gaza è densamente popolata sia da abitanti della città che da profughi nei campi, che hanno lasciato, sono scappati, sono stati cacciati fuori da Israele nel 1948. Sulla riva occidentale, Cisgiordania, c’è anche una numerosa popolazione sparsa tra 7 grandi città e moltissimi villaggi e townships.

Per molte ragioni, che per mancanza di tempo non spiego, da quelle religiose all’adozione di teorie dell’espansionismo per ragioni di sicurezza, Israele non ha lasciato i territori occupati. E poi ha fatto quello che io vedo come la radice di tutto il problema: ha cominciato a insediare colonie israeliane nei territori occupati. Questo è proibito dal diritto internazionale secondo la 4 Convenzione di Ginevra, divieto non senza ragione. Una volta che si comincia a mettere colonie in territori occupati, la disuguaglianza diventa strutturale. Nei territori occupati gli occupanti hanno diritti e status legali pieni; gli “abitanti” sono solo entità semilegali con diritti limitati – e questo lo dovete sempre avere in mente perché è la chiave del problema.

Lo dimostrerò usando la “barriera per la sicurezza”. In un paese democratico, la requisizione e l’esproprio della terra è fatto da un governo eletto e in teoria se la popolazione è scontenta di quanto fa quel governo lo può cambiare. Questo naturalmente non è possibile nei territori occupati dove la popolazione non ha diritti politici. Per cui qui si vede un primo fondamentale problema del mettere occupanti in territori occupati – solo una parte può decidere per tutti. In Israele, per espropriare terre, i passi appropriati vanno fatti da un comitato per la pianificazione secondo i piani regionali regolatori. I piani regionali per le diverse aree sono definiti da appositi comitati nominati dai consigli regionali eletti. Come ho detto prima la popolazione occupata non ha diritti politici non può votare e quindi non ha suoi eletti nei consigli regionali. Piuttosto sorprendente, non ci sono palestinesi nel comitato pianificatore e per qualche strana ragione, acri di terra di proprietà palestinese vengono espropriati per il muro e così vediamo: mancanza di diritti politici, cioè mancanza di rappresentanza, smette di essere uno sbaglio metafisico filosofico  che impedisce ai palestinesi di manifestare la propria identità nazionale, e diventa un vero pericolo per il loro diritto a vivere sulla terra. Questo è naturalmente solo un aspetto di ciò che l’occupazione significa in campo strettamente legale. Lo stesso vale per innumerevoli piccole cose nella vita quotidiana.

Quando si prendono decisioni per un’intera popolazione senza che essa abbia la possibilità di dire la sua, la decisione diventa arbitraria e la reazione all’arbitrio non sarà mai positiva. Questa insoddisfazione nel tempo lungo porta alla resistenza. Ed ecco che abbiamo creato il problema della sicurezza. Ora, si deve comprendere che in un paese dove la gran parte della popolazione ha una reale esperienza o memoria personale dell’olocausto e dove vicini ostili rappresentano una effettiva minaccia all’esistenza, le persone sono naturalmente consapevoli della sicurezza nazionale. Così consapevoli che in nome della sicurezza è considerato accettabile quasi tutto.

Questo è dove la violazione dei diritti umani è più visibile, questo è quello che ci si aspetta che io faccia quasi trenta giorni all’anno (in quanto riservista, n.d.r.) e questo è ciò con cui non avrò mai più niente a che fare.

Come ho detto prima non descriverò atrocità. I soldati israeliani non violentano le donne palestinesi, gli uomini non sono massacrati a migliaia. La repressione di cui parlo è una lunga e costante repressione. Per dare un esempio della violazione dei diritti umani, descrivo una serie di blocchi stradali ad Hebron, come erano nel 1994, quando ero lì. Tra la città vecchia, e la zona delle fabbriche del vetro, in uno spazio di circa un miglio, ci sono 7 o 8 blocchi stradali da passare. Ad ognuno di questi blocchi i soldati possono, a discrezione, con proprie modalità, decidere di fare qualsiasi cosa, dal controllo dei documenti al far uscire l’autista dalla macchina per una rapida perquisizione, fino a far smontare dall’autista i sedili dell’auto, vuotare il serbatoio e togliere la ruota di scorta e la batteria. Ci si può immaginare che cosa succede quando una intera città al mattino deve passare questi blocchi. E tenete presente che ho descritto ciò che è permesso dagli ordini militari. Tuttavia, non è raro che un soldato di 18 anni  che non è stato a casa da molto tempo ed è arrabbiato perché i suoi commilitoni non lo hanno sostituito in tempo a fine turno, passa il tempo trattenendo un autista per qualche ora, immaginando che l’autista lo abbia guardato in modo strano. Forse non è realmente terribile aspettare un’ora per 7 o 8 blocchi stradali, ma se alla fine delle quali ore capita di avere le proprie cose perquisite da un esercito occupante, e questo ogni giorno per 35 anni: mi pare che possa essere una dura offesa a ciò che in Israele amiamo definire il diritto alla dignità.

Un altro chiaro esempio di come i fondamentali diritti umani possono essere calpestati in nome della sicurezza è la demolizione delle case per creare “dissuasione”: l’equazione è più o meno questa: i terroristi uccidono civili israeliani = la casa dei parenti e familiari dei terroristi viene distrutta – e poiché è illegale punire persone a causa di un legame familiare con un criminale, la motivazione ufficiale è che la demolizione è un deterrente contro nuovi terroristi che hanno a cuore le proprie famiglie. Ora, insieme al fatto che questo modo di fare è completamente inutile nella dissuasione dei terroristi, - in qualsiasi modo si guarda, i familiari finiscono senza casa perché sono parenti di un criminale. Confesso di non aver studiato diritto penale, così ciò che dico si basa solo sul mio buon senso – ma quando sei punito, sei punito, quando la tua casa viene distrutta, sia che lo sia per dissuasione nei tuoi confronti che di altri, la punizione c’è e il tuo diritto fondamentale alla proprietà e ad avere un tetto sopra la testa è stato cancellato.

Sono solo due esempi ma erano regola comune per la vita quotidiana nella Cisgiordania, con una breve pausa nei giorni di Oslo, in una area limitata controllata dall’Autorità Palestinese. Poi le cose si sono messe peggio da settembre 2000. Le violazioni non sono più state rispetto ai singoli e l’esercito di Israele ha imposto la sua legge. Le città sono state messe sotto assedio, le strade scavate e l’intera popolazione è diventata ostaggio. Un esempio della brutalità usata lo abbiamo visto quando Israele ha demolito circa 60 case a Rafah, nel gennaio 2001, una settimana prima del mio rifiuto, con la motivazione di voler fermare il traffico d’armi dall’Egitto, guarda caso due giorni dopo che tre soldati israeliani erano stati uccisi al confine della striscia di Gaza – inutile dire che la rappresaglia non è compresa tra le ragioni per cui la Convenzione di Ginevra possa giustificare la demolizione di case. Tra l’altro l’esercito presentò le proprie scuse per avere demolito per sbaglio 30 case. Ignorare i diritti umani è diventata la regola, e non si usa più neanche la falsa retorica – quando i cannoni ruggiscono, le muse tacciono. L’escalation è stata visibile quando a maggio di quest’anno l’esercito ha distrutto un numero molto più ampio di case nella stessa area.

Così i lati delle strade a Gaza sono spianati per 150 yards per lato, per proteggere i coloni. Ecco di nuovo, la parola magica: sicurezza. Come se radere al suolo una casa che si trova vicino ad una strada, con il preavviso di un’ora, creasse sicurezza. Certo, la strada adesso sarà più sicura dal momento che nessuno può usare la casa per coprirsi se attacca un carro armato. Ma quanti terroristi abbiamo creato tirando giù case? Che tipo di sentimento ci si può aspettare da un ragazzino di 12 anni che vede tirar giù la sua casa per la sola ragione che si trovava vicina a dove Israele aveva deciso di costruire una strada per i suoi coloni? E anche se questo eliminasse effettivamente una qualche parte di pericolo, la quantità di pericolo eliminata non è in alcun modo proporzionata al danno causato.

Questo continuo abuso dei diritti umani e questa umiliazione della popolazione palestinese è la ragione per la quale ho deciso di rifiutarmi di servire nei Territori. Non sarò mai più un occupante.

E adesso voglio brevemente illustrare il lato politico del nostro rifiuto. Questo mio rifiuto non si limita solo ad una obiezione di coscienza individuale. Quando i miei amici ed io abbiamo pubblicato la nostra lettera di dichiarazione del rifiuto, abbiamo trasformato sui giornali la nostra obiezione da un semplice atto di coscienza in azione politica. Abbiamo dichiarato il nostro rifiuto alla televisione nazionale e ai giornali perché pensiamo che la dimensione privata non sia sufficiente. Crediamo che l’occupazione non è solo distruttiva perché disumanizza i palestinesi e causa massacri per palestinesi e israeliani, ma anche perché corrompe la morale pubblica israeliana dall’interno e questa corruzione è quella che alimenta l’occupazione.

Specifico con un esempio. Circa un anno e mezzo fa l’Aviazione israeliana in uno dei suoi assassinii mirati (sentenze di morte extragiudiziali) scaricò una bomba di 1000 chili su un quartiere residenziale di Gaza. La bomba uccise il “bersaglio” e altre 11 persone, molti di loro bambini. Qualche settimana dopo, in una intervista su un quotidiano israeliano (Haaretz), il giornalista chiese al Capo di stato Maggiore dell’Aviazione che cosa prova un pilota quando scarica una bomba da una tonnellata su un quartiere abitato, e si aspettava di sentire che c’è una lotta interiore tra la necessità di uccidere il terrorista e il danno che si può fare a chi c’è intorno. Il generale rispose: “Un leggero colpo sulle ali dell’aereo”. Ora, che il Comandante dell’Aviazione sia un militante bellicista-non è una gran notizia. Ma che egli abbia pensato che non ci sarebbe stata una forte reazione a una simile dichiarazione, che l’opinione pubblica israeliana non si sia indignata, chiedendo il suo licenziamento, mostra che siamo diventati ciechi alle sofferenze di un altro popolo.

E’ questa cecità, è questo sguardo banale di Israele sull’occupazione, la cosa con cui mi è diventato più difficile convivere, è questa banalizzazione che tiene il paese in ostaggio dell’estrema destra. Io, noi, sentiamo che è come se un velo fosse calato sugli occhi della nazione. E lo scopo di questo velo è la disumanizzazione della popolazione occupata in modo che la gente non faccia più caso a ciò che essi fanno. Lo scopo della pubblicizzazione del nostro rifiuto era cercare di tirar via questo velo.

Non credo che dal lato di Israele ci sia una cecità intenzionale. Proprio come credo che i francesi non fossero volontariamente ciechi in Algeria o gli Italiani durante il regime fascista. E’ un fatto triste della storia, che è possibile far credere seriamente a un popolo di essere minacciato e che l’unica soluzione è quella loro offerta dal Governo. E’ per questo fatto triste che abbiamo pubblicato la nostra lettera, cercano di mostrare che c’è una alternativa alla forza bruta. E’ per questo “specchio” che abbiamo messo di fronte agli occhi della nazione che abbiamo provocato una tale reazione in Israele.

Abbiamo cominciato in 52, adesso siamo forti di più di 615. Facciamo progressi e abbiamo un impatto sull’opinione pubblica israeliana. Ma non abbastanza. C’è ancora molto lavoro da fare. Scriviamo, facciamo manifestazioni, cerchiamo di farci sentire ovunque sia possibile. La settimana scorsa, 8 di noi sono stati arrestati in una manifestazione contro le azioni dell’Esercito israeliano su Rafah. Cerchiamo di fare la differenza.

Presto o tardi le parti capiranno che uno Strato palestinese dovrà esistere, a fianco di uno Stato Israeliano. Ma disgraziatamente questa comprensione avverrà, se mai avverrà, quando entrambi le parti saranno stanche di versare sangue, questo è quello che ho capito. Grazie.