XXIII Congresso Nazionale Fiom Guglielmo Epifani
– segretario generale Cgil Care compagne e cari compagni, io credo che
abbia fatto bene Gianni (Rinaldini, ndr) nella sua relazione e
gran parte degli interventi del Congresso e della discussione
congressuale, a insistere molto sull’analisi della situazione
economica che riguarda il settore metalmeccanico, di quasi tutti i suoi
comparti, e la situazione del paese. Giorno dopo giorno diventa evidente che quando
tre anni fa parlammo di rischio di declino industriale avevamo visto
così giusto che, a soli tre anni di distanza, quel rischio di declino
è diventato una vera e propria crisi che non si riesce ad arrestare. E
facemmo bene a parlare di rischio di declino industriale in senso
stretto perché di questo, come tutto dimostra, si tratta. Oggi siamo nella situazione in cui questa
preoccupazione, questa analisi è condivisa; ormai la condividono
praticamente tutti tranne, forse, un sottosegretario di questo governo e
forse il vecchio presidente di Confindustria. E tutti concordano, e
giorno dopo giorno ci spiegano da dove viene questa crisi, quali sono i
problemi che l’alimentano e provano a misurarsi su come affrontarla. È evidente, come dicemmo già allora, che non
è una crisi che viene da vicino, sarebbe illusorio tra di noi
consolarsi con l’idea che siccome le politiche di questo governo sono
sbagliate, basta raddrizzare queste politiche che i problemi si
risolvono; magari fosse così! I problemi sono, purtroppo, più seri, vengono
da più lontano, questo nulla toglie alle responsabilità che aggravano
la situazione di questo governo, ma dobbiamo sapere quale è la
profondità della crisi e quale l’altezza delle risposte che bisogna
mettere in campo. Tutto questo chiama a una grande
responsabilità, e la prima grande responsabilità attiene al sistema
delle imprese e alla classe imprenditoriale del nostro aese. Questo va
detto con assoluta chiarezza e va detto con assoluta forza. Abbiamo anche noi sottovalutato le
preoccupazioni che la parte consistente del nostro sistema industriale
aveva nei confronti dell’euro; prendemmo in giro quelle
preoccupazioni, non capivamo se non la miopia di chi, attaccato alla
svalutazione competitiva, guardava all’euro solo con paura. Eppure, pensate, ho provato a rifare qualche
conto e ho scoperto che in 20 anni, tra il 1970 e il 1990 la
svalutazione della lira è stata del 70%; divisa per 20 anni vuol dire
che le nostre imprese hanno riconquistato margini di competitività alla
misura media del 3-3,5% all’anno, anno dopo anno. Immaginate non solo una moneta unica, ma una
moneta della forza dell’euro rispetto a un sistema delle imprese, a
una cultura delle imprese, a una modalità che diventava sistema che per
20 anni si è alimentata principalmente di queste scelte. Non a caso, di fronte a una moneta che è così
forte, si scopre quello che quella svalutazione permanente copriva e non
è un caso se proprio oggi, tanto più con l’allargarsi dei mercati
internazionali, abbiamo – giorno dopo giorno – questo stillicidio
infinito, che purtroppo non si ferma – come sappiamo, come sapete –
fatto di aziende che vanno in difficoltà, di aziende che vengono
comprate per essere chiuse, di aziende che delocalizzano, soprattutto,
attività alte e attività manifatturiere, senza che si veda la fine di
questo percorso e di questa situazione. Lo stesso governatore della Banca d’Italia ha
fornito – lo citava Gianni nella sua relazione – un dato
assolutamente emblematico e visivo di questa situazione, quando ha detto
che due paesi che giustamente pure sono considerati talvolta in crisi,
come la Germania e la Francia, hanno avuto negli ultimi 5 anni, dal 1998
al 2003 un aumento del valore della loro produzione industriale del 6% e
il nostro paese negli stessi anni ha avuto un aumento inferiore all’1%.
Soltanto negli ultimi 5 anni gli altri che sono considerati in crisi
hanno aumentato la produzione industriale di qualche cosa superiore a 6
volte quello che il nostro paese è stato in condizioni di realizzare. Ho voluto ricordare questa situazione perché
qui c’è la prima questione, ed è una prima questione che noi abbiamo
posto da tempo, voi avete posto, le nostre categorie industriali hanno
posto. Qui c’è la scelta di fondo di fronte al
paese, alle imprese, al governo, al Parlamento, agli Enti locali e a
tutti coloro che hanno una responsabilità per decidere: accettare
questo declino o contrastarlo. Per accettare questo declino basta non fare
niente, basta lasciare che le cose vadano, le cose da sole continueranno
ad accentuare questo declino, giorno dopo giorno, lentamente, ma
inesorabilmente. Oppure contrastarlo, combattere questa tendenza, porsi
l’ambizione alta di dare finalmente al paese un’altra dimensione. Io trovo da questo punto di vista nelle
impostazioni, nelle intenzioni e nelle parole che il nuovo presidente di
Confindustria ha usato nella sua assemblea dopo la sua elezione, le
parole di una persona che non si vuole rassegnare a questo declino. Se è così noi possiamo registrare una
straordinaria vittoria dal punto di vista delle scelte e dell’egemonia
culturale perché prima di altri abbiamo visto le cose che non andavano
e, prima di altri, abbiamo posto a noi stessi e agli altri la scelta di
fronte alla quale il paese si trova a scegliere. Non basta, però, dire che abbiamo vinto su
questo terreno, perché per vincere definitivamente bisogna assumere non
soltanto il fatto che queste impostazioni diventino, poi, scelte
concrete, ma bisogna tenere assieme quel corollario che lega le
modalità di uscire dalla crisi per arrestare il declino, alla grande
questione degli investimenti, di innovazione in qualità ed in
formazione. Non si arresta il declino se non si cambia
registro e non si cambia registro se il tema dell’innovazione, della
formazione, della qualità, il tema del valore del lavoro, dei diritti
del lavoro, delle retribuzioni del lavoro e la fine della precarietà
non sono visti come corollario indispensabile e altra faccia della
stessa battaglia. Se abbiamo vinto sul primo fronte oggi abbiamo
il dovere e di fronte a noi il percorso di provare a vincere sul
corollario che lega il primo fronte alla
sua attuazione: non ci può essere altra strada e non ci può
essere altra prova di coerenza. Per questo non ho capito e non condivido la
sottovalutazione che ho trovato sia nelle parole di Montezemolo, sia
tanto più in quelle di Fazio quando di fronte a uno scenario corretto,
alle indicazioni delle cose che non vanno, alla richiesta di politiche
diverse, soprattutto nell’intervento del governatore della Banca d’Italia,
ho assistito di nuovo alla riproposizione di una politica, di una
richiesta di politica di moderazione salariale; non ci siamo! E non ci siamo non perché c’è un punto di
vista estremista, lo voglio dire con forza. Non è questo, è che una
politica di bassi salari si lega con quei fattori che accentuano il
declino del paese; se si vuole, invece, un altro traguardo, un’altra
politica, un’altra svolta, c’è bisogno di fare politiche che
abbiano su questo terreno un segno diverso e coerenza tra quello che si
dice che bisogna fare e quello che poi bisogna fare, per quanto riguarda
il rapporto con il lavoro e con i lavoratori. Anche qui, ho riflettuto su un passaggio della
vita del paese. Noi abbiamo avuto nelle nostre spalle un periodo in cui
l’Italia cresceva anche dal punto di vista della produzione
industriale, dei brevetti, della ricerca, come nessun paese al mondo. È
quella lunga fase che inizia all’inizio degli anni Cinquanta e si
protrae fino alla prima congiuntura negativa del ’63-64. Allora la produzione industriale cresceva ogni
anno esattamente come cresce oggi la produzione dei paesi emergenti,
9-10% all’anno di crescita del valore industriale. Il paese era all’avanguardia
di brevetti, di scoperte che, lette oggi, fanno rabbrividire rispetto al
paragone con il paese di oggi. Ci sono scoperte che sono state poi sottratte al
nostro paese che ancora oggi sono valori fondamentali di una politica di
sviluppo e di una politica di ricerca. Bene, dopo 10 anni di crescita ininterrotta in
cui si rifondò, rinacque in Italia una grande industria di base
fondamentale, che fu segnata da una politica di bassi salari, avvenne
una svolta in base alla quale alla giusta richiesta di maggiori
retribuzioni, che la compressione salariale degli anni Cinquanta aveva
determinato, favorita dalle nuove condizioni di lavoro delle grandi
masse che si erano spostate dal Sud al Nord, determinò – di fronte
all’assenza di investimenti nella qualità – quel corto circuito che
alla fine degli anni Sessanta avrebbe dato vita a questo avvio di
politica di declino industriale. Negli stessi anni di fronte allo stesso problema
l’industria tedesca fece il contrario: accettò la sfida degli alti
salari, ma accettò soprattutto la sfida degli investimenti in qualità. Nacque, allora, alla radice quel problema del
quale ancora oggi non riusciamo a venire a capo e venire a soluzione. Questo vuol dire che c’è una strada per
riprendere a crescere, ma questa strada è fatta insieme delle due
componenti: investimenti, ricerca, una capacità di fare sistema, un
coraggio di rischiare su quello che si produce e contemporaneamente
smetterla con il considerare il lavoro, i suoi diritti, la sua
retribuzione, il suo valore qualche cosa che va compresso, pena l’impossibilità
di competere. Perché questo salto culturale è quello che oggi si
richiede, innanzitutto a chi ha responsabilità di fronte a questa
questione. Poi so anche io, e ne abbiamo parlato a
Chianciano (Assemblea dei quadri e dei delegati Cgil, 13/14 maggio, ndr),
e ne avete parlato voi prima e durante questo Congresso, che per le
debolezze del nostro mercato, per le debolezze del nostro sistema
industriale e imprenditoriale, da sole le nostre imprese non ce la
fanno, non ce la possono fare ed è per questo oggi che ci vuole – a
maggior ragione – un compito della responsabilità pubblica, più
forte e diverso dal passato. Il compito di orientare lo sviluppo nelle
indicazioni e nelle direzioni giuste; di dare una guida intelligente,
una strategia al sistema paese che faccia sentire quegli imprenditori
disponibili meno soli in questa ricerca; che riduca le diseconomie; che
sostenga i processi dalla ricerca alla produzione, alla
commercializzazione e alla promozione nei mercati internazionali; che
sappia difendere identità, tracciabilità dei prodotti, sigle,
identità territoriali, ma le metta al servizio di una idea alta dello
sviluppo e della politica industriale. In questo, il ruolo pubblico è fondamentale, e
deve agire con tre strumenti. Con uno strumento in grado di intervenire
in tutti i casi di crisi aziendali che derivano da difficoltà
finanziarie, e ne abbiamo moltissime; il caso, ad esempio, delle imprese
del comparto delle moto lo dimostra ampiamente, e ancora tanti altri
settori, senza un volano, senza un fondo di rotazione che sostenga le
imprese quando hanno difficoltà di accesso al credito o difficoltà
finanziarie, perdiamo pezzi rilevanti del nostro sistema produttivo. Poi bisogna farlo orientando la ricerca verso l’innovazione,
stabilendo strumenti di catalizzazione tra l’impresa, la ricerca, l’università,
nei territori, nei distretti e nei grandi comparti sui quali intendiamo
riorientare lo sviluppo. Terzo: c’è bisogno di una politica che
sostenga il nostro Mezzogiorno, perché in questo
processo di desertificazione industriale il Mezzogiorno è l’area che
paga i prezzi più alti, non tanto in termini relativi, quanto in
termini assoluti. Abbiamo
aree del paese, quelle una volta molto forti e molto avanzate, che hanno
problemi occupazionali drammatici e sono una priorità; perché se
chiude un’azienda nel Mezzogiorno al posto di quell’azienda non
sorge niente, neanche un servizio di qualità. Oggi
noi sappiamo che di fronte a questa sfida, a questa politica, a queste
esigenze noi non siamo in condizioni di avere tutte le risposte. Noi
dobbiamo spingere le imprese ad assumersi le responsabilità
corrispondenti a questa analisi e a questo bisogno. Io
penso che dovremo aspettare, purtroppo, anche se i tempi, invece,
richiederebbero il contrario, un nuovo quadro politico e istituzionale
per avere quel fronte di ruolo pubblico di cui c’è bisogno con queste
ambizioni e con questa altezza. Ma da qui ad allora, da qui a comunque
quando sarà, noi abbiamo intanto un altro compito fondamentale
attraverso i punti di crisi settoriali, aziendali, territoriali: non far
passare soluzioni che chiudano e riducano il nostro patrimonio
produttivo, sia che si chiami Fiat, sia che si chiamino
telecomunicazioni, sia che si chiami quella miriade di aziende in crisi
nelle quali, giorno dopo giorno, ognuno al suo proprio posto lavora per
evitare la fine. È un
passaggio fondamentale, questo, non solo difensivo, può sembrare
difensivo. Ma quando si ottiene una risposta per un punto di crisi e
vinci, tu apri una prospettiva per il futuro e dimostri che si può
impedire questo declino. Io vedo
qui il grande valore della vertenza di Terni, perché Terni ha
dimostrato due cose: che se si vuole si può battere la scelta di una
multinazionale, se si vuole si può tenere in Italia, nelle condizioni
che siamo in condizioni di determinare, pezzi di qualità del nostro
sistema produttivo. Avessimo
perso a Terni avremmo indebolito ogni altra possibilità di risposta,
con un governo che è un governo di destra, che fa politiche liberiste,
in una situazione difficile, con una multinazionale che fa un’altra
scelta, quella lotta ha consentito di vincere e quindi di dimostrare che
ce la possiamo fare. Ci
aspettano, adesso, naturalmente altre risposte e altre soluzioni, a
partire da quella assai rilevante che riguarda la Fiat e il suo futuro. Anche
io penso che qui ci giochiamo un pezzo rilevante della capacità
produttiva e industriale del paese, non solo per il peso che ha il
settore dell’automobile, non solo perché contrariamente a quello che
talvolta si diceva, è un settore strategico e di grandissimo valore
aggiunto, ma perché se noi perdessimo questa battaglia, quella
battaglia generale per evitare il declino noi non riusciremmo ad
arrestarla. La Fiat
è come una grande Terni, moltiplicata per dieci, e l’esito di questa
vicenda rappresenta un esito per noi fondamentale. Se si vince, vinciamo
un altro tassello per la battaglia generale, se dovessimo perdere,
dovremmo verificare un arretramento fondamentale. Per
questo c’è bisogno di mettere in campo una iniziativa forte attorno
ai temi dell’attuazione del piano e delle difficoltà che l’azienda
oggi presenta. In
questo dobbiamo lavorare per difendere tutti gli stabilimenti del
gruppo, da Mirafiori a Cassino, a Termini Imprese, cioè quegli
stabilimenti che per una ragione o per l’altra sono quelli più a
rischio e farli vivere dentro una vertenza che abbia questa capacità e
questa forza. Ho
chiesto ai segretari generali di Cisl e di Uil di rispondere rapidamente
alla richiesta delle rappresentanze sindacali unitarie di Mirafiori e
penso che dobbiamo farlo, perché insieme alla richiesta dell’incontro
al nuovo presidente, al nuovo amministratore delegato della Fiat
dobbiamo far diventare, come abbiamo fatto nel passato ma a maggior
ragione oggi, la gestione di questa vertenza un pezzo fondamentale della
strategia generale di tutto il movimento sindacale italiano. La
stessa cosa dobbiamo farla nei settori strategici sui quali i processi
di crisi e di delocalizzazione avanzano giorno dopo giorno. Ovviamente
accanto a questo dobbiamo recuperare quella soggettività di cui Gianni
parlava nella relazione, la soggettività di interpretare e di
rappresentare quei cambiamenti che pure in questi processi di crisi le
persone oggi vivono. Non
sfugge a nessuno la grande forza delle lotte soprattutto volute dai
giovani lavoratori, lavoratrici, delegati di Melfi che hanno finito per
portare anche come carica di rinnovamento e di speranza in questa
prospettiva al resto del paese. Quello
che unisce le tante condizioni dei giovani è esattamente la richiesta e
il senso alto della dignità del lavoro, quella che incrociammo nella
battaglia contro chi voleva toglierci l’articolo 18, quella che
abbiamo ritrovato contro il contratto separato qui e quella che viviamo
nelle tante vertenze di questa stagione. Fanno
parte di questa dignità due componenti fondamentali: la richiesta di
difendere i propri diritti a partire da quello di libertà, la richiesta
di poter decidere, di poter contare sulle questioni che riguardano i
lavoratori. Diritti e democrazia come fondamento di una richiesta alta
della dignità del lavoro. Per
questo Melfi è stata così importante, per questo sono state importanti
le altre vertenze e per questo non dobbiamo lasciare soli quei
lavoratori della Polti, in una realtà difficile nella quale solo la
presenza e la forza di tutto il sindacato, forse, è in condizione di
fare ottenere le risposte: recedere dai licenziamenti e riavviare la
prospettiva al loro stabilimento, perché anche a Cosenza la chiusura di
uno stabilimento come quello vuol dire perdere un altro pezzo di lavoro,
di speranza e di legalità. Ho
detto quello che penso della nomina di Montezemolo a presidente di
Confindustria. Credo davvero che si sia trattata di una svolta e lo
dimostra, tra l’altro, la durezza del confronto che ha attraversato il
sistema delle imprese; non ci sarebbe stato un confronto così duro se
in ballo non ci fossero state diverse ipotesi e diverse strategie. Chi si
opponeva al cambiamento ha messo in campo tutte le pressioni e le forme
possibili per evitare il cambiamento e anche la vertenza dei
metalmeccanici, quella dei precontratti è stata usata in questa
battaglia. Lo
sanno bene i compagni dell’Emilia-Romagna, dove la partita dei
precontratti è stata segnata e accompagnata da una profonda divisione
nel fronte imprenditoriale, tra chi voleva capire e si dichiarava
disponibile, e chi minacciava e chiedeva anche lì l’intervento delle
forze dell’ordine, come dopo qualcuno ha tentato di fare anche nella
vertenza di Melfi. Naturalmente
dobbiamo aspettare i fatti, perché non è questione di dubitare delle
intenzioni, ma ogni migliore intenzione va suffragata dai comportamenti
concreti che riguardano la Presidenza e riguardano il grande corpo degli
industriali, dove sappiamo esserci resistenza al cambiamento, problemi
culturali di comprensione delle questioni di cui parlavo all’inizio e
delle quali ancora non si vede un chiaro indirizzo di marcia. Certo,
mi ha fatto piacere quando ho ascoltato il presidente di Confindustria
dire su questa paradossale vicenda del federalismo italiano le parole
che ha detto, perché ci ho letto la definitiva sconfessione dei tanti
che pensavano di spacchettare il contratto nazionale e di avere
contratti regionali o territoriali in tutta Italia. Quando
si dicono quelle parole contro il federalismo si dicono ovviamente
parole altrettanto forti contro il federalismo contrattuale. Per
questo ho proposto e continuo a pensare che noi dobbiamo operare una
politica di piccoli ma decisi passi nei confronti di questa richiesta di
dialogo, partendo dal primo punto per coerenza con quello che abbiamo
sempre detto, dalle politiche di sistema, le politiche condivise che
aiutino – secondo le cose che noi abbiamo detto – la possibilità di
far crescere il sistema industriale del paese. E non mi dispiace che in questo tavolo noi
possiamo incontrare anche il sistema delle banche e il sistema del
credito, non per fare un accordo di poteri forti, come talvolta viene
detto, ma perché è meglio – visto che le banche non sono qualche
cosa di irrilevante rispetto alle politiche di sviluppo e visto che
rispetto a gruppi industriali, piccoli o grandi, le banche giocano un
ruolo definitivo e decisivo avere un tavolo di confronto per chiarire la
loro responsabilità fin dove si ferma, ma fino a dove viene esercitata
nelle politiche di sviluppo o di uscita dalla crisi di importanti
settori – io credo che sia
opportuno farlo. Naturalmente
va da sé che anni di declino industriale hanno portato una
distribuzione del reddito fortemente diseguale. Anche
questa, non a caso, viene da lontano e viene esattamente – se ci si
riflette – dagli stessi anni in cui si avviava quella politica di
competitività, basata sulla svalutazione della lira. Oggi,
la condizione retributiva delle persone è assolutamente più pesante;
lo vediamo negli anziani, lo vediamo soprattutto nelle donne sole, nei
giovani e nella grande maggioranza delle lavoratrici e dei lavoratori. Le
politiche redistributive di questo governo sono politiche di destra,
politiche che hanno aiutato i più ricchi, i patrimoni, politiche che
hanno svantaggiato i lavoratori e le persone a reddito fisso. Ha
concorso tutto in questa distribuzione ineguale del reddito, ma in modo
particolare l’aumento dei prezzi, soprattutto nei panieri dei grandi
generi di consumo e la questione della casa, perché fa differenza per
un reddito familiare se si ha una casa in proprietà o un affitto
decente, o non la si ha. Ha
contribuito anche una politica fiscale che fino a oggi ha operato
assolutamente a senso unico, togliendo il fiscal drag, favorendo
con i condoni gli evasori, favorendo il rientro dei capitali, senza
nessuna idea di sostegno dei redditi più bassi. Per
questo ho parlato, e continuo a credere che c’è bisogno di mettere in
campo una nuova politica dei redditi, intendendo per questo, perché
anche i termini a volte si possono usare in maniera contrapposta, una
politica che punti a difendere e ad accrescere le retribuzioni e le
condizioni di reddito di pensionati e di lavoratori, attraverso tanti
strumenti, per le politiche pubbliche con politiche fiscali, politiche
contributive e politiche in grado nell’offerta di beni scolastici,
sanitari e assistenziali di non gravare sui redditi da lavoro
dipendente. Noi
sappiamo che una parte consistente di questo impoverimento è legato ai
trasferimenti mancati o alla rovescia che le politiche del centrodestra
hanno determinato. Non c’è
anziano oggi che di fronte al valore della propria pensione che non
cresce non veda, invece, crescere – anno dopo anno – le spese per
curarsi o per proteggersi dai rischi dell’età avanzata. Non c’è
famiglia che abbia un bimbo o una persona adulta da mandare in un liceo,
all’università o in un asilo nido che oggi non sia gravata da costi e
da oneri molto superiori a quelli di qualche anno fa. Il
principio forte di una nuova politica dei redditi va visto in questa
chiave: ridistribuire anche attraverso diverse politiche di riforma alle
persone che meno hanno condizioni migliori di accesso a beni che noi,
continuamente e con forza, continuiamo a ritenere beni pubblici primari. Naturalmente,
poi, ci vuole una politica contrattuale che sia coerente con questa
sfida e coerente con questi problemi. La
vostra vicenda del contratto separato è una vicenda che ha pesato e che
pesa. Se oggi
qualcuno dovesse chiedermi un motivo forte del perché abbiamo sostenuto
la Fiom in questa vicenda difficile, soprattutto nei momenti in cui
sembrava più isolata e più sotto attacco, io rispondo con una domanda:
cosa saremmo oggi, tutti – Fiom e Cgil – senza questa reazione?
Senza questi risultati? Avremo una Fiom con il cappello in mano e una
Cgil più debole. È
anche per questo, perché abbiamo reagito con le armi di cui potevamo
disporre, e sostanzialmente una: la forza, il coraggio, la
disponibilità di tante lavoratrici e tanti lavoratori, quei tanti che
talvolta mi capitava di incontrare anche con le lacrime agli occhi per
aver fatto 100-120 ore di sciopero e non avere ancora ottenuto un
risultato. Se oggi
nella sua relazione Gianni può proporre alla Fim e alla Uilm di aprire
un percorso di recupero di modalità democratica, in vista della
piattaforma del secondo biennio, ma voglio anche aggiungere: se abbiamo
potuto sentire da Ragazzi e da Caprioli a questa tribuna le cose che
hanno detto, io penso che lo si deve a quella lotta e a quella forza. È vero
che ha pesato e spero pesi, e continuerà a pesare in questo anche il
clima che abbiamo recuperato unitariamente, perché vale anche per noi,
per tutti noi la stessa lezione. Se oggi
siamo stati in condizioni di scrivere una piattaforma unitaria, come
abbiamo fatto all’Eur su quei punti e su quei titoli, e di fare uno
sciopero generale unitariamente, lo si deve alla coerenza, al rigore e
alla forza con la quale siamo stati in campo, come Cgil, in anni e in
mesi difficili. Sta a
noi, noi confederazione, continuare su questo percorso, dando quelle
risposte di iniziativa e di lotta che si rendessero necessarie se il
governo, come sembra, non si prepara o non si presenta disposto a un
ragionamento serio con noi. Abbiamo
di fronte a noi la scadenza del Dpef e della legge Finanziaria, l’approvazione
che il governo vuole entro l’estate della delega sulla previdenza, i
contratti pubblici che ancora ieri non hanno dimostrato di potersi
sbloccare, dove a noi che chiedevamo, Cgil, Cisl e Uil, categoria della
scuola e della funzione pubblica, di utilizzare l’Accordo del 23
luglio per creare le condizioni per rinnovare quei contratti, il governo
ha risposto con una proposta ultimativa di un aumento retributivo nel
biennio, tutto compreso, produttività compresa, del 3,6%, meno della
metà delle richieste delle categorie. Per
questo, io credo che sia importante che la Fiom, andando a verificare le
disponibilità della Fim e della Uilm, lavorando seriamente, in
profondità, determini le condizioni per una intesa sulle regole
democratiche. Lo
faremo anche noi con la Commissione che abbiamo richiesto di poter far
partire, ma voglio anche dire che da questo punto di vista il contributo
e il lavoro che la Fiom potrà dare è in qualche buona misura, come è
ovvio, rilevante per la conclusione anche del lavoro più generale. Questo
lo voglio dire per tutti. Attribuisco una grande responsabilità a tutti
noi, Cgil e Fiom, una responsabilità che non riguarda solo il biennio
che abbiamo in scadenza e poi in prospettiva il recupero di un vero
contratto nazionale. Ma una responsabilità che riguarda anche il
rapporto tra questo processo e l’avanzamento di un processo
legislativo che, come sapete, è nelle nostre scelte e nelle nostre
indicazioni. Abbiamo
già avuto alle spalle una legislatura nella quale una legge si fermò
all’improvviso e senza motivi all’articolo 9; non proseguì e non
vide la luce. Io
penso che dobbiamo chiedere alle forze politiche quello che qui quasi
tutti hanno chiesto, ma voglio anche dire quello che penso in
profondità: che se noi fossimo in condizioni – e qui sta la nostra
responsabilità – di poter trovare delle soluzioni accettabili e
condivise, noi quella legge la rendiamo più possibile e più vicina e
– viceversa – temo che non possa essere vero il contrario. Se noi
non ci riusciamo io non sono sicuro, al di là di quello che giustamente
dobbiamo chiedere, che avremo soluzioni perché la storia ci insegna che
si può dire «no», si può dire «nì» e si può dire «sì» senza
poi portare a conclusione le leggi, le riforme e i provvedimenti. Questa
è la grande responsabilità che penso abbiamo tutti e sulla quale
dobbiamo dimostrare – se ci riusciamo – di essere in condizioni di
governare noi le scelte che riguardano il futuro della democrazia e
delle vicende del movimento sindacale. Oggi,
stamattina, care compagne e compagni, insieme ai segretari di Cisl e Uil
ho portato una corona di fiori al cippo che ricorda la barbara uccisione
di 13 persone, tra cui Bruno Buozzi, a La Storta. Roma, a
chi l’ha vissuta stamattina e a chi ha avuto la ventura, come me,
tornando da Livorno, di passarci di notte, era ed è una città chiusa e
vuota, livida, non quel giorno di festa che in altre circostanze il 4
giugno avrebbe dovuto essere. Il 4
giugno, il giorno della Liberazione dai nazifascisti per noi è una
festa sacra, come il 25 aprile e come il Primo maggio; è la grande
sovrapposizione di simboli, di contesti, e di scelte che si sono
determinate a rendere questa immagine di Roma. Abbiamo
testimoniato oggi pomeriggio, anche con la nostra presenza contro la
guerra e per la pace e credo che abbiamo fatto bene e non serve qualche
squallido tentativo di qualche frangia estremistica, sciocca quanto
irresponsabile a cambiare la forza di questa iniziativa. Ma
perché tutte queste montature di questi giorni, questi allarmi
straordinari, questa volontà di far crescere la tensione, perché
questa politica che tende a seminare divisione e odio? Mi sono
chiesto nei giorni scorsi e ancora oggi perché Berlusconi, il
presidente del Consiglio, abbia usato le parole che ha detto nei
confronti della Cgil quando ci ha definito: «una fabbrica di odio che
non chiude mai». Lo ha
detto a Brescia di fronte agli industriali e questo già forse è una
risposta alle mie, alle nostre e alle vostre domande; ha voluto in
questo modo dire che in fondo questa svolta di dialogo non può portare
da nessuna parte e ha tentato di seminare e di dividere, di alzare quei
muri ideologici che sono l’altra faccia delle politiche di divisione
tentati in questi anni. Spero
che non ci sia qualche cosa di più, qualche cosa che può durare nel
tempo, qualche cosa che anche alla luce del risultato del 13 giugno non
possa restare lì per un governo sempre più diviso, in calo di
consensi, incapace di fare le scelte giuste per il paese e che, quindi,
per questo può essere spinto ad accentuare le politiche di divisione
del paese e delle sue rappresentanze. Per
questo noi dobbiamo continuare a essere quello che siamo, che abbiamo
dimostrato: una grande forza tranquilla, serena, come abbiamo detto quel
23 marzo e nelle tante occasioni in cui siamo stati in campo, perché se
una fabbrica noi siamo, siamo una fabbrica di speranza, siamo la
fabbrica di coloro che non si rassegnano al declino del paese, siamo il
punto di riferimento per molti e soprattutto per molti giovani; come
abbiamo detto: siamo quelli che vogliono costruire il futuro. Molti
osservatori interpretando e leggendo il Congresso della Fiom hanno di
volta in volta in questi mesi dato rappresentazione del confronto
interno e del confronto tra Fiom e Cgil che, di volta in volta,
diventava difficile anche per me capire e interpretare. Si
leggono e si leggevano le nostre posizioni con occhi un po’ strani, un
po’ deformati, in una raffigurazione un po’ singolare in cui spariva
il merito, spariva quello che noi siamo, sia quando siamo d’accordo,
sia quando abbiamo punti sui quali, invece, intendiamo discutere e
confrontarci, una raffigurazione un po’ suggestiva e surreale tra chi
era radicale e chi è riformista. Noi
sappiamo, sapremo e abbiamo saputo il valore che ci lega, quello che
siamo e anche il modo, quando ce ne sarà bisogno di confrontarci e di
comporre le nostre discussioni; così come avete fatto voi nel vostro
Congresso, una prova democratica importante, impegnativa in una fase
difficile della vita del paese e della situazione della vostra categoria
e che si è svolto e si conclude così come ha indicato la relazione e l’intervento
di Riccardo Nencini nel modo che io ritengo giusto. D’altra
parte, noi siamo stati uniti tutti nella fase in cui tutto era molto
più difficile, saremmo davvero non capiti da nessuno e da ognuno di noi
se non fossimo in condizione di restare uniti nella fase nuova, comunque
difficile, ma che ha meno contraddizioni per noi di quella che non si
presentava solo qualche mese fa. Non
avrebbe alcun senso dividersi oggi perché dobbiamo provare, invece, a
dividere quelli che non vogliono il cambiamento e siccome lo sappiamo,
continueremo a lavorare con questo stile, con questa coerenza e con
questa determinazione. |
Livorno, 4 giugno 2004