XXIII Congresso Nazionale Fiom

 Relazione di Gianni Rinaldini, segretario generale.

 

Compagni e compagne,

P1000314.gif (420586 byte)siamo all’atto conclusivo di un Congresso anticipato che ha registrato una partecipazione superiore alle previsioni con 210.000 metalmeccanici che hanno votato e scelto sulle due mozioni che sono state oggetto della nostra discussione.

I risultati sono noti, ma ciò che mi interessa richiamare e sottolineare è l’esercizio di democrazia che abbiamo espresso, perché sono assolutamente convinto che la democrazia, il confronto, quando ci sono posizioni diverse, in una organizzazione di massa, rappresenta un elemento di forza e non di debolezza se è vissuto in quanto tale, dall’insieme del gruppo dirigente .

Fa parte del passato, di un passato che ci dobbiamo lasciare alle spalle, l’idea e la pratica che il confronto tra analisi, proposte diverse significa lacerazione, divisione e non, viceversa, la vita normale di una organizzazione democratica.

Del resto noi, la Fiom , che abbiamo fatto della democrazia, del rapporto democratico con l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici aspetto identitario del nostro agire, non possiamo che concepire in questo modo la vita interna della nostra organizzazione.

Così come avviene nel rapporto con i lavoratori, c’è il momento del confronto, il momento del voto e l’assunzione delle decisioni che impegnano tutti.

Alla base della discussione del nostro Congresso vi è la necessità di definire le nostre scelte, le nostre proposte nella situazione assolutamente drammatica che attraversa il nostro paese che è parte di una situazione internazionale che abbiamo più volte denunciato.

Abbiamo alle spalle quattro anni di intese separate, compresa l’intesa separata sul Ccnl che vuole dire la massima espressione possibile della rottura delle relazioni sindacali, e nello stesso tempo un susseguirsi di atti legislativi che hanno ridefinito l’insieme dei rapporti di lavoro subordinato e con essi l’assetto sociale complessivo del paese.

A me pare persino ovvio affermare che non esiste più un sistema di regole, così come mi pare persino banale ribadire che quel sistema, quel patto sociale del 23 luglio non è riproponibile stante il fatto che tutte le scelte compiute da Governo e Confindustria sono state fatte contro le posizioni espresse dalla Cgil e dalla Fiom.

A fronte di tale sconvolgimento sociale credo che sia superfluo dilungarsi su una lunga elencazione dei singoli aspetti dei provvedimenti legislativi assunti e del patto sciagurato tra Governo e Confindustria, ritengo più utile per tutti soffermarmi sulla chiave di lettura di ciò che sostanzia il progetto politico e sociale in atto nel nostro paese e a livello internazionale.

Perché questo abbiamo fatto, questo ha fatto la Fiom in un periodo non sospetto, nel ’96 allora vi era il governo dell’Ulivo, con due passaggi fondamentali:

Il convegno di Maratea e successivamente il Congresso, quello per intenderci dell’indipendenza della Fiom, rispetto a Governo, padroni e forze politiche.

Fu allora che la Fiom definì una analisi dei processi sociali, politici e culturali in atto individuando nell’affermazione del neoliberismo e della globalizzazione governata dagli Stati Uniti la radice profonda di uno sconvolgimento sociale che avrebbe travolto e messo in discussione tutti gli assetti sociali e politici conosciuti compresi quelli più consolidati nel tempo.

La competizione globale su scala planetaria dove ogni impresa, ogni gruppo di lavoratori e di lavoratrici è in competizione con quello che gli sta a fianco e tutto deve essere ricondotto a questa esigenza primaria, alla riduzione del lavoro come una merce tra le merci, come funzione, fattore produttivo dell’impresa.

Si immagina in questo modo la società e il mondo come un insieme di individui liberi, socialmente eguali che in quanto tali relazionano secondo le leggi del mercato.

Deriva da questa idea della società la democrazia ridotta a plebiscitarismo, nel rapporto tra il leader e i cittadini e la riduzione di tutti gli spazi di partecipazione e di democrazia dei soggetti sociali.

Non è un caso che nel famoso rapporto del presidente degli Stati Uniti sulla guerra preventiva, nell’enucleare i valori fondamentali e universali che devono affermarsi ovunque si  indica la libertà di impresa.

Non è un caso che nel trattato costituzionale europeo si parla di mercato e di libertà di impresa, mentre la Costituzione del nostro paese recita, all’articolo 1 che “ la Repubblica è fondata sul lavoro.”

Sta qui la radice della pretesa contrapposizione tra libertà e democrazia, tra libertà e contrattazione come espressione autonoma e democratica di un altro punto di vista, di un altro interesse generale.

C’è in questo un elemento di rottura con la stessa cultura europea.

È proprio della cultura europea il fatto che la società è fondata sullo Stato e sul rapporto tra Stato e cittadini, per cui lo Stato è garante dei cittadini, da cui deriva la cultura dei diritti e del sistema di sicurezza sociale.

Viceversa nell’esperienza e nella cultura americana è il cittadino il fondatore dello Stato, e quindi lo Stato ha funzioni di limitazioni di quelle libertà che altrimenti sarebbero nocive per la società.

La fase che stiamo attraversando è quella di una globalizzazione guidata dall’egemonia economica, sociale, culturale e militare degli Stati Uniti che considera incompatibile l’esistenza di qualsiasi vincolo di natura sociale, internazionale e ambientale al libero dispiegarsi della logica del mercato che tutto riconduce ad una dimensione di merce.

In questo schema:  

  • la cultura dei diritti viene superata perché sostituita dalla cultura delle opportunità che vuole dire che la società si suddivide tra chi è capace di cogliere le opportunità e chi per colpa sua rimane indietro. Nelle elaborazioni più sofisticate viene chiamata la società della conoscenza dove gli individui si dividono tra chi coglie le opportunità della conoscenza e chi per colpa sua rimane indietro.
  • La cultura dei diritti nel lavoro è superata dalla cultura delle opportunità nel mercato del lavoro.
  • La cultura del sistema di sicurezza sociale, dello Stato sociale, è sostituita dalla cultura della libertà di ogni singolo individuo di costruirsi il proprio sistema di sicurezza.
  • La flessibilità, ovvero la precarietà, diventa una condizione di libertà individuale a cui aspirerebbero le giovani generazioni.

Potrei continuare l’elenco ma ciò che impressiona è come queste enunciazioni siano state presentate nel corso di questi anni come aspetti innovativi, moderni.

A me pare, francamente, che con un piccolo sforzo intellettuale si possa facilmente capire che queste sono le ragioni per cui i lavoratori e le lavoratrici fondarono le organizzazioni sindacali per superare quella condizione di debolezza e affermare collettivamente un potere negoziale.

La contrattazione come espressione democratica di un altro punto di vista è considerata incompatibile. Il Ccnl come espressione di un valore generale di solidarietà non c’entra nulla con la competitività. In questo quadro esiste soltanto una contrattazione, se vogliamo chiamarla così, di accompagnamento dei processi sociali già predeterminati nella legislazione.

L’intesa separata nel rinnovo del biennio economico del 2001, ha rappresentato da questo punto di vista, l’inizio dell’offensiva per superare il Ccnl. Altra cosa è ragionare su una politica di riforme che sia finalizzata alla crescita qualitativa del lavoro, della formazione e della società.

È questa analisi sulla profondità dei processi in atto che ha portato la Fiom a essere parte attiva fin dall’inizio nella costruzione del movimento mondiale che contesta e contrasta non la globalizzazione, ma questa globalizzazione. Per questo eravamo a Genova anche quando la Cgil non aveva ancora compiuto questa scelta.

Ma soprattutto abbiamo detto che la guerra stava diventando in questo scenario uno strumento permanente per governare questa idea del mondo, dal Kosovo all’Afghanistan e adesso l’Iraq, la guerra …e la nostra scelta non poteva che essere netta e precisa.

Il ripudio della guerra così come dice la nostra Costituzione.

La nostra condanna del terrorismo è assoluta, ma la guerra non serve a colpire il terrorismo, ne alimenta la crescita, ne estende l’area di influenza.

Lo vogliamo ribadire in occasione della visita del presidente degli Stati Uniti, chiediamo il ritiro di tutte le forze militari che hanno occupato l’Iraq, che rappresenta la condizione per rendere credibile una presenza dell’Onu.

Chiediamo contemporaneamente che l’Onu e l’Unione europea agiscano per fermare le iniziative del governo israeliano di Sharon assumendo l’accordo di Ginevra.

È sotto gli occhi di tutti la crisi degli organismi internazionali, da quelli finanziari e commerciali, fino all’Onu, i quali o sono piegati alla logica di questa globalizzazione oppure sono resi inutili e inefficaci.

La guerra preventiva assume anche questo significato e la costruzione di un nuovo ordine internazionale è inscindibile dall’affermazione dei diritti sociali e civili, dalla democratizzazione degli organismi internazionali.

In questo contesto l’Europa rappresenta una possibilità, che non è quella dell’Europa monetaria e di un mercato unico più ampio, ma quello di un’Europa sociale e politica fondata sul ripudio della guerra, sui diritti e sul lavoro.

Sono queste le ragioni che ci hanno portato a giudicare negativamente l’ipotesi di trattato costituzionale europeo.

Saremo presenti alle manifestazioni previste in questi giorni, in occasione della visita del presidente degli Stati Uniti, saremo presenti con la nostra identità di organizzazione sindacale democratica, che in quanto tale ripudia qualsiasi forma di violenza e nella migliore tradizione del movimento operaio, manifesta a “viso scoperto” senza ridicole bardature. Così hanno fatto recentemente i lavoratori e le lavoratrici di Melfi anche di fronte alle cariche della polizia.

Ho voluto richiamare questi aspetti di analisi che sono patrimonio della nostra organizzazione, perché rappresentano la lettura degli accadimenti di questi anni, che ci hanno permesso di compiere coerenti scelte sul versante contrattuale e internazionale.

La situazione attuale è riassumibile in due aspetti fondamentali:

Le scelte compiute da Governo e Confindustria ci consegnano la fotografia di un paese che vede convivere contemporaneamente una crisi evidente del sistema delle imprese -  a partire dai  settori strategici - la precarizzazione e la molteplicità dei rapporti di lavoro come condizione generale del lavoro dipendente e una redistribuzione del reddito, dal lavoro e dalle pensioni, a rendite e profitti che non ha eguali in Europa.

Non si tratta di aspetti diversi che in qualche modo si sommano ma di una idea e di una pratica della crescita e dello sviluppo fondata essenzialmente sulla riduzione dei diritti, delle tutele e delle retribuzioni.

C’è un rapporto profondo tra la negazione della democrazia e il tentativo ancora in corso di cambiare l’articolo 18, quello dei diritti, della dignità di ogni lavoratore e di ogni lavoratrice. Confermiamo che per la Fiom , per la Cgil l’estensione dei diritti a partire dalla giusta causa vanno estesi a tutto il mondo del lavoro dipendente.

Questo e non altro è stato il patto tra Governo e Confindustria che per essere attuato, reso praticabile ha la necessità di negare la democrazia, di affermare la logica dell’accordo con chi ci sta, sia a livello generale che nelle aziende, nelle categorie.

Quando si arriva a firmare un Ccnl separato che esclude l’organizzazione sindacale maggiormente rappresentativa senza alcuna legittimazione da parte dei lavoratori e delle lavoratrici interessati, si persegue l’obiettivo di affermare relazioni sindacali fondate non soltanto sull’emarginazione della Fiom ma sulla cancellazione dei lavoratori in carne e ossa, sul fatto che si possono fare degli accordi che valgono per tutti i lavoratori e le lavoratrici a prescindere da ciò che loro pensano, a prescindere dal loro giudizio.

Questa è stata la scelta perseguita dalla Federmeccanica e dalla Confindustria in questi anni perché sappiamo bene che gli accordi separati sono possibili e resi efficaci soltanto e esclusivamente perché la controparte li rende tali, li legittima, altrimenti non esisterebbero.

Siamo chiamati a definire le nostre scelte sui diversi aspetti che formano questo quadro generale perché non esiste una politica industriale che non sia contemporaneamente una politica del lavoro e della distribuzione del reddito.

Qualsiasi ragionamento, allora, non può che partire da una valutazione sulle scelte che abbiamo compiuto, sul rapporto con i lavoratori e le lavoratrici, sulle lotte che abbiamo sviluppato nel corso di questi anni.

Non intendo ripercorrere le diverse tappe della nostra iniziativa, sono state ampiamente discusse, la domanda che mi pongo e che vi propongo e se a distanza di circa due anni dal Ccnl separato che aveva l’esplicito obiettivo di sconfiggere la Fiom e i lavoratori metalmeccanici e affermare su questa base le nuove relazioni sindacali e la pace sociale è stato un obiettivo acquisito o meno da parte della Federmeccanica.

Qualcuno pensava che tutto si sarebbe risolto con qualche sciopero generale da parte nostra e tutto sarebbe tornato rapidamente alla normalità.

Cosi non è stato.

Tanto più dopo gli accordi di Melfi e Fincantieri, credo proprio di poter dire tranquillamente che la Fiom e i metalmeccanici, mi dispiace per loro, sono ancora in piedi, sono un problema non risolto. Noi diciamo sono un’opportunità.

Molti osservatori interessati ci pongono continuamente la domanda: “perché i meccanici?”, “perché solo i metalmeccanici?”.

La risposta è persino banale: perché siamo i metalmeccanici e nel bene o nel male, tutti i passaggi più significativi che ineriscono il lavoro e la contrattazione trovano nelle nostre vicende contrattuali le verifiche decisive.

Possiamo dire allora, umilmente che anche grazie alla nostra iniziativa, alle lotte condotte dai lavoratori e dalle lavoratrici metalmeccaniche, si è aperta una evidente riflessione nella stessa Confindustria che ha portato, alla elezione di un gruppo dirigente che non si propone come la continuità della gestione della presidenza D’Amato.

La scelta dei precontratti, e successivamente dei contratti aziendali, ha contribuito a rilanciare la contrattazione nei luoghi di lavoro con l’emergere di un nuovo protagonismo da parte dei giovani, anche nelle forme di lotta, con la riscoperta e la riappropriazione della possibilità di intervenire per cambiare le condizioni di lavoro.

Siamo in presenza di un disagio sociale diffuso, perché le condizioni lavorative e retributive sono peggiorate.

Questo disagio si esprime in forme diverse, a volte perfino inaspettate. Anche nelle situazioni considerate sindacalmente deboli, dove la riuscita degli scioperi costituisce spesso un problema.

Penso al presidio e allo sciopero a oltranza in atto da una settimana da parte dei 200 giovani e ragazze dello stabilimento Polti Sud nella provincia di Cosenza per l’immediato ritiro dei licenziamenti di un delegato e di due iscritti al sindacato. Ma nello sciopero, nell’atto di insubordinazione collettiva, hanno scoperto che sono uniti e forti e adesso rivendicano anche l’apertura di un negoziato sulle condizioni di lavoro sostenuti unitariamente da Fiom, Fim e Uilm.

È questo che ci permette oggi di ragionare sulle grandi questioni aperte.

 

Politica industriale

La condizione del sistema delle imprese nel nostro paese è segnata profondamente dalla crisi economica che coinvolge buona parte dei settori industriali a partire dai settori strategici.

In cinque anni la produzione industriale è aumentata meno dell’1%. Gli investimenti, in macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto sono diminuiti e in particolare negli ultimi due anni del 5%.

Le esportazioni, in diminuzione, sono concentrate nei settori tradizionali mentre è scarsa, praticamente assente, la produzione di beni tecnologicamente avanzati.

Le spese per attività di ricerca sono nettamente inferiori a quelle degli altri paese europei.

Comunque la si guardi, siamo oltre il declino industriale che la Cgil ha denunciato con forza alcuni mesi orsono.

Il nostro paese si configura sempre più come un’area di sub-fornitura e commercializzazione del prodotto, con un ritardo sempre più accentuato sul terreno della innovazione di prodotto, della ricerca, della formazione.

L’idea di una crescita fondata sulla riduzione delle tutele, dei diritti, delle retribuzioni e della destrutturazione del lavoro, ha semplicemente favorito le disuguaglianze sociali, le attività finanziarie speculative e consumi di lusso che non a caso sono in forte crescita a differenza dei consumi delle famiglie.

Lo stesso sistema creditizio è parte di questo scenario per avere assecondato queste scelte di carattere finanziario e non industriale e avere allo stesso tempo ampiamente lucrato sui risparmi dei cittadini.

Sono oscuri i criteri con cui il sistema creditizio compie le proprie scelte ma è forte la sensazione che siano particolarmente esosi nei confronti dei cittadini e delle piccole imprese e stranamente generosi rispetto ad alcune  realtà.

È necessaria una svolta profonda, radicale, finalizzata esplicitamente a una crescita fondata sulla qualità del lavoro, l’innovazione dei prodotti, la ricerca con una molteplicità di interventi dal versante pubblico e privato.

Una nuova politica industriale implica perciò delle scelte a partire dai settori strategici e pone il problema di quale ruolo, debba avere l’intervento pubblico in presenza di una crisi di queste dimensioni.

Vi è oramai un’ampia pubblicistica cito per tutti Luciano Gallino sulla devastazione industriale di questi anni, basti pensare all’informatica, con la distruzione dell’Olivetti, alla farmaceutica, alla chimica fine, alle telecomunicazioni.

La sbornia che a dire il vero non risale soltanto al Governo Berlusconi, del piccolo è bello e delle privatizzazioni ci consegna oggi la cruda realtà di un paese che ha compiuto operazioni segnate dall’unica volontà di fare cassa senza un piano strategico di carattere industriale; il Mezzogiorno paga più duramente questa situazione per il tipo di struttura industriale esistente e con l’evidente rischio che nel 2006 finiscano le risorse dei fondi comunitari europei con l’ampliamento dei confini dell’Europa a paesi che presentano parametri sociali peggiori di quelli del Mezzogiorno.

I parametri europei del patto di stabilità devono essere rivisti per favorire gli investimenti sociali e delle infrastrutture perché oggi costituiscono una incentivazione alla stagnazione economica, non più giustificabile con la moneta unica.

È necessario ripensare l’intervento pubblico a tutti i livelli, nazionale e regionale che corre il rischio, alla fine di questo processo, di concentrarsi per assurdo nel settore militare, con l’annunciata operazione di scorporo della Finmeccanica in settore militare e settore civile, che includerebbe la Fincantieri.

Confermiamo la nostra contrarietà a questa scelta che assume la caratteristica delle dismissioni del settore civile.

In questo quadro si colloca la situazione del più grande gruppo industriale rimasto nel nostro paese: la Fiat.

Dire Fiat vuol dire l’intera filiera che coinvolge centinaia di migliaia di lavoratori e le ricadute tecnologiche sull’insieme del sistema industriale.

Montezemolo è il nuovo presidente e c’è un nuovo amministratore delegato.

Inviterei gli esperti, i vari commentatori, a evitare di spiegarci per l’ennesima volta che c’è la soluzione della crisi, perché c’è l’uomo giusto al posto giusto.

La realtà è un’altra, in due anni si tratta del quarto amministratore delegato della Fiat e tutte le volte ci propongono un nuovo piano, presentato come quello definitivo.

Non abbiamo mai considerato il “Piano Morchio” un piano soddisfacente per la semplice ragione che non abbiamo mai capito quale fosse il destino di Mirafiori, di Termini Imerese, di Cassino, che vuole dire in sostanza della Fiat.

Così come l’idea, che ogni tanto compare e scompare, del polo delle macchine di lusso Ferrari-Maserati non ci è mai parsa una serie soluzione alternativa al “Piano Morchio”.

È nostra impressione che la crisi abbia oramai tali dimensioni che i soggetti da coinvolgere debbano essere  diversi compresi il sistema bancario e il Governo.

Una vera politica industriale non può che partire dal presupposto che il nostro paese non può rinunciare anche al settore dell’auto e questo richiede un piano generale nazionale sulla mobilità sostenibile con un intervento pubblico che agisca sia sul terreno dell’offerta che della domanda finalizzando in questo modo la stessa attività di ricerca.

Non è uno scandalo parlare di intervento pubblico diretto, perché questo avviene in molti paesi europei, dalla Francia alla Germania, che si sono ben guardate dal dismettere i settori strategici e fondamentali, comprese le telecomunicazioni. Basti pensare alla vicenda Alston in Francia.

Se poi ragionassimo in termini di risorse pubbliche, sarebbe interessante ricostruire i costi passati, presenti e futuri che il pubblico sta pagando per accompagnare determinate scelte, dall’informatica all’auto.

È in grado la Fiat di proporre una soluzione credibile di rilancio del settore che non sia la prospettiva del subentro del sistema bancario, nella proprietà nel 2005?

La verifica non è lontana nel tempo, non solo perché chiediamo un incontro per capire quali sono le intenzioni del nuovo presidente, ma per la semplice ragione che per la giornata del 10 giugno è prevista unitariamente la giornata di lotta a Torino per salvare lo stabilimento di Mirafiori che con la produzione di 800 auto e 15.000 dipendenti non ha alcuna seria prospettiva.

Si comincerà a capire dalle risposte su Mirafiori, come questione nazionale, se le dichiarazioni di Montezemolo, presidente della Confindustria, trovano un riscontro positivo in Montezemolo, presidente della Fiat.

Contrattazione

L’essenza stessa di un sindacato è rappresentato dalla contrattazione, dall’esercizio di una contrattazione fondata sull’espressione autonoma e democratica di un altro punto di vista, quello del lavoro.

L’accordo, la mediazione è sempre il risultato di un confronto e dove necessario di un conflitto tra interessi diversi: quelli del capitale e quelli del lavoro.

Quando la contrattazione è puramente funzionale agli interessi dell’impresa, quando la contrattazione si riduce a puro esercizio di calcolo nel rapporto tra aumenti retributivi variabili e redditività e/o bilanci dell’impresa non c’entra nulla con le condizioni lavorative, è altra cosa.

È altra cosa anche sul piano retributivo perché la produttività vuole dire lavoro e in quanto tale va consolidata e garantita.

Rimettere al centro la condizione lavorativa, l’organizzazione del lavoro nei suoi diversi aspetti, dai ritmi di lavoro all’orario, alla sicurezza, alla formazione è condizione per rilanciare anche un sistema informativo e di relazioni sindacali che preveda la partecipazione dei soggetti sindacali.  

Per questo l’obiettivo del rilancio della contrattazione significa fare i conti in primo luogo con i processi di frammentazione del ciclo lavorativo e di precarizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici.

L’applicazione della Legge 30, dai nuovi rapporti di lavoro alla cessione dei rami di azienda, accentuerà questi processi e questo  richiede da parte nostra e della Cgil degli orientamenti precisi.

La frammentazione del ciclo lavorativo, della catena di progettazione-fabbricazione-commercializzazione del prodotto rende possibile che lavoratori e lavoratrici che sono parte dello stesso ciclo lavorativo siano scomposti in aziende formalmente diverse, che in talune occasioni corrispondano anche sindacalmente a categorie e contratti diversi.

Riunificare il lavoro significa sperimentare anche forme di contrattazione di filiera e/o di sito, dentro un percorso che è quello di unificare il più possibile ciò che si vuole dividere per rendere impraticabile un reale intervento sull’organizzazione del lavoro.

Questo significa anche sperimentare coordinamenti intercategoriali nella contrattazione laddove sussistono contratti di riferimento diversi.  

Ma ciò implica l’avvio di un percorso che ci deve portare ad affrontare un nodo non eludibile che riguarda l’attuale assetto confederale, la composizione delle categorie e la molteplicità dei contratti esistenti.

Non può essere affrontato questo problema a pezzi e pezzettini con assoluta improvvisazione. Tanto meno sulla base della omogeneità dei gruppi dirigenti.

Vicende come quella dell’Omnitel che è stata portata via dalla nostra categoria con l’opposizione dei delegati, non sono ripetibili.

Siamo di fronte a una scelta che non è di natura organizzativa, bensì di carattere contrattuale per la semplice ragione che a partire dai nostri obiettivi contrattuali dobbiamo ridefinire le scelte organizzative.

Dobbiamo discutere e scegliere se la nostra organizzazione si debba plasmare e aderire agli attuali processi di frantumazione del ciclo lavorativo, per cui alla fine industria vuole dire fabbricazione mentre tutto il resto vuole dire terziario, commercio, Nidil, telecomunicazioni, oppure se il nostro obiettivo sia quello della riunificazione del lavoro nella sua filiera produttiva.

Se una grande azienda metalmeccanica esternalizza il call-center questi lavoratori fanno parte dei metalmeccanici o di un’altra categoria?

Oppure, per capire la radicalità del problema, se la Telecom non investe e attua semplicemente una politica di riduzione del debito e di esternalizzazione, perché nel frattempo vive di rendita sul monopolio della rete dei telefoni fissi e riduce del 20-30% i costi delle aziende appaltatrici per cui alla fine ci sono migliaia di lavoratori metalmeccanici che sono contemporaneamente in cassa integrazione da anni e nello stesso tempo svolgono quel lavoro in nero cosa significa a quel punto la contrattazione, se non esiste un luogo contrattuale che tenga assieme il ciclo lavorativo?

Nella catena del valore del prodotto se industria vuole dire semplicemente fabbricazione si riducono inevitabilmente tutti gli spazi contrattuali e le disuguaglianze tra lavoratori.

Per questo e con questo significato che attribuiamo al termine industria proponiamo alla nostra discussione e a quella della Cgil la formazione del sindacato dell’industria.

Del resto questa discussione è aperta in gran parte dei sindacati europei, alcuni hanno già deciso, come è successo ad esempio in Germania con la formazione di tre grandi categorie.

Non credo che categorie più forti siano una messa in discussione della confederalità.

Sarebbe strano e un po’ deprimente pensare che esiste la confederalità perché c’è la frammentazione delle categorie.

Proporci l’obiettivo della riunificazione del lavoro vuole dire contrastare l’applicazione della Legge 30, perseguendo l’obiettivo della trasformazione, in tempi definiti, dei rapporti di lavoro atipici in rapporti di lavoro a tempo indeterminato e rifiutando l’introduzione di rapporti di lavoro come il lavoro a chiamata e lo staff-leasing.

Abbiamo detto, come Cgil, che le varie leggi approvate dal governo, dall’orario di lavoro, ai contratti a termine, alla legge 30 sono inaccettabili, e abbiamo raccolto 5 milioni di firme a sostegno di questa posizione.

Non può rimanere questa una petizione di principio, una richiesta da formulare al mondo politico.

Per un sindacato questo non è possibile, è necessaria una pratica contrattuale che sia coerente rispetto a ciò che diciamo, a ciò che abbiamo affermato.

Questo riguarda la Fiom e la Cgil nel suo complesso.

Non è mia intenzione, sarebbe sbagliato, esprimere giudizi sull’esercizio dell’autonomia contrattuale di altre categorie, ma certo impressiona leggere formulazioni che di fatto recepiscono la legge 30 nelle causali per il ricorso del lavoro a termine, nell’accettare il lavoro a chiamata, fino ad arrivare alla deroga sulle 11 ore di riposo garantite dalla pessima legge sull’orario che prevede la possibilità di 13 ore di lavoro.

Impressiona leggere formulazioni che persino sulla Legge 30 introducono differenziazioni peggiorative per i lavoratori al Sud tanto più a fronte delle lotte che si stanno sviluppando per la perequazione retributiva e normativa.

Impressiona leggere formulazioni per la regolarizzazione dei co.co.co. con contratti che assomigliano a quelli di emersione dal lavoro nero.

Il problema esiste anche nella nostra categoria, ma questo diventa un aspetto dirimente nella contrattazione che vogliamo svolgere e che riguarda direttamente gli orientamenti della stessa Cgil, delle lotte che la Cgil ha promosso nel corso di questi anni.

La logica della riduzione del danno è una logica devastante nella storia del movimento operaio, del movimento sindacale, perché ha portato a scrivere le pagine più vergognose e meno nobili della nostra attività.

Estendere la contrattazione alla platea interessata dei lavoratori e delle lavoratrici vuole dire anche porci il problema della realtà delle piccole aziende dove difficilmente arriva la contrattazione aziendale.

Non è più eludibile una esplicita discussione sulla necessità di sperimentare in alcune realtà la contrattazione territoriale per ridotte dimensioni di impresa da definire.

Infine, la contrattazione deve oggi fare i conti con i processi globali, con l’Europa e il suo allargamento, con i processi di delocalizzazione che vengono minacciati tutte le volte che si apre una vera trattativa in particolare in alcuni settori come l’elettrodomestico, ma non solo.

Sarebbe sciocco e miope negare che sussiste una evidente sfasatura tra la velocità di questi processi e la lentezza esasperante della costruzione di un soggetto sindacale adeguato di dimensione europea.

Non possiamo permetterci il lusso di avere nostri tempi che non tengano conto del rapido mutare della situazione.

Per questo riteniamo necessario che la fase dei coordinamenti europei  e della esperienza dei Cae debba essere esplicitamente finalizzata alla costruzione del sindacato europeo, del contratto europeo che può prevedere al suo interno differenziazioni per i diversi paesi, dentro a un percorso di avvicinamento delle condizioni dei lavoratori sui diritti, sull’orario, sulle retribuzioni. Vanno definite le gradualità di questo processo ma bisogna cominciare un vero confronto nella Fem, senza diplomatismi e reticenze.

 

Struttura contrattuale

Abbiamo già detto che oggi non esiste più un sistema di regole sulla contrattazione e si pone il problema di come riconquistare un Ccnl.

Per quanto ci riguarda ribadiamo che la struttura contrattuale deve essere fondata sul doppio livello di contrattazione, quello aziendale e quello nazionale.

Non condividiamo tutte le ipotesi che hanno l’esplicito obiettivo di indebolire e superare sostanzialmente la funzione del Ccnl in nome di un non meglio definito rafforzamento della contrattazione decentrata.

È veramente singolare che molti osservatori, ovviamente interessati, ci spieghino che per affrontare la frammentazione del lavoro e la questione retributiva bisogna rafforzare la contrattazione aziendale/territoriale, che vuole dire accentuare tutte le disuguaglianze esistenti sul piano normativo e retributivo.

A noi paiono tutte operazioni di copertura di una questione molto semplice: va ridotta la funzione del Ccnl perché essendo la massima espressione della solidarietà generale tra tutti i lavoratori rappresenta un ostacolo a una logica puramente competitiva.

Questa è la ragione vera per cui il Ccnl è oggetto di una offensiva in tutti i paesi europei come dimostrano i recenti rinnovi contrattuali in Germania.

Per questo ribadiamo che il ruolo del Ccnl non va indebolito, ma rafforzato sia nella parte normativa che in quella retributiva.

Nella parte normativa sul terreno dei diritti, dell’orario, dell’inquadramento professionale, della sicurezza e della formazione continua.

Nella parte retributiva ponendoci esplicitamente l’obiettivo di un aumento delle retribuzioni reali per contribuire a invertire la tendenza che si è affermata in questi anni contro il lavoro e le pensioni.

Sappiamo bene che non si inverte questa tendenza agendo soltanto sulla leva contrattuale ma è necessario un intervento sulla struttura fiscale, sull’assetto dello stato sociale, ma ciò nulla toglie al fatto che la definizione di un sistema di regole per la struttura contrattuale non può prevedere che per i prossimi anni venga esclusa la possibilità nei Ccnl di aumenti retributivi reali per l’insieme della categoria.

Ho trovato singolare la critica che questa sarebbe una “linea salarialista”, perché se cosi fosse vorrebbe dire che l’intera storia del movimento operaio e stata “salarialista”.

La concertazione, fondata sulla precarizzazione e sulla moderazione salariale, per dirla con le parole Di Fazio, non è possibile.

Il problema non è quello tra chi è a favore o contrario alla definizione di un sistema di regole sulla contrattazione, bensì quali regole.

Quale ruolo e funzione del contratto nazionale.

Per questo abbiamo valutato criticamente l’accordo confederale degli artigiani che prefigura una struttura contrattuale che può aprire al federalismo regionale e che non può essere assunto come  riferimento per la definizione di nuove regole.

Tutte le nostre scelte sono attraversate da una scelta fondamentale che abbiamo compiuto nel corso di questi anni, quella della democrazia, della partecipazione e del voto dei lavoratori e delle lavoratrici sulle piattaforme e sugli accordi.

Abbiamo voluto in questo modo affermare che la titolarità delle piattaforme e dei contratti è dei diretti interessati perché ciò costituisce l’esercizio di un diritto democratico che deve essere riconosciuto anche attraverso una legge sulla rappresentanza sindacale.

A questa scelta sono state sollevate diverse obiezioni, ed in particolare riguardo il rapporto tra il ruolo dell’organizzazione e degli iscritti con l’insieme dei lavoratori interessati. Insomma che il voto dei lavoratori in qualche modo esautora il ruolo del sindacato e delle Rsu.

A noi pare vero il contrario per la semplice ragione che un gruppo dirigente, il sindacato ma le stesse Rsu, sulla contrattazione aziendale hanno la responsabilità di gestire la trattativa in rapporto con i lavoratori e con le assemblee e quando definiscono un accordo hanno il dovere di verificarlo con tutti i lavoratori interessati.

Questo comporta semplicemente il fatto che quel gruppo dirigente, quella Rsu, può anche rischiare di perdere perché la democrazia ha questo piccolo difetto, non garantisce il risultato finale.

Per questo non è vero che si esautora ma viceversa si esprime appieno la responsabilità delle organizzazioni sindacali e delle Rsu.

Così abbiamo fatto a Melfi nell’assemblea che ha deciso di togliere i presìdi, proclamare lo sciopero di 8 ore e iniziare il negoziato con la Fiat.

In quell’assemblea potevamo perdere, a dire il vero tanti lo speravano, ma noi concepiamo in questo modo il rapporto con i lavoratori e con le lavoratrici.

Da qui, dalla democrazia è necessario ripartire, verificare la possibilità, in assenza di una legge che per noi rimane un obiettivo da perseguire, di definire con le altre organizzazioni sindacali regole democratiche che di per se escludano la pratica degli accordi separati e rendano possibile la definizione di proposte unitarie.

Sarebbe sciocco e miope sottacere e tanto meno sottovalutare le profonde divisioni che hanno segnato nel corso di questi anni il rapporto con Fim e Uilm.

Ma il fallimento della politica di Governo e Confindustria, può aprire percorsi diversi e la Fiom è un sindacato che ha fatto della democrazia e dell’unità aspetti fondanti del proprio agire.

Nelle realtà di crisi stiamo sviluppando iniziative unitarie importanti e significative e questo ci può permettere di verificare la possibilità di promuovere unitariamente entro l’estate, una giornata di mobilitazione dei metalmeccanici a difesa dell’occupazione per una svolta della politica industriale nel nostro paese.

Un momento unitario di unificazione delle tante vertenze e lotte aperte in tutto il paese.

Nella contrattazione in questi anni, in questi ultimi mesi è successo di tutto, dai precontratti, alle piattaforme aziendali unitarie, alle piattaforme aziendali diverse con conclusioni democratiche e unitarie.

Cosi è stato ultimamente in diverse realtà e cito in particolare Melfi e Fincantieri.

Anche a partire da queste esperienze proponiamo a Fim e Uilm di definire l’insieme delle regole democratiche e promuovere una campagna di assemblee unitarie in previsione del rinnovo del biennio economico.  

Proponiamo:

1 - Su Rsu e contrattazione aziendale

Superamento del Patto di solidarietà con la elezione su base proporzionale di tutti i delegati.

La titolarità della contrattazione aziendale deve essere delle Rsu, con un percorso che preveda il referendum sulla piattaforma, lo strumento dell’assemblea come partecipazione alle diverse fasi della trattativa e il referendum di mandato sulla ipotesi conclusiva di accordo.

2 - Sul Ccnl a partire dal rinnovo del biennio economico di fine anno

Elezione su base proporzionale di una Assemblea nazionale di delegati, da svolgersi contemporaneamente al referendum sulla piattaforma, che segua e decida i diversi passaggi della trattativa.

L’ipotesi conclusiva di accordo approvata dall’Assemblea nazionale dei delegati, deve essere sottoposta al referendum di tutti i lavoratori e lavoratrici.

Formuliamo queste proposte nella piena consapevolezza che l’unità d’azione ci rende tutti più forti ma che unità e democrazia non sono scindibili, non sono separabili.

La nostra proposta vuole anche essere una indicazione di carattere generale per la Commissione Cgil ,Cisl,Uil, che sta lavorando sulla definizione delle regole democratiche.

Il voto dei lavoratori non è una specificità di categoria, ma assume un valore generale di natura strategica dell’identità del sindacato, cosi come peraltro deliberato nel documento conclusivo dell’ultimo Congresso della Cgil, laddove si afferma la Cgil continua a non considerare come pratica democratica l’idea che siano le organizzazioni a decidere per conto di tutti e quindi a sottrarre ai lavoratori il giudizio su una attività loro destinata” e aggiunge “per la Cgil la valutazione certificata è elemento costitutivo dell’identità democratica dell’organizzazione”.

Non sta a noi giudicare se questa è diventata pratica dell’agire di tutta l’organizzazione.

Colloco in questo contesto una valutazione sul recente cambio della dirigenza della Confindustria e la relazione programmatica del presidente Montezemolo.

Non vi è dubbio che siamo di fronte nei toni e nella impostazione generale aun elemento di evidente novità rispetto alle scelte di questi ultimi anni a partire dal giudizio nei confronti del governo Berlusconi.

Insomma non siamo alla riedizione del “Patto di Parma”, ma al riconoscimento della gravità della situazione sociale del nostro paese e dalla necessità di aprire un confronto con tutte le organizzazioni sindacali.

Sarebbe miope da parte nostra non cogliere le novità che sono anche il frutto della nostra iniziativa.

Nello stesso tempo è necessario, con estrema chiarezza, ribadire che non esiste la riedizione del Patto sociale del 23 luglio ’93, come se nulla fosse successo nel corso di questi 10 anni, dalla politica industriale, alla precarizzazione di massa, alla riduzione delle retribuzioni e delle pensioni.

Sono possibili convergenze su singoli aspetti ma non il “Patto tra produttori”, che non è né possibile né auspicabile.

Esiste oggi una piattaforma Cgil, Cisl e Uil sostenuta da uno sciopero generale, il Governo ha risposto, o meglio non ha risposto e procede a colpi di fiducia sulle pensioni, sulla sanità, sulla scuola, sulla giustizia e sulla delega fiscale.

È necessario e inevitabile che l’iniziativa confederale assuma per intero la caratteristica di una vertenza, e quando la controparte non apre il confronto e addirittura procede in direzione opposta la risposta non può che essere quella di definire un programma di iniziative di lotta e di mobilitazione che sostenga e renda credibili le nostre proposte.

Alla nuova Confindustria, a Montezemolo diciamo che abbiamo colto le novità ed espresso le nostre valutazioni, ma vorremmo capire meglio se tra le novità possiamo includere il fatto che la Confindustria considera finita la stagione degli accordi separati. Lo chiediamo a Montezemolo perché, insisto, gli accordi separati sono possibili perché la controparte sceglie di farli.

Compagni e compagne nel corso di questi anni, pur tra mille difficoltà, abbiamo praticato e non solo scritto nei documenti la scelta identitaria di una organizzazione sindacale unitaria democratica e indipendente.

Questo ci ha permesso di sviluppare un rapporto con i lavoratori e le lavoratrici, di favorire l’emergere di un nuovo protagonismo, di una nuova soggettività a partire dalle nuove generazioni.

I risultati che i lavoratori stanno conseguendo, anche attraverso iniziative unitarie prefigurano le condizioni per riscrivere il Contratto nazionale che rimane il nostro obiettivo.

La democrazia, la lotta contro la precarizzazione e il peggioramento delle condizioni di lavoro, la lotta per un mondo migliore hanno segnato profondamente il senso, il significato di tutte le nostre iniziative.

Abbiamo detto sindacato indipendente e autonomo perché associa all’autonomia progettuale la scelta del voto dei lavoratori come vincolo per presentare piattaforme e firmare accordi.

Per questo possiamo avere governi avversari, come quello attuale, ma non abbiamo governi amici a cui delegare i nostri obiettivi.

Oggi abbiamo un Governo avversario e tra una settimana ci sono importanti elezioni europee.

Auspichiamo che questo governo, che definisce la Cgil “la fabbrica dell’odio”, esca sconfitto da questa prova elettorale e aggiungiamo che avendo scelto il presidente del Consiglio di candidarsi, pur affermando che rinuncerà al mandato europeo, il significato del voto assume inevitabilmente il valore del giudizio sull’attuale compagine governativa.

Nello stesso tempo a futura memoria diciamo a tutte le forze politiche di opposizione che per quanto ci riguarda la legge sulla rappresentanza sindacale e il ritiro delle leggi che hanno peggiorato la condizione di lavoro ed esteso la precarizzazione di massa sono per noi aspetti decisivi di un programma politico di una coalizione che si proponga come alternativa a questo governo.

I metalmeccanici non dimenticano che quattro anni di accordi separati da parte dei padroni sono stati possibili perché qualcuno si è dimenticato di dare corso a una legge sulla rappresentanza.

Non è stato un errore ma la conseguenza di una analisi sbagliata dei processi sociali in atto.

Sindacato indipendente perché i nostri obiettivi, le nostre scelte di fondo sono gli stessi con qualsiasi Governo e allora diciamo chiaramente che non pensi qualcuno che in uno scenario politico diverso si possa dire: si è chiusa una fase, la situazione del paese è drammatica, i conti dello Stato sono in realtà peggiori di quelli che conosciamo, facciamo una riedizione del 23 luglio.

Cosi non funziona. Lo schema che c’è la Tatcher che fa il lavoro sporco, lo scasso sociale e poi subentra Tony Blair, non è lo schema auspicabile. Del resto noi, la Fiom , la Cgil siamo ancora qui.

È necessaria una svolta reale e qualsiasi sistema di regole che sia finalizzato alla crescita non può che partire dalla riunificazione del lavoro e da una redistribuzione della ricchezza verso il lavoro e le pensioni. 

            Diciamo redistribuzione della ricchezza per esplicitare la discontinuità rispetto a una versione della politica dei redditi che nel corso di questi anni ha comportato un pesante arretramento della retribuzione dei lavoratori e delle lavoratrici.

Nello stesso tempo con questo Congresso ci proponiamo di mettere in atto scelte coerenti e una nuova strumentazione della nostra organizzazione che ci permetta di affrontare le prove difficili che stanno davanti a noi, agli sconvolgimenti sociali in atto.

            Dobbiamo favorire il rinnovamento dei gruppi dirigenti a tutti i livelli, aprire decisamente alle nuove generazioni che hanno caratterizzato le lotte di questi anni in un mondo del lavoro che cambia, che chiede una rappresentanza adeguata.

          Basti pensare ai lavoratori stranieri che in molte realtà territoriali sono il 10-15% dei nostri iscritti e non sono presenti negli organismi dirigenti.

            Un rinnovamento che abbia ben chiaro il fatto che svolgere il ruolo del dirigente della Fiom non significa svolgere un mestiere, ma esercitare una militanza che è tale se sorretta da forti motivazioni e passione nel rapporto con i lavoratori e le lavoratrici.

Quando non è così e si vive il proprio ruolo come un mestiere può succedere che sia persino normale passare da un mestiere all’altro in ruoli e funzioni contrapposte.

Proponiamo che il vincolo democratico del voto dei lavoratori sia assunto come vincolo congressuale per tutta l’organizzazione a esclusione dei diritti individuali fondamentali che in quanto tali non possono essere oggetto di alcuna votazione.

Per quanto riguarda situazioni particolari come ad esempio le aziende artigiane, vanno definiti percorsi democratici a partire dal coinvolgimento degli iscritti.

Nella vita interna della nostra organizzazione la scelta della democrazia implica anche un rapporto con i nostri iscritti che va rinnovato in tempi definiti e certi.

Per questo propongo che ogni 3 anni si proceda al rinnovo di tutte le deleghe sindacali della Fiom.

Laddove abbiamo fatto questa esperienza abbiamo registrato una crescita dei consensi, proprio perché viene vissuto come un atto di democrazia.

Una strumentazione che ci permetta di estendere i nostri rapporti con competenze anche esterne che siano funzionali alla necessità di leggere i processi sociali in atto e favoriscano la nostra capacità d’intervento.

Per questo proponiamo:

1 - Dare corso a un progetto formativo, in rapporto con i territori, con la definizione di una scuola sindacale Fiom per delegati e gruppi dirigenti che sia anche strumento di ricerca e di approfondimento sui processi reali di cambiamento del mondo del lavoro.

Come molti di noi sanno, era il progetto a cui stava lavorando Claudio Sabattini, anzi a dire il vero tutto era già predisposto e si era offerto di dirigerla con il lavoro volontario, a partire da una considerazione molto semplice: quella di esplorare ciò che sta veramente accadendo nei luoghi di lavoro, nella condizione di lavoro di cui tanti parlano senza sapere di che cosa parlano.

2 – Dopo una fase sperimentale, formalizzare la costituzione di una Consulta giuridica nazionale che abbia il compito e la funzione di essere un momento di approfondimento e di proposta sulle grandi questioni aperte sulla legislazione inerenti il lavoro.

Il convegno di Torino di cui abbiamo pubblicato gli atti ci sta a indicare quali potenzialità e disponibilità ci siano nel nostro paese a collaborare con la Fiom in questa direzione.

3 – La costituzione di una Consulta economico-sociale nazionale che si avvalga di diverse competenze sul piano economico, finanziario e sociale che sia uno strumento di riflessione e di proposte per l’insieme dell’organizzazione.

Il convegno sulla politica industriale che abbiamo svolto recentemente a Napoli testimonia delle disponibilità e della possibilità di avvalerci anche di diverse competenze esterne alla nostra organizzazione.

Si tratta anche in questo modo di dotarci di una strumentazione che ci permetta di affrontare una fase così difficile che può ulteriormente peggiorare nei prossimi mesi.

L’asprezza del conflitto sociale in atto, le situazioni di crisi aziendali con le lotte per la difesa dell’occupazione, gli atti discriminatori e antisindacali contro i delegati e gli iscritti al sindacato come avvenuto recentemente in Molise e in Calabria ci stanno a indicare che la scelta che abbiamo compiuto sulla Cassa di resistenza va ribadita e rilanciata.

Ma questo non è più sufficiente; è necessario decidere la strutturalità del funzionamento della Cassa di resistenza perlomeno nella fase di avvio.

Per questo propongo di definire un contributo annuo limitato della delega sindacale Fiom, fermo restando l’attuale meccanismo per i nuovi iscritti e aprire un confronto con la Cgil per un contributo derivante dalla quota di canalizzazione della Fiom alla confederazione.

Compagni e compagne,

questa nostra discussione congressuale è stata attraversata in modo improprio da una lettura esterna tutta finalizzata a capire quale rottura si sarebbe determinata tra la Fiom e la Cgil.

O meglio, per essere più precisi, in base a ciò che stava accadendo nelle lotte dei lavoratori e delle lavoratrici di Melfi, Fincantieri, Mirafiori, e altre realtà si passava tranquillamente dalla rottura, all’abbraccio di Chianciano, a seconda delle giornate.

Come dire, non riescono proprio a capire perché evidentemente le loro categorie concettuali di riferimento non sono le nostre e questo riguarda anche tanti che di mestiere fanno i sindacalisti.

Non c’è niente da fare, leggono tutto a partire dal mondo della politica da cui fare discendere questa o quella operazione politica, mentre sarebbe così semplice e naturale partire degli interessi generali dei lavoratori, delle lavoratrici e dei pensionati.

Allora è necessario ribadirlo per l’ennesima volta proprio qui a Livorno, dove nel 1901 è stata fondata la nostra organizzazione.

            La Fiom nasce come sindacato industriale e non di mestiere proprio perché nasce come sindacato generale che promuove assieme ad alcune C.d.L.T. la nascita della Cgil nel 1906.

Non esiste la Fiom al di fuori di una dimensione confederale proprio perché non abbiamo mai concepito la confederalità come una divisione burocratica dei compiti. Per cui le categorie rappresenterebbero la parzialità e la Confederazione l’interesse generale.

Per la Fiom e per la Cgil la confederalità è la costruzione faticosa dell’espressione degli interessi del mondo del lavoro subordinato e dei pensionati a cui le categorie contribuiscono con le proprie scelte e le proprie esperienze.

            Per questo la dialettica tra la Fiom e la Cgil è sempre stata nella storia del movimento sindacale del nostro paese, un elemento costitutivo della esperienza sindacale, un elemento di reciproco rafforzamento.

            Questo e non altro, è la discussione in atto. Questo e non altro, è il significato delle proposte, delle scelte che proponiamo come Fiom.

Abbiamo discusso e votato nel Congresso su due mozioni che sarebbe singolare ricondurre a una sintesi unitaria, lo avremmo fatto all’inizio del congresso.

Altra cosa è verificare la possibilità, che auspico fortemente, di un documento unitario sulle proposte che da questo Congresso formuliamo anche alle altre organizzazioni sindacali.

            Abbiamo discusso, anche vivacemente per rendere più forte e incisiva la nostra iniziativa nella comune consapevolezza che la Fiom discute e decide. E quando decide esiste una sola Fiom così come avviene nel rapporto con i lavoratori.

Ci attendono prove difficili, questo ci viene imposto dalla fase storica che attraversiamo, ma sono sicuro che da questo Congresso, dall’intreccio tra la nostra discussione congressuale e le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici si può aprire una nuova fase, quella che rimette al centro di tutte le scelte la valorizzazione del lavoro, il lavoro come costruzione di una soggettività democratica, unitaria, e indipendente.

            Hanno tentato di farci fuori, di far fuori i metalmeccanici e la Cgil , non ci sono riusciti e per il sottosegretario Sacconi è diventato una sorta di incubo.

Non sappiamo cosa farci.

Da questo congresso, lo sappiamo tutti, ne sono sicuro, uscirà una Fiom ancora più rafforzata e determinata.

Livorno, 3 giugno 2004