XXIII Congresso Nazionale Fiom

Guglielmo Epifanisegretario generale Cgil

 

Care compagne e cari compagni, io credo che abbia fatto bene Gianni (Rinaldini, ndr) nella sua relazione e gran parte degli interventi del Congresso e della discussione congressuale, a insistere molto sull’analisi della situazione economica che riguarda il settore metalmeccanico, di quasi tutti i suoi comparti, e la situazione del paese.

Giorno dopo giorno diventa evidente che quando tre anni fa parlammo di rischio di declino industriale avevamo visto così giusto che, a soli tre anni di distanza, quel rischio di declino è diventato una vera e propria crisi che non si riesce ad arrestare. E facemmo bene a parlare di rischio di declino industriale in senso stretto perché di questo, come tutto dimostra, si tratta.

Oggi siamo nella situazione in cui questa preoccupazione, questa analisi è condivisa; ormai la condividono praticamente tutti tranne, forse, un sottosegretario di questo governo e forse il vecchio presidente di Confindustria. E tutti concordano, e giorno dopo giorno ci spiegano da dove viene questa crisi, quali sono i problemi che l’alimentano e provano a misurarsi su come affrontarla.

È evidente, come dicemmo già allora, che non è una crisi che viene da vicino, sarebbe illusorio tra di noi consolarsi con l’idea che siccome le politiche di questo governo sono sbagliate, basta raddrizzare queste politiche che i problemi si risolvono; magari fosse così!

I problemi sono, purtroppo, più seri, vengono da più lontano, questo nulla toglie alle responsabilità che aggravano la situazione di questo governo, ma dobbiamo sapere quale è la profondità della crisi e quale l’altezza delle risposte che bisogna mettere in campo.

Tutto questo chiama a una grande responsabilità, e la prima grande responsabilità attiene al sistema delle imprese e alla classe imprenditoriale del nostro aese. Questo va detto con assoluta chiarezza e va detto con assoluta forza.

Abbiamo anche noi sottovalutato le preoccupazioni che la parte consistente del nostro sistema industriale aveva nei confronti dell’euro; prendemmo in giro quelle preoccupazioni, non capivamo se non la miopia di chi, attaccato alla svalutazione competitiva, guardava all’euro solo con paura.

Eppure, pensate, ho provato a rifare qualche conto e ho scoperto che in 20 anni, tra il 1970 e il 1990 la svalutazione della lira è stata del 70%; divisa per 20 anni vuol dire che le nostre imprese hanno riconquistato margini di competitività alla misura media del 3-3,5% all’anno, anno dopo anno.

Immaginate non solo una moneta unica, ma una moneta della forza dell’euro rispetto a un sistema delle imprese, a una cultura delle imprese, a una modalità che diventava sistema che per 20 anni si è alimentata principalmente di queste scelte.

Non a caso, di fronte a una moneta che è così forte, si scopre quello che quella svalutazione permanente copriva e non è un caso se proprio oggi, tanto più con l’allargarsi dei mercati internazionali, abbiamo – giorno dopo giorno – questo stillicidio infinito, che purtroppo non si ferma – come sappiamo, come sapete – fatto di aziende che vanno in difficoltà, di aziende che vengono comprate per essere chiuse, di aziende che delocalizzano, soprattutto, attività alte e attività manifatturiere, senza che si veda la fine di questo percorso e di questa situazione.

Lo stesso governatore della Banca d’Italia ha fornito – lo citava Gianni nella sua relazione – un dato assolutamente emblematico e visivo di questa situazione, quando ha detto che due paesi che giustamente pure sono considerati talvolta in crisi, come la Germania e la Francia, hanno avuto negli ultimi 5 anni, dal 1998 al 2003 un aumento del valore della loro produzione industriale del 6% e il nostro paese negli stessi anni ha avuto un aumento inferiore all’1%. Soltanto negli ultimi 5 anni gli altri che sono considerati in crisi hanno aumentato la produzione industriale di qualche cosa superiore a 6 volte quello che il nostro paese è stato in condizioni di realizzare.

Ho voluto ricordare questa situazione perché qui c’è la prima questione, ed è una prima questione che noi abbiamo posto da tempo, voi avete posto, le nostre categorie industriali hanno posto.

Qui c’è la scelta di fondo di fronte al paese, alle imprese, al governo, al Parlamento, agli Enti locali e a tutti coloro che hanno una responsabilità per decidere: accettare questo declino o contrastarlo.

Per accettare questo declino basta non fare niente, basta lasciare che le cose vadano, le cose da sole continueranno ad accentuare questo declino, giorno dopo giorno, lentamente, ma inesorabilmente. Oppure contrastarlo, combattere questa tendenza, porsi l’ambizione alta di dare finalmente al paese un’altra dimensione.

Io trovo da questo punto di vista nelle impostazioni, nelle intenzioni e nelle parole che il nuovo presidente di Confindustria ha usato nella sua assemblea dopo la sua elezione, le parole di una persona che non si vuole rassegnare a questo declino.

Se è così noi possiamo registrare una straordinaria vittoria dal punto di vista delle scelte e dell’egemonia culturale perché prima di altri abbiamo visto le cose che non andavano e, prima di altri, abbiamo posto a noi stessi e agli altri la scelta di fronte alla quale il paese si trova a scegliere.

Non basta, però, dire che abbiamo vinto su questo terreno, perché per vincere definitivamente bisogna assumere non soltanto il fatto che queste impostazioni diventino, poi, scelte concrete, ma bisogna tenere assieme quel corollario che lega le modalità di uscire dalla crisi per arrestare il declino, alla grande questione degli investimenti, di innovazione in qualità ed in formazione.

Non si arresta il declino se non si cambia registro e non si cambia registro se il tema dell’innovazione, della formazione, della qualità, il tema del valore del lavoro, dei diritti del lavoro, delle retribuzioni del lavoro e la fine della precarietà non sono visti come corollario indispensabile e altra faccia della stessa battaglia.

Se abbiamo vinto sul primo fronte oggi abbiamo il dovere e di fronte a noi il percorso di provare a vincere sul corollario che lega il primo fronte alla  sua attuazione: non ci può essere altra strada e non ci può essere altra prova di coerenza.

Per questo non ho capito e non condivido la sottovalutazione che ho trovato sia nelle parole di Montezemolo, sia tanto più in quelle di Fazio quando di fronte a uno scenario corretto, alle indicazioni delle cose che non vanno, alla richiesta di politiche diverse, soprattutto nell’intervento del governatore della Banca d’Italia, ho assistito di nuovo alla riproposizione di una politica, di una richiesta di politica di moderazione salariale; non ci siamo!

E non ci siamo non perché c’è un punto di vista estremista, lo voglio dire con forza. Non è questo, è che una politica di bassi salari si lega con quei fattori che accentuano il declino del paese; se si vuole, invece, un altro traguardo, un’altra politica, un’altra svolta, c’è bisogno di fare politiche che abbiano su questo terreno un segno diverso e coerenza tra quello che si dice che bisogna fare e quello che poi bisogna fare, per quanto riguarda il rapporto con il lavoro e con i lavoratori.

Anche qui, ho riflettuto su un passaggio della vita del paese. Noi abbiamo avuto nelle nostre spalle un periodo in cui l’Italia cresceva anche dal punto di vista della produzione industriale, dei brevetti, della ricerca, come nessun paese al mondo. È quella lunga fase che inizia all’inizio degli anni Cinquanta e si protrae fino alla prima congiuntura negativa del ’63-64.

Allora la produzione industriale cresceva ogni anno esattamente come cresce oggi la produzione dei paesi emergenti, 9-10% all’anno di crescita del valore industriale. Il paese era all’avanguardia di brevetti, di scoperte che, lette oggi, fanno rabbrividire rispetto al paragone con il paese di oggi.

Ci sono scoperte che sono state poi sottratte al nostro paese che ancora oggi sono valori fondamentali di una politica di sviluppo e di una politica di ricerca.

Bene, dopo 10 anni di crescita ininterrotta in cui si rifondò, rinacque in Italia una grande industria di base fondamentale, che fu segnata da una politica di bassi salari, avvenne una svolta in base alla quale alla giusta richiesta di maggiori retribuzioni, che la compressione salariale degli anni Cinquanta aveva determinato, favorita dalle nuove condizioni di lavoro delle grandi masse che si erano spostate dal Sud al Nord, determinò – di fronte all’assenza di investimenti nella qualità – quel corto circuito che alla fine degli anni Sessanta avrebbe dato vita a questo avvio di politica di declino industriale.

Negli stessi anni di fronte allo stesso problema l’industria tedesca fece il contrario: accettò la sfida degli alti salari, ma accettò soprattutto la sfida degli investimenti in qualità.

Nacque, allora, alla radice quel problema del quale ancora oggi non riusciamo a venire a capo e venire a soluzione.

Questo vuol dire che c’è una strada per riprendere a crescere, ma questa strada è fatta insieme delle due componenti: investimenti, ricerca, una capacità di fare sistema, un coraggio di rischiare su quello che si produce e contemporaneamente smetterla con il considerare il lavoro, i suoi diritti, la sua retribuzione, il suo valore qualche cosa che va compresso, pena l’impossibilità di competere. Perché questo salto culturale è quello che oggi si richiede, innanzitutto a chi ha responsabilità di fronte a questa questione.

Poi so anche io, e ne abbiamo parlato a Chianciano (Assemblea dei quadri e dei delegati Cgil, 13/14 maggio, ndr), e ne avete parlato voi prima e durante questo Congresso, che per le debolezze del nostro mercato, per le debolezze del nostro sistema industriale e imprenditoriale, da sole le nostre imprese non ce la fanno, non ce la possono fare ed è per questo oggi che ci vuole – a maggior ragione – un compito della responsabilità pubblica, più forte e diverso dal passato. Il compito di orientare lo sviluppo nelle indicazioni e nelle direzioni giuste; di dare una guida intelligente, una strategia al sistema paese che faccia sentire quegli imprenditori disponibili meno soli in questa ricerca; che riduca le diseconomie; che sostenga i processi dalla ricerca alla produzione, alla commercializzazione e alla promozione nei mercati internazionali; che sappia difendere identità, tracciabilità dei prodotti, sigle, identità territoriali, ma le metta al servizio di una idea alta dello sviluppo e della politica industriale.

In questo, il ruolo pubblico è fondamentale, e deve agire con tre strumenti. Con uno strumento in grado di intervenire in tutti i casi di crisi aziendali che derivano da difficoltà finanziarie, e ne abbiamo moltissime; il caso, ad esempio, delle imprese del comparto delle moto lo dimostra ampiamente, e ancora tanti altri settori, senza un volano, senza un fondo di rotazione che sostenga le imprese quando hanno difficoltà di accesso al credito o difficoltà finanziarie, perdiamo pezzi rilevanti del nostro sistema produttivo.

Poi bisogna farlo orientando la ricerca verso l’innovazione, stabilendo strumenti di catalizzazione tra l’impresa, la ricerca, l’università, nei territori, nei distretti e nei grandi comparti sui quali intendiamo riorientare lo sviluppo.

Terzo: c’è bisogno di una politica che sostenga il nostro Mezzogiorno, perché in questo processo di desertificazione industriale il Mezzogiorno è l’area che paga i prezzi più alti, non tanto in termini relativi, quanto in termini assoluti.

Abbiamo aree del paese, quelle una volta molto forti e molto avanzate, che hanno problemi occupazionali drammatici e sono una priorità; perché se chiude un’azienda nel Mezzogiorno al posto di quell’azienda non sorge niente, neanche un servizio di qualità.

Oggi noi sappiamo che di fronte a questa sfida, a questa politica, a queste esigenze noi non siamo in condizioni di avere tutte le risposte. Noi dobbiamo spingere le imprese ad assumersi le responsabilità corrispondenti a questa analisi e a questo bisogno.

Io penso che dovremo aspettare, purtroppo, anche se i tempi, invece, richiederebbero il contrario, un nuovo quadro politico e istituzionale per avere quel fronte di ruolo pubblico di cui c’è bisogno con queste ambizioni e con questa altezza. Ma da qui ad allora, da qui a comunque quando sarà, noi abbiamo intanto un altro compito fondamentale attraverso i punti di crisi settoriali, aziendali, territoriali: non far passare soluzioni che chiudano e riducano il nostro patrimonio produttivo, sia che si chiami Fiat, sia che si chiamino telecomunicazioni, sia che si chiami quella miriade di aziende in crisi nelle quali, giorno dopo giorno, ognuno al suo proprio posto lavora per evitare la fine.

È un passaggio fondamentale, questo, non solo difensivo, può sembrare difensivo. Ma quando si ottiene una risposta per un punto di crisi e vinci, tu apri una prospettiva per il futuro e dimostri che si può impedire questo declino.

Io vedo qui il grande valore della vertenza di Terni, perché Terni ha dimostrato due cose: che se si vuole si può battere la scelta di una multinazionale, se si vuole si può tenere in Italia, nelle condizioni che siamo in condizioni di determinare, pezzi di qualità del nostro sistema produttivo.

Avessimo perso a Terni avremmo indebolito ogni altra possibilità di risposta, con un governo che è un governo di destra, che fa politiche liberiste, in una situazione difficile, con una multinazionale che fa un’altra scelta, quella lotta ha consentito di vincere e quindi di dimostrare che ce la possiamo fare.

Ci aspettano, adesso, naturalmente altre risposte e altre soluzioni, a partire da quella assai rilevante che riguarda la Fiat e il suo futuro.

Anche io penso che qui ci giochiamo un pezzo rilevante della capacità produttiva e industriale del paese, non solo per il peso che ha il settore dell’automobile, non solo perché contrariamente a quello che talvolta si diceva, è un settore strategico e di grandissimo valore aggiunto, ma perché se noi perdessimo questa battaglia, quella battaglia generale per evitare il declino noi non riusciremmo ad arrestarla.

La Fiat è come una grande Terni, moltiplicata per dieci, e l’esito di questa vicenda rappresenta un esito per noi fondamentale. Se si vince, vinciamo un altro tassello per la battaglia generale, se dovessimo perdere, dovremmo verificare un arretramento fondamentale.

Per questo c’è bisogno di mettere in campo una iniziativa forte attorno ai temi dell’attuazione del piano e delle difficoltà che l’azienda oggi presenta.

In questo dobbiamo lavorare per difendere tutti gli stabilimenti del gruppo, da Mirafiori a Cassino, a Termini Imprese, cioè quegli stabilimenti che per una ragione o per l’altra sono quelli più a rischio e farli vivere dentro una vertenza che abbia questa capacità e questa forza.

Ho chiesto ai segretari generali di Cisl e di Uil di rispondere rapidamente alla richiesta delle rappresentanze sindacali unitarie di Mirafiori e penso che dobbiamo farlo, perché insieme alla richiesta dell’incontro al nuovo presidente, al nuovo amministratore delegato della Fiat dobbiamo far diventare, come abbiamo fatto nel passato ma a maggior ragione oggi, la gestione di questa vertenza un pezzo fondamentale della strategia generale di tutto il movimento sindacale italiano.

La stessa cosa dobbiamo farla nei settori strategici sui quali i processi di crisi e di delocalizzazione avanzano giorno dopo giorno.

Ovviamente accanto a questo dobbiamo recuperare quella soggettività di cui Gianni parlava nella relazione, la soggettività di interpretare e di rappresentare quei cambiamenti che pure in questi processi di crisi le persone oggi vivono.

Non sfugge a nessuno la grande forza delle lotte soprattutto volute dai giovani lavoratori, lavoratrici, delegati di Melfi che hanno finito per portare anche come carica di rinnovamento e di speranza in questa prospettiva al resto del paese.

Quello che unisce le tante condizioni dei giovani è esattamente la richiesta e il senso alto della dignità del lavoro, quella che incrociammo nella battaglia contro chi voleva toglierci l’articolo 18, quella che abbiamo ritrovato contro il contratto separato qui e quella che viviamo nelle tante vertenze di questa stagione.

Fanno parte di questa dignità due componenti fondamentali: la richiesta di difendere i propri diritti a partire da quello di libertà, la richiesta di poter decidere, di poter contare sulle questioni che riguardano i lavoratori. Diritti e democrazia come fondamento di una richiesta alta della dignità del lavoro.

Per questo Melfi è stata così importante, per questo sono state importanti le altre vertenze e per questo non dobbiamo lasciare soli quei lavoratori della Polti, in una realtà difficile nella quale solo la presenza e la forza di tutto il sindacato, forse, è in condizione di fare ottenere le risposte: recedere dai licenziamenti e riavviare la prospettiva al loro stabilimento, perché anche a Cosenza la chiusura di uno stabilimento come quello vuol dire perdere un altro pezzo di lavoro, di speranza e di legalità.

Ho detto quello che penso della nomina di Montezemolo a presidente di Confindustria. Credo davvero che si sia trattata di una svolta e lo dimostra, tra l’altro, la durezza del confronto che ha attraversato il sistema delle imprese; non ci sarebbe stato un confronto così duro se in ballo non ci fossero state diverse ipotesi e diverse strategie.

Chi si opponeva al cambiamento ha messo in campo tutte le pressioni e le forme possibili per evitare il cambiamento e anche la vertenza dei metalmeccanici, quella dei precontratti è stata usata in questa battaglia.

Lo sanno bene i compagni dell’Emilia-Romagna, dove la partita dei precontratti è stata segnata e accompagnata da una profonda divisione nel fronte imprenditoriale, tra chi voleva capire e si dichiarava disponibile, e chi minacciava e chiedeva anche lì l’intervento delle forze dell’ordine, come dopo qualcuno ha tentato di fare anche nella vertenza di Melfi.

Naturalmente dobbiamo aspettare i fatti, perché non è questione di dubitare delle intenzioni, ma ogni migliore intenzione va suffragata dai comportamenti concreti che riguardano la Presidenza e riguardano il grande corpo degli industriali, dove sappiamo esserci resistenza al cambiamento, problemi culturali di comprensione delle questioni di cui parlavo all’inizio e delle quali ancora non si vede un chiaro indirizzo di marcia.

Certo, mi ha fatto piacere quando ho ascoltato il presidente di Confindustria dire su questa paradossale vicenda del federalismo italiano le parole che ha detto, perché ci ho letto la definitiva sconfessione dei tanti che pensavano di spacchettare il contratto nazionale e di avere contratti regionali o territoriali in tutta Italia.

Quando si dicono quelle parole contro il federalismo si dicono ovviamente parole altrettanto forti contro il federalismo contrattuale.

Per questo ho proposto e continuo a pensare che noi dobbiamo operare una politica di piccoli ma decisi passi nei confronti di questa richiesta di dialogo, partendo dal primo punto per coerenza con quello che abbiamo sempre detto, dalle politiche di sistema, le politiche condivise che aiutino – secondo le cose che noi abbiamo detto – la possibilità di far crescere il sistema industriale del paese.

E non mi dispiace che in questo tavolo noi possiamo incontrare anche il sistema delle banche e il sistema del credito, non per fare un accordo di poteri forti, come talvolta viene detto, ma perché è meglio – visto che le banche non sono qualche cosa di irrilevante rispetto alle politiche di sviluppo e visto che rispetto a gruppi industriali, piccoli o grandi, le banche giocano un ruolo definitivo e decisivo avere un tavolo di confronto per chiarire la loro responsabilità fin dove si ferma, ma fino a dove viene esercitata nelle politiche di sviluppo o di uscita dalla crisi di importanti settori – io credo che sia opportuno farlo.

Naturalmente va da sé che anni di declino industriale hanno portato una distribuzione del reddito fortemente diseguale.

Anche questa, non a caso, viene da lontano e viene esattamente – se ci si riflette – dagli stessi anni in cui si avviava quella politica di competitività, basata sulla svalutazione della lira.

Oggi, la condizione retributiva delle persone è assolutamente più pesante; lo vediamo negli anziani, lo vediamo soprattutto nelle donne sole, nei giovani e nella grande maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori.

Le politiche redistributive di questo governo sono politiche di destra, politiche che hanno aiutato i più ricchi, i patrimoni, politiche che hanno svantaggiato i lavoratori e le persone a reddito fisso.

Ha concorso tutto in questa distribuzione ineguale del reddito, ma in modo particolare l’aumento dei prezzi, soprattutto nei panieri dei grandi generi di consumo e la questione della casa, perché fa differenza per un reddito familiare se si ha una casa in proprietà o un affitto decente, o non la si ha.

Ha contribuito anche una politica fiscale che fino a oggi ha operato assolutamente a senso unico, togliendo il fiscal drag, favorendo con i condoni gli evasori, favorendo il rientro dei capitali, senza nessuna idea di sostegno dei redditi più bassi.

Per questo ho parlato, e continuo a credere che c’è bisogno di mettere in campo una nuova politica dei redditi, intendendo per questo, perché anche i termini a volte si possono usare in maniera contrapposta, una politica che punti a difendere e ad accrescere le retribuzioni e le condizioni di reddito di pensionati e di lavoratori, attraverso tanti strumenti, per le politiche pubbliche con politiche fiscali, politiche contributive e politiche in grado nell’offerta di beni scolastici, sanitari e assistenziali di non gravare sui redditi da lavoro dipendente.

Noi sappiamo che una parte consistente di questo impoverimento è legato ai trasferimenti mancati o alla rovescia che le politiche del centrodestra hanno determinato.

Non c’è anziano oggi che di fronte al valore della propria pensione che non cresce non veda, invece, crescere – anno dopo anno – le spese per curarsi o per proteggersi dai rischi dell’età avanzata.

Non c’è famiglia che abbia un bimbo o una persona adulta da mandare in un liceo, all’università o in un asilo nido che oggi non sia gravata da costi e da oneri molto superiori a quelli di qualche anno fa.

Il principio forte di una nuova politica dei redditi va visto in questa chiave: ridistribuire anche attraverso diverse politiche di riforma alle persone che meno hanno condizioni migliori di accesso a beni che noi, continuamente e con forza, continuiamo a ritenere beni pubblici primari.

Naturalmente, poi, ci vuole una politica contrattuale che sia coerente con questa sfida e coerente con questi problemi.

La vostra vicenda del contratto separato è una vicenda che ha pesato e che pesa.

Se oggi qualcuno dovesse chiedermi un motivo forte del perché abbiamo sostenuto la Fiom in questa vicenda difficile, soprattutto nei momenti in cui sembrava più isolata e più sotto attacco, io rispondo con una domanda: cosa saremmo oggi, tutti – Fiom e Cgil – senza questa reazione? Senza questi risultati? Avremo una Fiom con il cappello in mano e una Cgil più debole.

È anche per questo, perché abbiamo reagito con le armi di cui potevamo disporre, e sostanzialmente una: la forza, il coraggio, la disponibilità di tante lavoratrici e tanti lavoratori, quei tanti che talvolta mi capitava di incontrare anche con le lacrime agli occhi per aver fatto 100-120 ore di sciopero e non avere ancora ottenuto un risultato.

Se oggi nella sua relazione Gianni può proporre alla Fim e alla Uilm di aprire un percorso di recupero di modalità democratica, in vista della piattaforma del secondo biennio, ma voglio anche aggiungere: se abbiamo potuto sentire da Ragazzi e da Caprioli a questa tribuna le cose che hanno detto, io penso che lo si deve a quella lotta e a quella forza.

È vero che ha pesato e spero pesi, e continuerà a pesare in questo anche il clima che abbiamo recuperato unitariamente, perché vale anche per noi, per tutti noi la stessa lezione.

Se oggi siamo stati in condizioni di scrivere una piattaforma unitaria, come abbiamo fatto all’Eur su quei punti e su quei titoli, e di fare uno sciopero generale unitariamente, lo si deve alla coerenza, al rigore e alla forza con la quale siamo stati in campo, come Cgil, in anni e in mesi difficili.

Sta a noi, noi confederazione, continuare su questo percorso, dando quelle risposte di iniziativa e di lotta che si rendessero necessarie se il governo, come sembra, non si prepara o non si presenta disposto a un ragionamento serio con noi.

Abbiamo di fronte a noi la scadenza del Dpef e della legge Finanziaria, l’approvazione che il governo vuole entro l’estate della delega sulla previdenza, i contratti pubblici che ancora ieri non hanno dimostrato di potersi sbloccare, dove a noi che chiedevamo, Cgil, Cisl e Uil, categoria della scuola e della funzione pubblica, di utilizzare l’Accordo del 23 luglio per creare le condizioni per rinnovare quei contratti, il governo ha risposto con una proposta ultimativa di un aumento retributivo nel biennio, tutto compreso, produttività compresa, del 3,6%, meno della metà delle richieste delle categorie.

Per questo, io credo che sia importante che la Fiom, andando a verificare le disponibilità della Fim e della Uilm, lavorando seriamente, in profondità, determini le condizioni per una intesa sulle regole democratiche.

Lo faremo anche noi con la Commissione che abbiamo richiesto di poter far partire, ma voglio anche dire che da questo punto di vista il contributo e il lavoro che la Fiom potrà dare è in qualche buona misura, come è ovvio, rilevante per la conclusione anche del lavoro più generale.

Questo lo voglio dire per tutti. Attribuisco una grande responsabilità a tutti noi, Cgil e Fiom, una responsabilità che non riguarda solo il biennio che abbiamo in scadenza e poi in prospettiva il recupero di un vero contratto nazionale. Ma una responsabilità che riguarda anche il rapporto tra questo processo e l’avanzamento di un processo legislativo che, come sapete, è nelle nostre scelte e nelle nostre indicazioni.

Abbiamo già avuto alle spalle una legislatura nella quale una legge si fermò all’improvviso e senza motivi all’articolo 9; non proseguì e non vide la luce.

Io penso che dobbiamo chiedere alle forze politiche quello che qui quasi tutti hanno chiesto, ma voglio anche dire quello che penso in profondità: che se noi fossimo in condizioni – e qui sta la nostra responsabilità – di poter trovare delle soluzioni accettabili e condivise, noi quella legge la rendiamo più possibile e più vicina e – viceversa – temo che non possa essere vero il contrario.

Se noi non ci riusciamo io non sono sicuro, al di là di quello che giustamente dobbiamo chiedere, che avremo soluzioni perché la storia ci insegna che si può dire «no», si può dire «nì» e si può dire «sì» senza poi portare a conclusione le leggi, le riforme e i provvedimenti.

Questa è la grande responsabilità che penso abbiamo tutti e sulla quale dobbiamo dimostrare – se ci riusciamo – di essere in condizioni di governare noi le scelte che riguardano il futuro della democrazia e delle vicende del movimento sindacale.

Oggi, stamattina, care compagne e compagni, insieme ai segretari di Cisl e Uil ho portato una corona di fiori al cippo che ricorda la barbara uccisione di 13 persone, tra cui Bruno Buozzi, a La Storta.

Roma, a chi l’ha vissuta stamattina e a chi ha avuto la ventura, come me, tornando da Livorno, di passarci di notte, era ed è una città chiusa e vuota, livida, non quel giorno di festa che in altre circostanze il 4 giugno avrebbe dovuto essere.

Il 4 giugno, il giorno della Liberazione dai nazifascisti per noi è una festa sacra, come il 25 aprile e come il Primo maggio; è la grande sovrapposizione di simboli, di contesti, e di scelte che si sono determinate a rendere questa immagine di Roma.

Abbiamo testimoniato oggi pomeriggio, anche con la nostra presenza contro la guerra e per la pace e credo che abbiamo fatto bene e non serve qualche squallido tentativo di qualche frangia estremistica, sciocca quanto irresponsabile a cambiare la forza di questa iniziativa.

Ma perché tutte queste montature di questi giorni, questi allarmi straordinari, questa volontà di far crescere la tensione, perché questa politica che tende a seminare divisione e odio?

Mi sono chiesto nei giorni scorsi e ancora oggi perché Berlusconi, il presidente del Consiglio, abbia usato le parole che ha detto nei confronti della Cgil quando ci ha definito: «una fabbrica di odio che non chiude mai».

Lo ha detto a Brescia di fronte agli industriali e questo già forse è una risposta alle mie, alle nostre e alle vostre domande; ha voluto in questo modo dire che in fondo questa svolta di dialogo non può portare da nessuna parte e ha tentato di seminare e di dividere, di alzare quei muri ideologici che sono l’altra faccia delle politiche di divisione tentati in questi anni.

Spero che non ci sia qualche cosa di più, qualche cosa che può durare nel tempo, qualche cosa che anche alla luce del risultato del 13 giugno non possa restare lì per un governo sempre più diviso, in calo di consensi, incapace di fare le scelte giuste per il paese e che, quindi, per questo può essere spinto ad accentuare le politiche di divisione del paese e delle sue rappresentanze.

Per questo noi dobbiamo continuare a essere quello che siamo, che abbiamo dimostrato: una grande forza tranquilla, serena, come abbiamo detto quel 23 marzo e nelle tante occasioni in cui siamo stati in campo, perché se una fabbrica noi siamo, siamo una fabbrica di speranza, siamo la fabbrica di coloro che non si rassegnano al declino del paese, siamo il punto di riferimento per molti e soprattutto per molti giovani; come abbiamo detto: siamo quelli che vogliono costruire il futuro.

Molti osservatori interpretando e leggendo il Congresso della Fiom hanno di volta in volta in questi mesi dato rappresentazione del confronto interno e del confronto tra Fiom e Cgil che, di volta in volta, diventava difficile anche per me capire e interpretare.

Si leggono e si leggevano le nostre posizioni con occhi un po’ strani, un po’ deformati, in una raffigurazione un po’ singolare in cui spariva il merito, spariva quello che noi siamo, sia quando siamo d’accordo, sia quando abbiamo punti sui quali, invece, intendiamo discutere e confrontarci, una raffigurazione un po’ suggestiva e surreale tra chi era radicale e chi è riformista.

Noi sappiamo, sapremo e abbiamo saputo il valore che ci lega, quello che siamo e anche il modo, quando ce ne sarà bisogno di confrontarci e di comporre le nostre discussioni; così come avete fatto voi nel vostro Congresso, una prova democratica importante, impegnativa in una fase difficile della vita del paese e della situazione della vostra categoria e che si è svolto e si conclude così come ha indicato la relazione e l’intervento di Riccardo Nencini nel modo che io ritengo giusto.

D’altra parte, noi siamo stati uniti tutti nella fase in cui tutto era molto più difficile, saremmo davvero non capiti da nessuno e da ognuno di noi se non fossimo in condizione di restare uniti nella fase nuova, comunque difficile, ma che ha meno contraddizioni per noi di quella che non si presentava solo qualche mese fa.

Non avrebbe alcun senso dividersi oggi perché dobbiamo provare, invece, a dividere quelli che non vogliono il cambiamento e siccome lo sappiamo, continueremo a lavorare con questo stile, con questa coerenza e con questa determinazione.

Livorno, 4 giugno 2004