XXIII
Congresso Nazionale Fiom
Relazione
di Gianni Rinaldini, segretario generale.
Compagni
e compagne,
siamo
all’atto conclusivo di un Congresso anticipato che ha registrato una
partecipazione superiore alle previsioni con 210.000 metalmeccanici che
hanno votato e scelto sulle due mozioni che sono state oggetto della
nostra discussione.
I risultati sono noti, ma ciò che mi interessa richiamare e
sottolineare è l’esercizio di democrazia che abbiamo espresso, perché
sono assolutamente convinto che la democrazia, il confronto, quando ci
sono posizioni diverse, in una organizzazione di massa, rappresenta un
elemento di forza e non di debolezza se è vissuto in quanto tale,
dall’insieme del gruppo dirigente .
Fa parte del passato, di un passato che ci dobbiamo lasciare alle
spalle, l’idea e la pratica che il confronto tra analisi, proposte
diverse significa lacerazione, divisione e non, viceversa, la vita
normale di una organizzazione democratica.
Del resto noi,
la Fiom
, che abbiamo fatto della democrazia, del rapporto democratico con
l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici aspetto identitario del
nostro agire, non possiamo che concepire in questo modo la vita interna
della nostra organizzazione.
Così come avviene nel rapporto con i lavoratori, c’è il momento del
confronto, il momento del voto e l’assunzione delle decisioni che
impegnano tutti.
Alla base della discussione del nostro Congresso vi è la necessità di
definire le nostre scelte, le nostre proposte nella situazione
assolutamente drammatica che attraversa il nostro paese che è parte di
una situazione internazionale che abbiamo più volte denunciato.
Abbiamo alle spalle quattro
anni di intese separate, compresa l’intesa separata sul Ccnl che vuole
dire la massima espressione possibile della rottura delle relazioni
sindacali, e nello stesso tempo un susseguirsi di atti legislativi che
hanno ridefinito l’insieme dei rapporti di lavoro subordinato e con
essi l’assetto sociale complessivo del paese.
A me pare persino ovvio affermare che non esiste più un sistema
di regole, così come mi pare persino banale ribadire che quel sistema,
quel patto sociale del 23 luglio non è riproponibile stante il fatto
che tutte le scelte compiute da Governo e Confindustria sono state fatte
contro le posizioni espresse dalla Cgil e dalla Fiom.
A fronte di tale sconvolgimento sociale credo che sia superfluo
dilungarsi su una lunga elencazione dei singoli aspetti dei
provvedimenti legislativi assunti e del patto sciagurato tra Governo e
Confindustria, ritengo più utile per tutti soffermarmi sulla chiave di
lettura di ciò che sostanzia il progetto politico e sociale in atto nel
nostro paese e a livello internazionale.
Perché questo abbiamo fatto, questo ha fatto
la Fiom
in un periodo non sospetto, nel ’96 allora vi era il governo
dell’Ulivo, con due passaggi fondamentali:
Il convegno di Maratea e successivamente il Congresso, quello per
intenderci dell’indipendenza della Fiom, rispetto a Governo, padroni e
forze politiche.
Fu allora che
la Fiom
definì una analisi dei processi sociali, politici e culturali in atto
individuando nell’affermazione del neoliberismo e della
globalizzazione governata dagli Stati Uniti la radice profonda di uno
sconvolgimento sociale che avrebbe travolto e messo in discussione tutti
gli assetti sociali e politici conosciuti compresi quelli più
consolidati nel tempo.
La competizione globale su scala planetaria dove ogni impresa, ogni
gruppo di lavoratori e di lavoratrici è in competizione con quello che
gli sta a fianco e tutto deve essere ricondotto a questa esigenza
primaria, alla riduzione del lavoro come una merce tra le merci, come
funzione, fattore produttivo dell’impresa.
Si immagina in questo modo la società e il mondo come un insieme di
individui liberi, socialmente eguali che in quanto tali relazionano
secondo le leggi del mercato.
Deriva da questa idea della società la democrazia ridotta a
plebiscitarismo, nel rapporto tra il leader e i cittadini e la riduzione
di tutti gli spazi di partecipazione e di democrazia dei soggetti
sociali.
Non è un caso che nel famoso rapporto del presidente degli Stati Uniti
sulla guerra preventiva, nell’enucleare i valori fondamentali e
universali che devono affermarsi ovunque si indica
la libertà di impresa.
Non è un caso che nel trattato costituzionale europeo si parla di
mercato e di libertà di impresa, mentre
la Costituzione
del nostro paese recita, all’articolo 1 che “
la Repubblica
è fondata sul lavoro.”
Sta qui la radice della pretesa contrapposizione tra libertà e
democrazia, tra libertà e contrattazione come espressione autonoma e
democratica di un altro punto di vista, di un altro interesse generale.
C’è in questo un elemento di rottura con la stessa cultura europea.
È proprio della cultura europea il fatto che la società è fondata
sullo Stato e sul rapporto tra Stato e cittadini, per cui lo Stato è
garante dei cittadini, da cui deriva la cultura dei diritti e del
sistema di sicurezza sociale.
Viceversa nell’esperienza e nella cultura americana è il cittadino il
fondatore dello Stato, e quindi lo Stato ha funzioni di limitazioni di
quelle libertà che altrimenti sarebbero nocive per la società.
La fase che stiamo attraversando è quella di una globalizzazione
guidata dall’egemonia economica, sociale, culturale e militare degli
Stati Uniti che considera incompatibile l’esistenza di qualsiasi
vincolo di natura sociale, internazionale e ambientale al libero
dispiegarsi della logica del mercato che tutto riconduce ad una
dimensione di merce.
In questo schema:
- la
cultura dei diritti viene superata perché sostituita dalla cultura
delle opportunità che vuole dire che la società si suddivide tra
chi è capace di cogliere le opportunità e chi per colpa sua rimane
indietro. Nelle elaborazioni più sofisticate viene chiamata la
società della conoscenza dove gli individui si dividono tra chi
coglie le opportunità della conoscenza e chi per colpa sua rimane
indietro.
- La
cultura dei diritti nel lavoro è superata dalla cultura delle
opportunità nel mercato del lavoro.
- La
cultura del sistema di sicurezza sociale, dello Stato sociale, è
sostituita dalla cultura della libertà di ogni singolo individuo di
costruirsi il proprio sistema di sicurezza.
- La
flessibilità, ovvero la precarietà, diventa una condizione di
libertà individuale a cui aspirerebbero le giovani generazioni.
Potrei continuare l’elenco ma ciò che impressiona è come queste
enunciazioni siano state presentate nel corso di questi anni come
aspetti innovativi, moderni.
A
me pare, francamente, che con un piccolo sforzo intellettuale si possa
facilmente capire che queste sono le ragioni per cui i lavoratori e le
lavoratrici fondarono le organizzazioni sindacali per superare quella
condizione di debolezza e affermare collettivamente un potere negoziale.
La
contrattazione come espressione democratica di un altro punto di vista
è considerata incompatibile. Il Ccnl come espressione di un valore
generale di solidarietà non c’entra nulla con la competitività. In
questo quadro esiste soltanto una contrattazione, se vogliamo chiamarla
così, di accompagnamento dei processi sociali già predeterminati nella
legislazione.
L’intesa separata nel rinnovo del biennio economico del
2001, ha
rappresentato da questo punto di vista, l’inizio dell’offensiva per
superare il Ccnl. Altra cosa è ragionare su una politica di riforme che
sia finalizzata alla crescita qualitativa del lavoro, della formazione e
della società.
È
questa analisi sulla profondità dei processi in atto che ha portato
la Fiom
a essere parte attiva fin dall’inizio nella costruzione del movimento
mondiale che contesta e contrasta non la globalizzazione, ma questa
globalizzazione. Per questo eravamo a Genova anche quando
la Cgil
non aveva ancora compiuto questa scelta.
Ma soprattutto abbiamo detto che la guerra stava diventando in questo
scenario uno strumento permanente per governare questa idea del mondo,
dal Kosovo all’Afghanistan e adesso l’Iraq, la guerra …e la nostra
scelta non poteva che essere netta e precisa.
Il ripudio della guerra così come dice la nostra Costituzione.
La nostra condanna del terrorismo è assoluta, ma la guerra non serve a
colpire il terrorismo, ne alimenta la crescita, ne estende l’area di
influenza.
Lo vogliamo ribadire in occasione della visita del presidente degli
Stati Uniti, chiediamo il ritiro di tutte le forze militari che hanno
occupato l’Iraq, che rappresenta la condizione per rendere credibile
una presenza dell’Onu.
Chiediamo contemporaneamente che l’Onu e l’Unione europea agiscano
per fermare le iniziative del governo israeliano di Sharon assumendo
l’accordo di Ginevra.
È sotto gli occhi di tutti la crisi degli organismi internazionali, da
quelli finanziari e commerciali, fino all’Onu, i quali o sono piegati
alla logica di questa globalizzazione oppure sono resi inutili e
inefficaci.
La guerra preventiva assume anche questo significato e la costruzione di
un nuovo ordine internazionale è inscindibile dall’affermazione dei
diritti sociali e civili, dalla democratizzazione degli organismi
internazionali.
In questo contesto l’Europa rappresenta una possibilità, che non è
quella dell’Europa monetaria e di un mercato unico più ampio, ma
quello di un’Europa sociale e politica fondata sul ripudio della
guerra, sui diritti e sul lavoro.
Sono queste le ragioni che ci hanno portato a giudicare negativamente
l’ipotesi di trattato costituzionale europeo.
Saremo presenti alle manifestazioni previste in questi giorni, in
occasione della visita del presidente degli Stati Uniti, saremo presenti
con la nostra identità di organizzazione sindacale democratica, che in
quanto tale ripudia qualsiasi forma di violenza e nella migliore
tradizione del movimento operaio, manifesta a “viso scoperto” senza
ridicole bardature. Così hanno fatto recentemente i lavoratori e le
lavoratrici di Melfi anche di fronte alle cariche della polizia.
Ho voluto richiamare questi aspetti di analisi che sono patrimonio della
nostra organizzazione, perché rappresentano la lettura degli
accadimenti di questi anni, che ci hanno permesso di compiere coerenti
scelte sul versante contrattuale e internazionale.
La
situazione attuale è riassumibile in due aspetti fondamentali:
Le scelte
compiute da Governo e Confindustria ci consegnano la fotografia di un
paese che vede convivere contemporaneamente una crisi evidente del
sistema delle imprese - a
partire dai settori
strategici - la precarizzazione e la molteplicità dei rapporti di
lavoro come condizione generale del lavoro dipendente e una
redistribuzione del reddito, dal lavoro e dalle pensioni, a rendite e
profitti che non ha eguali in Europa.
Non si tratta di aspetti diversi che in qualche modo si sommano ma di
una idea e di una pratica della crescita e dello sviluppo fondata
essenzialmente sulla riduzione dei diritti, delle tutele e delle
retribuzioni.
C’è
un rapporto profondo tra la negazione della democrazia e il tentativo
ancora in corso di cambiare l’articolo 18, quello dei diritti, della
dignità di ogni lavoratore e di ogni lavoratrice. Confermiamo che per
la Fiom
, per
la Cgil
l’estensione dei diritti a partire dalla giusta causa vanno estesi a
tutto il mondo del lavoro dipendente.
Questo e non altro è stato il patto tra Governo e Confindustria che per
essere attuato, reso praticabile ha la necessità di negare la
democrazia, di affermare la logica dell’accordo con chi ci sta, sia a
livello generale che nelle aziende, nelle categorie.
Quando si arriva a firmare un Ccnl separato che esclude
l’organizzazione sindacale maggiormente rappresentativa senza alcuna
legittimazione da parte dei lavoratori e delle lavoratrici interessati,
si persegue l’obiettivo di affermare relazioni sindacali fondate non
soltanto sull’emarginazione della Fiom ma sulla cancellazione dei
lavoratori in carne e ossa, sul fatto che si possono fare degli accordi
che valgono per tutti i lavoratori e le lavoratrici a prescindere da ciò
che loro pensano, a prescindere dal loro giudizio.
Questa è stata la scelta perseguita dalla Federmeccanica e dalla
Confindustria in questi anni perché sappiamo bene che gli accordi
separati sono possibili e resi efficaci soltanto e esclusivamente perché
la controparte li rende tali, li legittima, altrimenti non
esisterebbero.
Siamo chiamati a definire le nostre scelte sui diversi aspetti che
formano questo quadro generale perché non esiste una politica
industriale che non sia contemporaneamente una politica del lavoro e
della distribuzione del reddito.
Qualsiasi ragionamento, allora, non può che partire da una valutazione
sulle scelte che abbiamo compiuto, sul rapporto con i lavoratori e le
lavoratrici, sulle lotte che abbiamo sviluppato nel corso di questi
anni.
Non intendo ripercorrere le diverse tappe della nostra iniziativa, sono
state ampiamente discusse, la domanda che mi pongo e che vi propongo e
se a distanza di circa due anni dal Ccnl separato che aveva
l’esplicito obiettivo di sconfiggere
la Fiom
e i lavoratori metalmeccanici e affermare su questa base le nuove
relazioni sindacali e la pace sociale è stato un obiettivo acquisito o
meno da parte della Federmeccanica.
Qualcuno pensava che tutto si sarebbe risolto con qualche sciopero
generale da parte nostra e tutto sarebbe tornato rapidamente alla
normalità.
Cosi non è stato.
Tanto più dopo gli accordi di Melfi e Fincantieri, credo proprio di
poter dire tranquillamente che
la Fiom
e i metalmeccanici, mi dispiace per loro, sono ancora in piedi, sono un
problema non risolto. Noi diciamo sono un’opportunità.
Molti osservatori interessati ci pongono continuamente la domanda:
“perché i meccanici?”, “perché solo i metalmeccanici?”.
La risposta è persino banale: perché siamo i metalmeccanici e nel bene
o nel male, tutti i passaggi più significativi che ineriscono il lavoro
e la contrattazione trovano nelle nostre vicende contrattuali le
verifiche decisive.
Possiamo dire allora, umilmente che anche grazie alla nostra iniziativa,
alle lotte condotte dai lavoratori e dalle lavoratrici metalmeccaniche,
si è aperta una evidente riflessione nella stessa Confindustria che ha
portato, alla elezione di un gruppo dirigente che non si propone come la
continuità della gestione della presidenza D’Amato.
La scelta dei precontratti, e successivamente dei contratti aziendali,
ha contribuito a rilanciare la contrattazione nei luoghi di lavoro con
l’emergere di un nuovo protagonismo da parte dei giovani, anche nelle
forme di lotta, con la riscoperta e la riappropriazione della possibilità
di intervenire per cambiare le condizioni di lavoro.
Siamo in presenza di un disagio sociale diffuso, perché le condizioni
lavorative e retributive sono peggiorate.
Questo disagio si esprime in forme diverse, a volte perfino inaspettate.
Anche nelle situazioni considerate sindacalmente deboli, dove la
riuscita degli scioperi costituisce spesso un problema.
Penso al presidio e allo sciopero a oltranza in atto da una settimana da
parte dei 200 giovani e ragazze dello stabilimento Polti Sud nella
provincia di Cosenza per l’immediato ritiro dei licenziamenti di un
delegato e di due iscritti al sindacato. Ma nello sciopero, nell’atto
di insubordinazione collettiva, hanno scoperto che sono uniti e forti e
adesso rivendicano anche l’apertura di un negoziato sulle condizioni
di lavoro sostenuti unitariamente da Fiom, Fim e Uilm.
È questo che ci permette oggi di ragionare sulle grandi questioni
aperte.
Politica industriale
La condizione
del sistema delle imprese nel nostro paese è segnata profondamente
dalla crisi economica che coinvolge buona parte dei settori industriali
a partire dai settori strategici.
In
cinque anni la produzione industriale è aumentata meno dell’1%. Gli
investimenti, in macchinari, attrezzature e mezzi di trasporto sono
diminuiti e in particolare negli ultimi due anni del 5%.
Le esportazioni, in diminuzione, sono concentrate nei settori
tradizionali mentre è scarsa, praticamente assente, la produzione di
beni tecnologicamente avanzati.
Le spese per attività di ricerca sono nettamente inferiori a quelle
degli altri paese europei.
Comunque la si guardi, siamo oltre il declino industriale che
la Cgil
ha denunciato con forza alcuni mesi orsono.
Il nostro paese si configura sempre più come un’area di sub-fornitura
e commercializzazione del prodotto, con un ritardo sempre più
accentuato sul terreno della innovazione di prodotto, della ricerca,
della formazione.
L’idea di una crescita fondata sulla riduzione delle tutele, dei
diritti, delle retribuzioni e della destrutturazione del lavoro, ha
semplicemente favorito le disuguaglianze sociali, le attività
finanziarie speculative e consumi di lusso che non a caso sono in forte
crescita a differenza dei consumi delle famiglie.
Lo stesso sistema creditizio è parte di questo scenario per avere
assecondato queste scelte di carattere finanziario e non industriale e
avere allo stesso tempo ampiamente lucrato sui risparmi dei cittadini.
Sono
oscuri i criteri con cui il sistema creditizio compie le proprie scelte
ma è forte la sensazione che siano particolarmente esosi nei confronti
dei cittadini e delle piccole imprese e stranamente generosi rispetto ad
alcune realtà.
È necessaria una svolta profonda, radicale, finalizzata esplicitamente
a una crescita fondata sulla qualità del lavoro, l’innovazione dei
prodotti, la ricerca con una molteplicità di interventi dal versante
pubblico e privato.
Una nuova politica industriale implica perciò delle scelte a partire
dai settori strategici e pone il problema di quale ruolo, debba avere
l’intervento pubblico in presenza di una crisi di queste dimensioni.
Vi è oramai un’ampia pubblicistica cito per tutti Luciano Gallino
sulla devastazione industriale di questi anni, basti pensare
all’informatica, con la distruzione dell’Olivetti, alla
farmaceutica, alla chimica fine, alle telecomunicazioni.
La sbornia che a dire il vero non risale soltanto al Governo Berlusconi,
del piccolo è bello e
delle privatizzazioni ci consegna oggi la cruda realtà di un paese che
ha compiuto operazioni segnate dall’unica volontà di fare cassa senza
un piano strategico di carattere industriale; il Mezzogiorno paga più
duramente questa situazione per il tipo di struttura industriale
esistente e con l’evidente rischio che nel 2006 finiscano le risorse
dei fondi comunitari europei con l’ampliamento dei confini
dell’Europa a paesi che presentano parametri sociali peggiori di
quelli del Mezzogiorno.
I
parametri europei del patto di stabilità devono essere rivisti per
favorire gli investimenti sociali e delle infrastrutture perché oggi
costituiscono una incentivazione alla stagnazione economica, non più
giustificabile con la moneta unica.
È necessario ripensare l’intervento pubblico a tutti i livelli,
nazionale e regionale che corre il rischio, alla fine di questo
processo, di concentrarsi per assurdo nel settore militare, con
l’annunciata operazione di scorporo della Finmeccanica in settore
militare e settore civile, che includerebbe
la Fincantieri.
Confermiamo la nostra contrarietà a questa scelta che assume la
caratteristica delle dismissioni del settore civile.
In questo quadro si colloca la situazione del più grande gruppo
industriale rimasto nel nostro paese:
la Fiat.
Dire
Fiat vuol dire l’intera filiera che coinvolge centinaia di migliaia di
lavoratori e le ricadute tecnologiche sull’insieme del sistema
industriale.
Montezemolo è il nuovo presidente e c’è un nuovo amministratore
delegato.
Inviterei gli esperti, i vari commentatori, a evitare di spiegarci per
l’ennesima volta che c’è la soluzione della crisi, perché c’è
l’uomo giusto al posto giusto.
La realtà è un’altra, in due anni si tratta del quarto
amministratore delegato della Fiat e tutte le volte ci propongono un
nuovo piano, presentato come quello definitivo.
Non abbiamo mai considerato il “Piano Morchio” un piano
soddisfacente per la semplice ragione che non abbiamo mai capito quale
fosse il destino di Mirafiori, di Termini Imerese, di Cassino, che vuole
dire in sostanza della Fiat.
Così come l’idea, che ogni tanto compare e scompare, del polo delle
macchine di lusso Ferrari-Maserati non ci è mai parsa una serie
soluzione alternativa al “Piano Morchio”.
È nostra impressione che la crisi abbia oramai tali dimensioni che i
soggetti da coinvolgere debbano essere diversi
compresi il sistema bancario e il Governo.
Una vera politica industriale non può che partire dal presupposto che
il nostro paese non può rinunciare anche al settore dell’auto e
questo richiede un piano generale nazionale sulla mobilità sostenibile
con un intervento pubblico che agisca sia sul terreno dell’offerta che
della domanda finalizzando in questo modo la stessa attività di
ricerca.
Non è uno scandalo parlare di intervento pubblico diretto, perché
questo avviene in molti paesi europei, dalla Francia alla Germania, che
si sono ben guardate dal dismettere i settori strategici e fondamentali,
comprese le telecomunicazioni. Basti pensare alla vicenda Alston in
Francia.
Se
poi ragionassimo in termini di risorse pubbliche, sarebbe interessante
ricostruire i costi passati, presenti e futuri che il pubblico sta
pagando per accompagnare determinate scelte, dall’informatica
all’auto.
È in grado
la Fiat
di proporre una soluzione credibile di rilancio del settore che non sia
la prospettiva del subentro del sistema bancario, nella proprietà nel
2005?
La verifica non è lontana nel tempo, non solo perché chiediamo un
incontro per capire quali sono le intenzioni del nuovo presidente, ma
per la semplice ragione che per la giornata del 10 giugno è prevista
unitariamente la giornata di lotta a Torino per salvare lo stabilimento
di Mirafiori che con la produzione di 800 auto e 15.000 dipendenti non
ha alcuna seria prospettiva.
Si comincerà a capire dalle risposte su Mirafiori, come questione
nazionale, se le dichiarazioni di Montezemolo, presidente della
Confindustria, trovano un riscontro positivo in Montezemolo, presidente
della Fiat.
Contrattazione
L’essenza
stessa di un sindacato è rappresentato dalla contrattazione,
dall’esercizio di una contrattazione fondata sull’espressione
autonoma e democratica di un altro punto di vista, quello del lavoro.
L’accordo,
la mediazione è sempre il risultato di un confronto e dove necessario
di un conflitto tra interessi diversi: quelli del capitale e quelli del
lavoro.
Quando la contrattazione è puramente funzionale agli interessi
dell’impresa, quando la contrattazione si riduce a puro esercizio di
calcolo nel rapporto tra aumenti retributivi variabili e redditività
e/o bilanci dell’impresa non c’entra nulla con le condizioni
lavorative, è altra cosa.
È
altra cosa anche sul piano retributivo perché la produttività vuole
dire lavoro e in quanto tale va consolidata e garantita.
Rimettere al centro la condizione lavorativa, l’organizzazione del
lavoro nei suoi diversi aspetti, dai ritmi di lavoro all’orario, alla
sicurezza, alla formazione è condizione per rilanciare anche un sistema
informativo e di relazioni sindacali che preveda la partecipazione dei
soggetti sindacali.
Per
questo l’obiettivo del rilancio della contrattazione significa fare i
conti in primo luogo con i processi di frammentazione del ciclo
lavorativo e di precarizzazione dei lavoratori e delle lavoratrici.
L’applicazione della Legge 30, dai nuovi rapporti di lavoro alla
cessione dei rami di azienda, accentuerà questi processi e questo richiede
da parte nostra e della Cgil degli orientamenti precisi.
La frammentazione del ciclo lavorativo, della catena di
progettazione-fabbricazione-commercializzazione del prodotto rende
possibile che lavoratori e lavoratrici che sono parte dello stesso ciclo
lavorativo siano scomposti in aziende formalmente diverse, che in talune
occasioni corrispondano anche sindacalmente a categorie e contratti
diversi.
Riunificare
il lavoro significa sperimentare anche forme di contrattazione di
filiera e/o di sito, dentro un percorso che è quello di unificare il più
possibile ciò che si vuole dividere per rendere impraticabile un reale
intervento sull’organizzazione del lavoro.
Questo significa anche sperimentare coordinamenti intercategoriali nella
contrattazione laddove sussistono contratti di riferimento diversi.
Ma
ciò implica l’avvio di un percorso che ci deve portare ad affrontare
un nodo non eludibile che riguarda l’attuale assetto confederale, la
composizione delle categorie e la molteplicità dei contratti esistenti.
Non può essere affrontato questo problema a pezzi e pezzettini con
assoluta improvvisazione. Tanto meno sulla base della omogeneità dei
gruppi dirigenti.
Vicende come quella dell’Omnitel che è stata portata via dalla nostra
categoria con l’opposizione dei delegati, non sono ripetibili.
Siamo di fronte a una scelta che non è di natura organizzativa, bensì
di carattere contrattuale per la semplice ragione che a partire dai
nostri obiettivi contrattuali dobbiamo ridefinire le scelte
organizzative.
Dobbiamo discutere e scegliere se la nostra organizzazione si debba
plasmare e aderire agli attuali processi di frantumazione del ciclo
lavorativo, per cui alla fine industria vuole dire fabbricazione mentre
tutto il resto vuole dire terziario, commercio, Nidil,
telecomunicazioni, oppure se il nostro obiettivo sia quello della
riunificazione del lavoro nella sua filiera produttiva.
Se una grande azienda metalmeccanica esternalizza il call-center questi
lavoratori fanno parte dei metalmeccanici o di un’altra categoria?
Oppure, per capire la radicalità del problema, se
la Telecom
non investe e attua semplicemente una politica di riduzione del debito e
di esternalizzazione, perché nel frattempo vive di rendita sul
monopolio della rete dei telefoni fissi e riduce del 20-30% i costi
delle aziende appaltatrici per cui alla fine ci sono migliaia di
lavoratori metalmeccanici che sono contemporaneamente in cassa
integrazione da anni e nello stesso tempo svolgono quel lavoro in nero
cosa significa a quel punto la contrattazione, se non esiste un luogo
contrattuale che tenga assieme il ciclo lavorativo?
Nella catena del valore del prodotto se industria vuole dire
semplicemente fabbricazione si riducono inevitabilmente tutti gli spazi
contrattuali e le disuguaglianze tra lavoratori.
Per questo e con questo significato che attribuiamo al termine industria
proponiamo alla nostra discussione e a quella della Cgil la formazione
del sindacato dell’industria.
Del resto questa discussione è aperta in gran parte dei sindacati
europei, alcuni hanno già deciso, come è successo ad esempio in
Germania con la formazione di tre grandi categorie.
Non credo che categorie più
forti siano una messa in discussione della confederalità.
Sarebbe strano e un po’ deprimente pensare che esiste la confederalità
perché c’è la frammentazione delle categorie.
Proporci l’obiettivo della riunificazione del lavoro vuole dire
contrastare l’applicazione della Legge 30, perseguendo l’obiettivo
della trasformazione, in tempi definiti, dei rapporti di lavoro atipici
in rapporti di lavoro a tempo indeterminato e rifiutando
l’introduzione di rapporti di lavoro come il lavoro a chiamata e lo
staff-leasing.
Abbiamo detto, come Cgil, che le varie leggi approvate dal governo,
dall’orario di lavoro, ai contratti a termine, alla legge 30 sono
inaccettabili, e abbiamo raccolto 5 milioni di firme a sostegno di
questa posizione.
Non può rimanere questa una petizione di principio, una richiesta da
formulare al mondo politico.
Per un sindacato questo non è possibile, è necessaria una pratica
contrattuale che sia coerente rispetto a ciò che diciamo, a ciò che
abbiamo affermato.
Questo riguarda
la Fiom
e
la Cgil
nel suo complesso.
Non è mia intenzione, sarebbe sbagliato, esprimere giudizi
sull’esercizio dell’autonomia contrattuale di altre categorie, ma
certo impressiona leggere formulazioni che di fatto recepiscono la legge
30 nelle causali per il ricorso del lavoro a termine, nell’accettare
il lavoro a chiamata, fino ad arrivare alla deroga sulle 11 ore di
riposo garantite dalla pessima legge sull’orario che prevede la
possibilità di 13 ore di lavoro.
Impressiona leggere formulazioni che persino sulla Legge 30 introducono
differenziazioni peggiorative per i lavoratori al Sud tanto più a
fronte delle lotte che si stanno sviluppando per la perequazione
retributiva e normativa.
Impressiona
leggere formulazioni per la regolarizzazione dei co.co.co. con contratti
che assomigliano a quelli di emersione dal lavoro nero.
Il problema esiste anche nella nostra categoria, ma questo diventa un
aspetto dirimente nella contrattazione che vogliamo svolgere e che
riguarda direttamente gli orientamenti della stessa Cgil, delle lotte
che
la Cgil
ha promosso nel corso di questi anni.
La logica della riduzione del danno è una logica devastante nella
storia del movimento operaio, del movimento sindacale, perché ha
portato a scrivere le pagine più vergognose e meno nobili della nostra
attività.
Estendere la contrattazione alla platea interessata dei lavoratori e
delle lavoratrici vuole dire anche porci il problema della realtà delle
piccole aziende dove difficilmente arriva la contrattazione aziendale.
Non è più eludibile una esplicita discussione sulla necessità di
sperimentare in alcune realtà la contrattazione territoriale per
ridotte dimensioni di impresa da definire.
Infine, la contrattazione deve oggi fare i conti con i processi globali,
con l’Europa e il suo allargamento, con i processi di delocalizzazione
che vengono minacciati tutte le volte che si apre una vera trattativa in
particolare in alcuni settori come l’elettrodomestico, ma non solo.
Sarebbe sciocco e miope negare che sussiste una evidente sfasatura tra
la velocità di questi processi e la lentezza esasperante della
costruzione di un soggetto sindacale adeguato di dimensione europea.
Non possiamo permetterci il lusso di avere nostri tempi che non tengano
conto del rapido mutare della situazione.
Per questo riteniamo necessario
che la fase dei coordinamenti europei e
della esperienza dei Cae debba essere esplicitamente finalizzata alla
costruzione del sindacato europeo, del contratto europeo che può
prevedere al suo interno differenziazioni per i diversi paesi, dentro a
un percorso di avvicinamento delle condizioni dei lavoratori sui
diritti, sull’orario, sulle retribuzioni. Vanno definite le gradualità
di questo processo ma bisogna cominciare un vero confronto nella Fem,
senza diplomatismi e reticenze.
Struttura
contrattuale
Abbiamo già detto che oggi non
esiste più un sistema di regole sulla contrattazione e si pone il
problema di come riconquistare un Ccnl.
Per quanto ci riguarda ribadiamo che la struttura contrattuale deve
essere fondata sul doppio livello di contrattazione, quello aziendale e
quello nazionale.
Non condividiamo tutte le ipotesi che hanno l’esplicito obiettivo di
indebolire e superare sostanzialmente la funzione del Ccnl in nome di un
non meglio definito rafforzamento della contrattazione decentrata.
È veramente singolare che molti osservatori, ovviamente interessati, ci
spieghino che per affrontare la frammentazione del lavoro e la questione
retributiva bisogna rafforzare la contrattazione aziendale/territoriale,
che vuole dire accentuare tutte le disuguaglianze esistenti sul piano
normativo e retributivo.
A noi paiono tutte operazioni di copertura di una questione molto
semplice: va ridotta la funzione del Ccnl perché essendo la massima
espressione della solidarietà generale tra tutti i lavoratori
rappresenta un ostacolo a una logica puramente competitiva.
Questa è la ragione vera per cui il Ccnl è oggetto di una offensiva in
tutti i paesi europei come dimostrano i recenti rinnovi contrattuali in
Germania.
Per questo ribadiamo che il
ruolo del Ccnl non va indebolito, ma rafforzato sia nella parte
normativa che in quella retributiva.
Nella parte normativa sul terreno dei diritti, dell’orario,
dell’inquadramento professionale, della sicurezza e della formazione
continua.
Nella parte retributiva ponendoci esplicitamente l’obiettivo di un
aumento delle retribuzioni reali per contribuire a invertire la tendenza
che si è affermata in questi anni contro il lavoro e le pensioni.
Sappiamo bene che non si
inverte questa tendenza agendo soltanto sulla leva contrattuale ma è
necessario un intervento sulla struttura fiscale, sull’assetto dello
stato sociale, ma ciò nulla toglie al fatto che la definizione di un
sistema di regole per la struttura contrattuale non può prevedere che
per i prossimi anni venga esclusa la possibilità nei Ccnl di aumenti
retributivi reali per l’insieme della categoria.
Ho trovato singolare la critica che questa sarebbe una “linea
salarialista”, perché se cosi fosse vorrebbe dire che l’intera
storia del movimento operaio e stata “salarialista”.
La
concertazione, fondata sulla precarizzazione e sulla moderazione
salariale, per dirla con le parole Di Fazio, non è possibile.
Il problema non è quello tra chi è a favore o contrario alla
definizione di un sistema di regole sulla contrattazione, bensì quali
regole.
Quale ruolo e funzione del contratto nazionale.
Per
questo abbiamo valutato criticamente l’accordo confederale degli
artigiani che prefigura una struttura contrattuale che può aprire al
federalismo regionale e che non può essere assunto come
riferimento per la definizione di nuove regole.
Tutte le nostre scelte sono attraversate da una scelta fondamentale che
abbiamo compiuto nel corso di questi anni, quella della democrazia,
della partecipazione e del voto dei lavoratori e delle lavoratrici sulle
piattaforme e sugli accordi.
Abbiamo voluto in questo modo affermare che la titolarità delle
piattaforme e dei contratti è dei diretti interessati perché ciò
costituisce l’esercizio di un diritto democratico che deve essere
riconosciuto anche attraverso una legge sulla rappresentanza sindacale.
A questa scelta sono state sollevate diverse obiezioni, ed in
particolare riguardo il rapporto tra il ruolo dell’organizzazione e
degli iscritti con l’insieme dei lavoratori interessati. Insomma che
il voto dei lavoratori in qualche modo esautora il ruolo del sindacato e
delle Rsu.
A noi pare vero il contrario per la semplice ragione che un gruppo
dirigente, il sindacato ma le stesse Rsu, sulla contrattazione aziendale
hanno la responsabilità di gestire la trattativa in rapporto con i
lavoratori e con le assemblee e quando definiscono un accordo hanno il
dovere di verificarlo con tutti i lavoratori interessati.
Questo comporta semplicemente il fatto che quel gruppo dirigente, quella
Rsu, può anche rischiare di perdere perché la democrazia ha questo
piccolo difetto, non garantisce il risultato finale.
Per questo non è vero che si esautora ma viceversa si esprime appieno
la responsabilità delle organizzazioni sindacali e delle Rsu.
Così abbiamo fatto a Melfi nell’assemblea che ha deciso di togliere i
presìdi, proclamare lo sciopero di 8 ore e iniziare il negoziato con
la Fiat.
In quell’assemblea potevamo perdere, a dire il vero tanti lo
speravano, ma noi concepiamo in questo modo il rapporto con i lavoratori
e con le lavoratrici.
Da qui, dalla democrazia è necessario ripartire, verificare la
possibilità, in assenza di una legge che per noi rimane un obiettivo da
perseguire, di definire con le altre organizzazioni sindacali regole
democratiche che di per se escludano la pratica degli accordi separati e
rendano possibile la definizione di proposte unitarie.
Sarebbe sciocco e miope sottacere e tanto meno sottovalutare le profonde
divisioni che hanno segnato nel corso di questi anni il rapporto con Fim
e Uilm.
Ma il fallimento della politica di Governo e Confindustria, può aprire
percorsi diversi e
la Fiom
è un sindacato che ha fatto della democrazia e dell’unità aspetti
fondanti del proprio agire.
Nelle realtà di crisi stiamo sviluppando iniziative unitarie importanti
e significative e questo ci può permettere di verificare la possibilità
di promuovere unitariamente entro l’estate, una giornata di
mobilitazione dei metalmeccanici a difesa dell’occupazione per una
svolta della politica industriale nel nostro paese.
Un
momento unitario di unificazione delle tante vertenze e lotte aperte in
tutto il paese.
Nella contrattazione in questi anni, in questi ultimi mesi è successo
di tutto, dai precontratti, alle piattaforme aziendali unitarie, alle
piattaforme aziendali diverse con conclusioni democratiche e unitarie.
Cosi è stato ultimamente in diverse realtà e cito in particolare Melfi
e Fincantieri.
Anche
a partire da queste esperienze proponiamo a Fim e Uilm di definire
l’insieme delle regole democratiche e promuovere una campagna di
assemblee unitarie in previsione del rinnovo del biennio economico.
Proponiamo:
1
- Su Rsu e contrattazione aziendale
Superamento
del Patto di solidarietà con la elezione su base proporzionale di tutti
i delegati.
La
titolarità della contrattazione aziendale deve essere delle Rsu, con un
percorso che preveda il referendum sulla piattaforma, lo strumento
dell’assemblea come partecipazione alle diverse fasi della trattativa
e il referendum di mandato sulla ipotesi conclusiva di accordo.
2 - Sul Ccnl a partire
dal rinnovo del biennio economico di fine anno
Elezione
su base proporzionale di una Assemblea nazionale di delegati, da
svolgersi contemporaneamente al referendum sulla piattaforma, che segua
e decida i diversi passaggi della trattativa.
L’ipotesi
conclusiva di accordo approvata dall’Assemblea nazionale dei delegati,
deve essere sottoposta al referendum di tutti i lavoratori e
lavoratrici.
Formuliamo
queste proposte nella piena consapevolezza che l’unità d’azione ci
rende tutti più forti ma che unità e democrazia non sono scindibili,
non sono separabili.
La
nostra proposta vuole anche essere una indicazione di carattere generale
per
la Commissione Cgil
,Cisl,Uil, che sta lavorando sulla definizione delle regole
democratiche.
Il
voto dei lavoratori non è una specificità di categoria, ma assume un
valore generale di natura strategica dell’identità del sindacato,
cosi come peraltro deliberato nel documento conclusivo dell’ultimo
Congresso della Cgil, laddove si afferma “
la Cgil
continua a non considerare come pratica democratica l’idea che siano
le organizzazioni a decidere per conto di tutti e quindi a sottrarre ai
lavoratori il giudizio su una attività loro destinata” e
aggiunge “per
la Cgil
la valutazione certificata è elemento costitutivo dell’identità
democratica dell’organizzazione”.
Non
sta a noi giudicare se questa è diventata pratica dell’agire di tutta
l’organizzazione.
Colloco
in questo contesto una valutazione sul recente cambio della dirigenza
della Confindustria e la relazione programmatica del presidente
Montezemolo.
Non
vi è dubbio che siamo di fronte nei toni e nella impostazione generale
aun elemento di evidente novità rispetto alle scelte di questi ultimi
anni a partire dal giudizio nei confronti del governo Berlusconi.
Insomma
non siamo alla riedizione del “Patto di Parma”, ma al riconoscimento
della gravità della situazione sociale del nostro paese e dalla
necessità di aprire un confronto con tutte le organizzazioni sindacali.
Sarebbe
miope da parte nostra non cogliere le novità che sono anche il frutto
della nostra iniziativa.
Nello
stesso tempo è necessario, con estrema chiarezza, ribadire che non
esiste la riedizione del Patto sociale del 23 luglio ’93, come se
nulla fosse successo nel corso di questi 10 anni, dalla politica
industriale, alla precarizzazione di massa, alla riduzione delle
retribuzioni e delle pensioni.
Sono
possibili convergenze su singoli aspetti ma non il “Patto
tra produttori”, che non è né possibile né
auspicabile.
Esiste
oggi una piattaforma Cgil, Cisl e Uil sostenuta da uno sciopero
generale, il Governo ha risposto, o meglio non ha risposto e procede a
colpi di fiducia sulle pensioni, sulla sanità, sulla scuola, sulla
giustizia e sulla delega fiscale.
È
necessario e inevitabile che l’iniziativa confederale assuma per
intero la caratteristica di una vertenza, e quando la controparte non
apre il confronto e addirittura procede in direzione opposta la risposta
non può che essere quella di definire un programma di iniziative di
lotta e di mobilitazione che sostenga e renda credibili le nostre
proposte.
Alla
nuova Confindustria, a Montezemolo diciamo che abbiamo colto le novità
ed espresso le nostre valutazioni, ma vorremmo capire meglio se tra le
novità possiamo includere il fatto che
la Confindustria
considera finita la stagione degli accordi separati. Lo chiediamo a
Montezemolo perché, insisto, gli accordi separati sono possibili perché
la controparte sceglie di farli.
Compagni
e compagne nel corso di questi anni, pur tra mille difficoltà, abbiamo
praticato e non solo scritto nei documenti la scelta identitaria di una
organizzazione sindacale unitaria democratica e indipendente.
Questo
ci ha permesso di sviluppare un rapporto con i lavoratori e le
lavoratrici, di favorire l’emergere di un nuovo protagonismo, di una
nuova soggettività a partire dalle nuove generazioni.
I
risultati che i lavoratori stanno conseguendo, anche attraverso
iniziative unitarie prefigurano le condizioni per riscrivere il
Contratto nazionale che rimane il nostro obiettivo.
La
democrazia, la lotta contro la precarizzazione e il peggioramento delle
condizioni di lavoro, la lotta per un mondo migliore hanno segnato
profondamente il senso, il significato di tutte le nostre iniziative.
Abbiamo
detto sindacato indipendente e autonomo perché associa all’autonomia
progettuale la scelta del voto dei lavoratori come vincolo per
presentare piattaforme e firmare accordi.
Per
questo possiamo avere governi avversari, come quello attuale, ma non
abbiamo governi amici a cui delegare i nostri obiettivi.
Oggi
abbiamo un Governo avversario e tra una settimana ci sono importanti
elezioni europee.
Auspichiamo
che questo governo, che definisce
la Cgil
“la fabbrica dell’odio”, esca sconfitto da questa prova elettorale
e aggiungiamo che avendo scelto il presidente del Consiglio di
candidarsi, pur affermando che rinuncerà al mandato europeo, il
significato del voto assume inevitabilmente il valore del giudizio
sull’attuale compagine governativa.
Nello
stesso tempo a futura memoria diciamo a tutte le forze politiche di
opposizione che per quanto ci riguarda la legge sulla rappresentanza
sindacale e il ritiro delle leggi che hanno peggiorato la condizione di
lavoro ed esteso la precarizzazione di massa sono per noi aspetti
decisivi di un programma politico di una coalizione che si proponga come
alternativa a questo governo.
I
metalmeccanici non dimenticano che quattro anni di accordi separati da
parte dei padroni sono stati possibili perché qualcuno si è
dimenticato di dare corso a una legge sulla rappresentanza.
Non
è stato un errore ma la conseguenza di una analisi sbagliata dei
processi sociali in atto.
Sindacato
indipendente perché i nostri obiettivi, le nostre scelte di fondo sono
gli stessi con qualsiasi Governo e allora diciamo chiaramente che non
pensi qualcuno che in uno scenario politico diverso si possa dire: si
è chiusa una fase, la situazione del paese è drammatica, i conti dello
Stato sono in realtà peggiori di quelli che conosciamo, facciamo una
riedizione del 23 luglio.
Cosi
non funziona. Lo schema che c’è
la Tatcher
che fa il lavoro sporco, lo scasso sociale e poi subentra Tony Blair,
non è lo schema auspicabile. Del resto noi,
la Fiom
,
la Cgil
siamo ancora qui.
È
necessaria una svolta reale e qualsiasi sistema di regole che sia
finalizzato alla crescita non può che partire dalla riunificazione del
lavoro e da una redistribuzione della ricchezza verso il lavoro e le
pensioni.
Diciamo redistribuzione della ricchezza per esplicitare la
discontinuità rispetto a una versione della politica dei redditi che
nel corso di questi anni ha comportato un pesante arretramento della
retribuzione dei lavoratori e delle lavoratrici.
Nello
stesso tempo con questo Congresso ci proponiamo di mettere in atto
scelte coerenti e una nuova strumentazione della nostra organizzazione
che ci permetta di affrontare le prove difficili che stanno davanti a
noi, agli sconvolgimenti sociali in atto.
Dobbiamo favorire il rinnovamento dei gruppi dirigenti a tutti i
livelli, aprire decisamente alle nuove generazioni che hanno
caratterizzato le lotte di questi anni in un mondo del lavoro che
cambia, che chiede una rappresentanza adeguata.
Basti pensare ai lavoratori stranieri che in molte realtà
territoriali sono il 10-15% dei nostri iscritti e non sono presenti
negli organismi dirigenti.
Un rinnovamento che abbia ben chiaro il fatto che svolgere il
ruolo del dirigente della Fiom non significa svolgere un mestiere, ma
esercitare una militanza che è tale se sorretta da forti motivazioni e
passione nel rapporto con i lavoratori e le lavoratrici.
Quando
non è così e si vive il proprio ruolo come un mestiere può succedere
che sia persino normale passare da un mestiere all’altro in ruoli e
funzioni contrapposte.
Proponiamo
che il vincolo democratico del voto dei lavoratori sia assunto come
vincolo congressuale per tutta l’organizzazione a esclusione dei
diritti individuali fondamentali che in quanto tali non possono essere
oggetto di alcuna votazione.
Per
quanto riguarda situazioni particolari come ad esempio le aziende
artigiane, vanno definiti percorsi democratici a partire dal
coinvolgimento degli iscritti.
Nella
vita interna della nostra organizzazione la scelta della democrazia
implica anche un rapporto con i nostri iscritti che va rinnovato in
tempi definiti e certi.
Per
questo propongo che ogni 3 anni si proceda al rinnovo di tutte le
deleghe sindacali della Fiom.
Laddove
abbiamo fatto questa esperienza abbiamo registrato una crescita dei
consensi, proprio perché viene vissuto come un atto di democrazia.
Una
strumentazione che ci permetta di estendere i nostri rapporti con
competenze anche esterne che siano funzionali alla necessità di leggere
i processi sociali in atto e favoriscano la nostra capacità
d’intervento.
Per
questo proponiamo:
1
-
Dare corso a un progetto formativo, in rapporto con i territori, con la
definizione di una scuola sindacale Fiom per delegati e gruppi
dirigenti che sia anche strumento di ricerca e di approfondimento sui
processi reali di cambiamento del mondo del lavoro.
Come
molti di noi sanno, era il progetto a cui stava lavorando Claudio
Sabattini, anzi a dire il vero tutto era già predisposto e si era
offerto di dirigerla con il lavoro volontario, a partire da una
considerazione molto semplice: quella di esplorare ciò che sta
veramente accadendo nei luoghi di lavoro, nella condizione di lavoro di
cui tanti parlano senza sapere di che cosa parlano.
2
–
Dopo una fase sperimentale, formalizzare la costituzione di una Consulta
giuridica nazionale che abbia il compito e la funzione di essere un
momento di approfondimento e di proposta sulle grandi questioni aperte
sulla legislazione inerenti il lavoro.
Il
convegno di Torino di cui abbiamo pubblicato gli atti ci sta a indicare
quali potenzialità e disponibilità ci siano nel nostro paese a
collaborare con
la Fiom
in questa direzione.
3
–
La costituzione di una Consulta economico-sociale nazionale che
si avvalga di diverse competenze sul piano economico, finanziario e
sociale che sia uno strumento di riflessione e di proposte per
l’insieme dell’organizzazione.
Il
convegno sulla politica industriale che abbiamo svolto recentemente a
Napoli testimonia delle disponibilità e della possibilità di avvalerci
anche di diverse competenze esterne alla nostra organizzazione.
Si
tratta anche in questo modo di dotarci di una strumentazione che ci
permetta di affrontare una fase così difficile che può ulteriormente
peggiorare nei prossimi mesi.
L’asprezza
del conflitto sociale in atto, le situazioni di crisi aziendali con le
lotte per la difesa dell’occupazione, gli atti discriminatori e
antisindacali contro i delegati e gli iscritti al sindacato come
avvenuto recentemente in Molise e in Calabria ci stanno a indicare che
la scelta che abbiamo compiuto sulla Cassa di resistenza va
ribadita e rilanciata.
Ma
questo non è più sufficiente; è necessario decidere la strutturalità
del funzionamento della Cassa di resistenza perlomeno nella fase di
avvio.
Per
questo propongo di definire un contributo annuo limitato della delega
sindacale Fiom, fermo restando l’attuale meccanismo per i nuovi
iscritti e aprire un confronto con
la Cgil
per un contributo derivante dalla quota di canalizzazione della Fiom
alla confederazione.
Compagni
e compagne,
questa
nostra discussione congressuale è stata attraversata in modo improprio
da una lettura esterna tutta finalizzata a capire quale rottura si
sarebbe determinata tra
la Fiom
e
la Cgil.
O
meglio, per essere più precisi, in base a ciò che stava accadendo
nelle lotte dei lavoratori e delle lavoratrici di Melfi, Fincantieri,
Mirafiori, e altre realtà si passava tranquillamente dalla rottura,
all’abbraccio di Chianciano, a seconda delle giornate.
Come
dire, non riescono proprio a capire perché evidentemente le loro
categorie concettuali di riferimento non sono le nostre e questo
riguarda anche tanti che di mestiere fanno i sindacalisti.
Non
c’è niente da fare, leggono tutto a partire dal mondo della politica
da cui fare discendere questa o quella operazione politica, mentre
sarebbe così semplice e naturale partire degli interessi generali dei
lavoratori, delle lavoratrici e dei pensionati.
Allora
è necessario ribadirlo per l’ennesima volta proprio qui a Livorno,
dove nel 1901 è stata fondata la nostra organizzazione.
La Fiom
nasce come sindacato industriale e non di mestiere proprio perché nasce
come sindacato generale che promuove assieme ad alcune C.d.L.T. la
nascita della Cgil nel 1906.
Non
esiste
la Fiom
al di fuori di una dimensione confederale proprio perché non abbiamo
mai concepito la confederalità come una divisione burocratica dei
compiti. Per cui le categorie rappresenterebbero la parzialità e
la Confederazione
l’interesse generale.
Per
la Fiom
e per
la Cgil
la confederalità è la costruzione faticosa dell’espressione degli
interessi del mondo del lavoro subordinato e dei pensionati a cui le
categorie contribuiscono con le proprie scelte e le proprie esperienze.
Per questo la dialettica tra
la Fiom
e
la Cgil
è sempre stata nella storia del movimento sindacale del nostro paese,
un elemento costitutivo della esperienza sindacale, un elemento di
reciproco rafforzamento.
Questo e non altro, è la discussione in atto. Questo e non
altro, è il significato delle proposte, delle scelte che proponiamo
come Fiom.
Abbiamo
discusso e votato nel Congresso su due mozioni che sarebbe singolare
ricondurre a una sintesi unitaria, lo avremmo fatto all’inizio del
congresso.
Altra
cosa è verificare la possibilità, che auspico fortemente, di un
documento unitario sulle proposte che da questo Congresso formuliamo
anche alle altre organizzazioni sindacali.
Abbiamo discusso, anche vivacemente per rendere più forte e
incisiva la nostra iniziativa nella comune consapevolezza che
la Fiom
discute e decide. E quando decide esiste una sola Fiom così come
avviene nel rapporto con i lavoratori.
Ci
attendono prove difficili, questo ci viene imposto dalla fase storica
che attraversiamo, ma sono sicuro che da questo Congresso,
dall’intreccio tra la nostra discussione congressuale e le lotte dei
lavoratori e delle lavoratrici si può aprire una nuova fase, quella che
rimette al centro di tutte le scelte la valorizzazione del lavoro, il
lavoro come costruzione di una soggettività democratica, unitaria, e
indipendente.
Hanno tentato di farci fuori, di far fuori i metalmeccanici e
la Cgil
, non ci sono riusciti e per il sottosegretario Sacconi è diventato una
sorta di incubo.
Non
sappiamo cosa farci.
Da
questo congresso, lo sappiamo tutti, ne sono sicuro, uscirà una Fiom
ancora più rafforzata e determinata.
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