Relazione di Giorgio Cremaschi alla conferenza "la precarietà metalmeccanica" di Napoli del 25 settembre 2003

 

 

Premessa

La precarietà oggi non è la condizione di una parte dei lavoratori, alla quale si contrappone la condizione di chi è garantito. Precari, a vario titolo e in vari gradi sono oggi tutti i metalmeccanici, e gran parte del lavoro dipendente. La condizione precaria non è più un elemento casuale o particolare, ma diventa invece elemento costituente del rapporto di lavoro e del suo governo.

Sono precari naturalmente tutti i lavoratori e le lavoratrici che subiscono in termini formali un rapporto di lavoro precario. Ma sono in condizione di crescente precarizzazione tutti quei lavoratori che, pur essendo formalmente assunti con contratto a tempo indeterminato e godendo delle tutele dell’art. 18, subiscono la pressione del processo di precarizzazione.

I processi di deindustrializzazione nati nel nostro Paese, con il trasferimento delle manifatture verso Paesi a più basso costo di lavoro e con la rinuncia ad una propria autonomia sul terreno della ricerca, della progettualità, degli investimenti. I processi di destrutturazione dell’impresa, con le forme di sempre più estese di decentramento produttivo, di appalto, e terziarizzazione. Infine la crescita di aree sempre più vaste di lavoro precario, subordinato e parasubordinato, tutti questi processi cancellano l’idea stessa che rimanga nelle imprese un nucleo stabile e sicuro, non sottoponibile agli effetti della precarizzazione.

 

E’ bene sottolineare che quanto accade non è immediatamente riconducibile a ragioni tecnologiche e produttive. Non è vero che il processo di precarizzazione del lavoro costituisca un versante inevitabile dell’innovazione dell’impresa. Non è vero che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato è destinato a scomparire perché lo stesso sistema organizzativo delle imprese non ne ha più bisogno. Ancor meno è vero che il processo di precarizzazione del lavoro corrisponda a una sorta di bisogno sociale della nuova forza lavoro, che non vuole più sentirsi vincolata al rapporto a tempo indeterminato.

 

La nostra impostazione parte da un giudizio sul carattere assolutamente ideologico di queste due tesi, che giustificano la precarietà sul piano oggettivo con i processi produttivi e tecnologici, e su quello soggettivo con i bisogni nuovi delle giovani generazioni. Che queste siano tesi ideologiche è dimostrato da due dati della realtà incontrovertibili. Il primo è che le pure tendenze di mercato, al di fuori dell’intervento del sindacato o della legge, ci dicono che in Italia il rapporto di lavoro a tempo indeterminato si conferma come quello che le imprese preferiscono con i lavoratori. Dopo un periodo nel quale i nuovi assunti sono precari, una buona percentuale di essi viene confermata a tempo indeterminato. Segno che, questo rapporto di lavoro resta quello più consono agli attuali modelli organizzativi delle imprese. Dall’altro basta contare quante persone partecipino ai concorsi pubblici, alle chiamate per assunzione per posti di lavoro relativamente più sicuri, per capire che la tesi secondo la quale la precarietà del lavoro in fondo incontri nuove tendenze culturali, in particolare nel mondo giovanile, è assolutamente falsa e perfino offensiva.

 

Come facciamo allora a sostenere due tesi apparentemente contraddittorie, quella secondo la quale tutto il mondo del lavoro è sostanzialmente precario e quella secondo la quale il rapporto di lavoro a tempo indeterminato continua a rimanere, nella stessa soggettività delle imprese, il modo principale di concepire il rapporto di lavoro? Cercheremo di spiegarlo ragionando su diversi piani, ma ciò che più intendiamo sottolineare è che la precarizzazione del lavoro non è frutto di un processo naturale, di una oggettività alla quale nulla si può opporre, ma invece è figlia di scelte precise di governo delle imprese, del mercato, e del rapporto di lavoro. Vogliamo poi affermare il carattere di accelerazione negativa, e quindi di svolta ulteriore ai danni dei diritti di lavoro, contenuto nella nuova legislazione che si sta varando, dalla legge 30, a quelle sui contratti a termine e sugli orari, alla controriforma delle pensioni. Ragioniamo infine sulla necessità di costruire un processo di lotta alla precarizzazione che abbia lo scopo di costruire quell’unità dei diritti nel mondo del lavoro che oggi viene radicalmente messa in discussione.

 

La precarietà, condizione comune

 

1)       Negli ultimi anni si è verificato in Italia un fenomeno che secondo le tendenze ufficiali della sociologia dei mass media non avrebbe dovuto avvenire. Sono aumentati contemporaneamente i lavoratori assunti con contratto precario e poi anche quelli con contratto a tempo indeterminato. Come è possibile?

Nel corso delle trattative, o meglio degli incontri, per il rinnovo del Ccnl abbiamo avuto da un rappresentante della controparte la più limpida e semplice delle spiegazioni di questo processo. Alla nostra richiesta di discutere di un tempo massimo oltre il quale mettere fine al rapporto di lavoro precario, trasformandolo a tempo indeterminato, abbiamo ricevuto un rifiuto di principio così argomentato. La maggioranza – ci è stato detto – dei lavoratori che assumiamo con contratto a termine, interinale, a causa mista, come co.co.co., noi già oggi li confermiamo, ma la decisione spetta unicamente a noi.

Ancora più brutalmente, in un incontro del principale gruppo siderurgico italiano, fu spiegato perché l’azienda rifiutava di trattare sulla conferma dei lavoratori con contratto di formazione lavoro. Ci fu detto che l’azienda intendeva valersi fino in fondo del valore “educativo” della non conferma. Al punto di decidere che una piccola parte dei lavoratori, magari tirando a sorte, sarebbe stata comunque esclusa dalla prosecuzione del rapporto di lavoro, per affermare il principio della non sicurezza del posto di lavoro.

Da questi due limpidi esempi forse cogliamo la prima ragione che spiega il diffondersi della precarietà del lavoro accanto al mantenimento di un rapporto di lavoro costruito sul concetto del tempo indeterminato. I nuovi spazi che la legislazione ha offerto a tutte le forme di contratto precario sono stati utilizzati dalla impresa non per essere più flessibile, ma per affermare meglio il proprio potere nei confronti dei dipendenti. Le imprese non hanno cambiato la loro organizzazione interna in maniera così radicale, rispetto a come è cambiata la platea dei lavoratori e dei loro diritti. Tutte queste forme di precarietà per le imprese costituiscono nient’altro che un lungo periodo di prova, nel quale “educare” il lavoratore al rispetto degli interessi della impresa e alla sottostima dei propri diritti. Gran parte delle imprese potrebbero funzionare egualmente, senza radicali differenze organizzative e magari con qualche risparmio di costi burocratici, con tutta la propria forza lavoro assunta secondo un rapporto a tempo indeterminato. Naturalmente questo comporterebbe rigidità sociali e maggiore potere contrattuale del lavoro. Ed è questo proprio quello che oggi si cerca di mettere in discussione.

Tutto il processo organizzativo della impresa punta sempre di più ad affermare il principio della licenziabilità del lavoratore. Si tratta di una condizione di potere che le imprese hanno man mano acquisito e alla quale sempre meno intendono rinunciare.

Anche là ove si sono svolti rilevantissimi processi di esternalizzazione, non siamo di fronte a cambiamenti tecnologici e organizzativi che li giustifichino. Lo scorporo delle attività di logistica dal processo produttivo, così come di quelle di manutenzione e di quelle che le aziende considerano di servizio, fa sì che nello stesso reparto possano operare fianco a fianco lavoratori con un numero sempre più ampio di appartenenze. Cambiano le etichette sulle tute o sui grembiuli, ma non cambia l’organizzazione: pur essendo dipendenti di varie società, si lavora esattamente come prima. C’è persino da domandarsi se effettivamente tali processi di appalto e terziarizzazione producano una maggiore efficienza sul piano tecnologico e dei costi industriali, rispetto ad una situazione nella quale tutti coloro che agiscono in una determinata fase produttiva dipendono dalla stessa società. Ma le imprese inseguono oggi un processo di controllo sulla forza lavoro che può perfino permettersi delle diseconomie. E’ l’obiettivo strategico in molti casi quello che conta e cioè quello di avere una forza di lavoro sempre meno in grado di organizzarsi a tutela dei propri diritti e sempre più disponibile a veder peggiorare le proprie condizioni.

Come prima sintesi possiamo quindi dire che il processo di precarizzazione del lavoro è frutto di una controffensiva globale dell’impresa contro i diritti dei lavoratori, rafforzata e sostenuta dagli interventi legislativi, senza i quali l’impresa non avrebbe potuto realizzare ciò che sinora ha realizzato.

 

2)       La nostra tesi dunque è che l’azione consapevole delle imprese, la pressione continua della globalizzazione liberista e della finanziarizzazione dei mercati, l’intervento legislativo, che, sull’onda di questa pressione, rimette in discussione poteri e diritti consolidati, tutto questo produce la precarizzazione attuale.

L’effetto sociale della precarizzazione è nel nostro Paese chiarissimo. Il recente studio dell’Ires dimostra come da almeno sei anni il salario medio non riesca a reggere non solo l’andamento della produttività, ma neppure quello dell’inflazione. Quest’ultimo anno rafforza ulteriormente questa tendenza negativa. I salari scivolano sempre più velocemente verso una condizione di depressione. E’ il modello americano, quello secondo il quale la crescita dell’occupazione non produce più miglioramenti salariali, perché si fonda sulla precarietà del rapporto di lavoro. Potremmo perfino dire, in questo senso, che il processo di precarizzazione del rapporto di lavoro punta a forzare una situazione di mercato che, lasciata alla sua evoluzione spontanea, condurrebbe i lavoratori in una condizione di maggior potere contrattuale e di miglior andamento delle retribuzioni. La precarizzazione fa invece sì che possa aumentare l’occupazione e diminuire il salario reale medio, cosa mai avvenuta in Italia dal ‘45 fino a questi ultimi anni.

La funzione sociale della precarizzazione è quindi evidente. Ora c’è piuttosto da domandarsi per quale ragione nel nostro Paese l’ampio livello di precarizzazione già raggiunto, non sia considerato ancora sufficiente. Siamo tempestati dalle dichiarazioni del Fondo monetario internazionale, della Banca Europea, delle associazioni delle imprese e dei governi conservatori, della Banca d’Italia e di tanti “esperti” secondo le quali occorrerebbe avere ancora più coraggio sul fronte del mercato del lavoro e su quello delle pensioni. Cerchiamo di capire, al di là degli aspetti un poco paranoici di queste campagne, la ragione e gli scopi di fondo che le ispirano.

Per quanto riguarda il nostro Paese costatiamo che l’attuale stagnazione produttiva e perdita di competitività avvengono nel momento di peggiore andamento dei salari da molti anni a questa parte. Eppure non basta ancora ed anzi ci si prepara a combattere la competizione con la Cina e con i Paesi emergenti dell’estremo Oriente e dell’Est europeo, considerati temibili concorrenti, proprio sul terreno della riduzione del costo del lavoro.

La ragione è molto semplice e sta in quello che abbiamo chiamato il declino del sistema industriale italiano. Tale declino è stato sicuramente aggravato dall’assenza di qualsiasi seria politica economica e industriale da parte dell’attuale Governo, ma viene da lontano. Inizia negli anni ’80, con la svolta liberista di allora, con i fallimenti di allora nella internazionalizzazione delle nostre grandi imprese. Prosegue poi negli anni ’90 con il dissennato smantellamento dell’industria dei servizi pubblici fondamentali e con la loro privatizzazione tesa unicamente a fare cassa. Termina infine con la crisi di tutta la grande impresa italiana, con l’abbandono dei settori strategici e ad alta qualità, con l’allontanamento dell’Italia dai sistemi industriali più avanzati. La crisi della Fiat, dell’ultima grande impresa manifatturiera italiana, rischia di sintetizzare e suggellare tutto questo processo. Nei prossimi anni, se l’Italia perderà una propria capacità di progettare e costruire automobili e diventerà solo un decentramento della General Motors, usciremo definitivamente dal rango dei principali Paesi industriali del pianeta.

Quello che in Italia spinge ed accentua quella che è una tendenza generale è dunque la particolare crisi del modello di sviluppo del nostro Paese. Il continuo, parossistico attacco della Confindustria e del Governo ai diritti dei lavoratori e allo stato sociale a noi pare inconcepibile, somiglia un poco ai deliri del Presidente del Consiglio quando vede complotti comunisti da sconfiggere dovunque. Noi sappiamo bene quanto già ora sia regredita la condizione sociale e contrattuale del mondo del lavoro e ci pare inconcepibile che si voglia andare oltre. Invece il sistema delle imprese e le forze più conservatrici spingono ad andare oltre proprio perché l’Italia ha accumulato un potenziale regressivo enorme sul piano della competizione internazionale. Ecco allora che misure che a noi paiono persino prive di giustificazione dal punto di vista degli stessi interessi delle imprese, vengono proposte e portate avanti. Al fine di rendere permanente e irreversibile la precarizzazione del lavoro e dei suoi diritti e di impedire qualsiasi possibilità di ricostruzione di un potere contrattuale dei lavoratori.

 

3)       In questo senso si spiegano le continuità, ma anche le rotture con il passato della legislazione che il governo di destra sta attuando o ha in programma. La continuità sta nel fatto che la legislazione interviene in generale su processi che sono già iniziati da tempo.

Oggi facciamo i conti con la precarizzazione del lavoro figlia del pacchetto Treu e della riorganizzazione delle imprese. La precarizzazione più selvaggia deve ancora venire. Per queste ragioni la nuova legislazione produce anche una rottura con quanto sinora avvenuto. Essa tende a consolidare definitivamente la precarizzazione, a impedirne la limitazione e la reversibilità, in particolare con la contrattazione, e soprattutto tende a separare definitivamente la condizione ottimale del lavoro da quella effettiva.

Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato resta sempre al centro di tutto, ma si solleva dall’organizzazione reale del lavoro. Diventa una sorta di miraggio, di obiettivo presentato a tutti e disponibile per nessuno. Lo stesso avviene per la pensione. Chi, considerando gli andamenti attuali del mercato del lavoro e della contribuzione, potrà davvero arrivare nel futuro ad accumulare 40 anni di contributi? Chi può davvero pensare di compiere un lavoro regolare fino a 65 anni, quando oggi in tutto il sistema delle imprese tutti i lavoratori che superano i 45-50 anni sono soggetti al rischio di licenziamento? Abbiamo visto alcuni giorni fa un’annunciatrice televisiva piangere in televisione perché cacciata dal lavoro alla soglia dei 40 anni. Certo non tutti i lavori sono uguali, ma comune è la tendenza, dalla Fiat al mondo dello spettacolo, a consumare rapidamente la gioventù della forza lavoro e a considerare inutilizzabile, perché obsoleta, la forza lavoro di mezza età.

La tendenza attuale della legislazione non è dunque quella di sopprimere la condizione di lavoro a tempo indeterminato e le garanzie e i diritti sociali ad essa collegati, quali un’adeguata pensione pubblica. L’aspetto paradossale di questa legislazione, al contrario, è che si esalta il valore e la centralità di questi rapporti e di queste condizioni sociali. Solo che essi diventano irraggiungibili ai più.

Oggi più di ieri il sistema bancario, il sistema economico, i servizi e la casa, la scuola, si organizzano avendo come riferimento quelle persone, o i loro figli, che appartengono al mondo del lavoro a tempo indeterminato e che dovrebbero godere di elevate garanzie sociali. Tutto il sistema si organizza secondo una gigantesca finzione. Esso funziona come se tutti potessero aspirare a diventare la nuova èlite, quella di coloro che potranno davvero raggiungere una buona pensione, dopo una buona vita lavorativa. In realtà questo obiettivo diventa sostanzialmente ideale, raggiungibile all’infinito direbbe un matematico, per la grande maggioranza dei lavoratori. Per i quali invece la prospettiva concreta diventa quella di un lungo periodo di precariato giovanile, al quale, se si è fortunati, sulla soglia dei 30 anni segue un periodo di lavoro a tempo indeterminato. Che poi viene nuovamente messo in discussione dalla precarizzazione dei lavoratori maturi, che comincia sulla soglia dei 50 anni.

Il cambiamento più rilevante che introdurrà, se andrà in porto, la nuova controriforma delle pensioni, sarà quello di affiancare al precariato giovanile quello delle persone più attempate. E’ evidente, infatti, che le imprese, con questa con questa legislazione e con questi poteri sul rapporto di lavoro, non terranno in produzione le persone dopo una certa età. Ma non lo faranno solo per permettere loro di raggiungere i 40 anni di contributi o i 65 anni di età. Si creerà così una concorrenza tra generazioni sul mercato del lavoro, e le imprese potranno scegliere se pescare tra i giovani in cerca di primo lavoro o tra i licenziati anziani.

In questo modo la trasformazione del nostro modello sociale in quello degli Stati Uniti sarà completa. Avremo una forza lavoro che si gioca tutto nell’età centrale della vita e che nei periodi precedenti e in quelli successivi, se non è molto fortunata, è condannata alla precarietà.

Naturalmente l’estensione della precarizzazione comporta la necessità di trovare nuovi strumenti, grazie ai quali le persone possano arrangiarsi e le imprese trovare nuove fonti di ricchezza. Da un lato crescerà enormemente l’attività imprenditoriale legata alla ricerca del posto e al collocamento, attività che non verrà più chiamata caporalato, visto che la legge 30 abolisce il divieto di intermediazione di mano d’opera. Sull’altro versante avremo il prosperare delle compagnie di assicurazione e dei fondi finanziari, che potranno finalmente, con il Tfr, accumulare ingenti risorse promettendo ai lavoratori quella pensione privata che dovrebbe sostituire quella pubblica, divenuta pressochè irraggiungibile.

In sintesi i due processi legislativi in atto, quello sul rapporto di lavoro e quello sulle pensioni, sul fisco e sullo stato sociale puntano allo stesso risultato di fondo. Istituzionalizzare, rendere irreversibile, il liberismo selvaggio sul piano di tutte le relazioni sociali. Sono misure legislative che si inquadrano in un processo più vasto con cui la destra, in tutto il mondo, reagisce al fallimento della new economy e alla crisi dello sviluppo fondato sul liberismo. Esse sono misure che si inquadrano in un modello autoritario di società. Un modello nel quale a una fortissima selezione sociale, a una continua frantumazione degli interessi nel mondo del lavoro, a una privatizzazione crescente di tutte le relazioni sociali, si sovrappone un potere politico sempre più elitario ed autoritario. Un potere fondato sulla marginalizzazione del dissenso e sul rifiuto del conflitto sociale, sul controllo della comunicazione, sulla forza del denaro e sull’uso privato del potere pubblico.

Dalle leggi sul lavoro, alla legge delega sulle pensioni, alla controriforma fiscale, alla controriforma scolastica, alla devolution, tutto il processo legislativo dell’attuale Governo si muove in una direzione ben precisa. Se non lo si ferma si va verso un vero e proprio regime, fondato sul liberismo selvaggio a livello delle relazioni sociali e sull’autoritarismo sul piano di tutti i poteri costituiti.

 

4)       Se lo scopo di tutta la legislazione liberista è quello di contrapporre a un rapporto di lavoro ideale, una condizione reale sempre più precaria ed incerta, la legge 30 rappresenta lo strumento più organico di attuazione di tale progetto.

C’è un punto unificante di tutti i suoi passaggi, quello di rendere in qualche modo permanente il momento della costituzione del rapporto di lavoro. Come sappiamo è quello il momento nel quale il lavoratore è più debole. Quando deve essere assunto il lavoratore accetta le condizioni che gli vengono imposte.

Da tempo le aziende fanno sottoscrivere, in aggiunta alle normali condizioni di assunzione, vere e proprie clausole liberatorie, che, ad esempio, le autorizzano ad utilizzare il nuovo assunto in turni disagiati.

Immaginiamo ora una situazione nella quale il lavoratore debba sottostare sempre alla minaccia della ridefinizione dell’assunzione. Il contratto di progetto, lo staff leasing, il contratto a chiamata, la possibilità di terziarizzare ed appaltare le lavorazioni senza alcun vincolo reale, l’estensione dei contratti a termine al di fuori di qualsiasi contrattazione, il part-time sottoposto a straordinari obbligatori non pagati, tutto questo e quant’altro ancora spunterà dalle pieghe della nuova legislazione sul rapporto di lavoro, man mano che imprese e commercialisti scopriranno il valore dei doni ricevuti, tutto questo cambia radicalmente la posizione del lavoratore nell’impresa.

Nella sostanza siamo di fronte ad un rapporto di lavoro che si costituisce continuamente, sulla base delle esigenze e dei bisogni della impresa. Il lavoratore è a disposizione e non è più semplicemente la minaccia del licenziamento, come nelle forme precarie precedenti, quella che lo costringe ad accettare determinate condizioni che altrimenti non accetterebbe. No, ora il lavoratore inizia già avendo introiettato dentro di sé tutte le flessibilità che l’impresa vorrà utilizzare. Mentre nel precariato del pacchetto Treu, che comunque noi abbiamo valutato criticamente, c’era uno spazio tra il momento della costituzione del rapporto di lavoro e la sua concreta condizione, spazio che stiamo tentando di riempire con l’azione contrattuale, nel rapporto di lavoro che nasce in virtù della legge 30, lo spazio contrattuale è dall’inizio negato. Il rapporto di lavoro si costituisce con un lavoratore che ha già dato la totale disponibilità agli orari, ai turni, ai salari che l’azienda definirà. In questo senso la legge 30, per la prima volta sanziona in Italia quello che da sempre è l’obiettivo del padronato: giungere alla definizione individuale del rapporto di lavoro, escludendo o mettendo i margini ogni contrattazione collettiva.

Qui c’è il salto di qualità, la forzatura enorme, la modifica istituzionale, e secondo noi, la violazione dei diritti costituzionali del lavoro. Tutta l’ideologia che ispira la legge 30 è fondata su principi negatori o revisionisti rispetto alla Costituzione. Saltano i principi della parità dei diritti dei lavoratori, dell’equa retribuzione e più in generale tutti quei valori che hanno fatto sì che la legislazione, a partire dagli anni 60, considerasse il lavoro la parte da sostenere rispetto al mercato e all’impresa.

Ora il lavoratore diventa una merce come le altre, va sul mercato, va in borsa, deve solo cercare di fare incontrare la propria offerta di prestazioni con la domanda. E’ un diritto commerciale regredito quello che sostituisce il diritto del lavoro, ed è evidente che una legislazione di tal fatta non solo interviene sulle relazioni sociali, ma sulle stesse forme della democrazia. Si vuole cambiare la natura e la funzione del sindacato.

E’ chiaro che l’estensione a dismisura dell’accordo individuale tra impresa e lavoratore fa saltare la funzione dei contratti nazionali. Essi al massimo possono rimanere, così come ci spiega la Confindustria, come regolatori di diritti minimi, così come negli Stati Uniti le leggi sul salario minimo definiscono i livelli ufficiali di povertà. Una volta però definita quella che viene chiamata la cornice normativa, tutto il resto dovrà essere sempre più affidato all’individualizzazione del rapporto di lavoro.

Non si illudano la Cisl e la Uil quando sentono gli imprenditori spiegare che ci vuole una contrattazione più vicina alla impresa. Gli imprenditori liberisti non pensano affatto a trasferire le regole del contratto nazionale a livello della singola azienda, pensano semplicemente di farle sparire. Per loro la contrattazione vicina alla impresa vuol dire che quando assumono un lavoratore, in virtù della legge 30, già definiscono tutto. Per cui il sindacato non ha più niente da fare. Almeno dentro il luogo di lavoro.

Il sindacato invece può essere coinvolto nella gestione della assunzione, se il potere pubblico garantisce adeguate compensazioni.

Gli Enti bilaterali possono diventare le sedi nelle quali il sindacato, eliminato dalla contrattazione e dal luogo di lavoro, ritrova una funzione partecipando e coogestendo il processo di assunzione. E’ chiaro, siamo in Italia, che cosa vorrà dire il fatto che le organizzazioni sindacali potranno mettere il loro timbro per certificare un particolare rapporto di lavoro. L’azienda riceverà le agevolazioni pubbliche legate a quel rapporto di lavoro e il sindacato non avrà ostacoli nel riscuotere la quota di adesione a chi deve prendere una tessera per lavorare. Si crea così un sistema corporativo, forse anche speculativo, a lato delle imprese e del rapporto di lavoro. Si creano così le basi per una profonda corruzione della funzione della rappresentanza sindacale.

E’ bene infine ricordare che tutto questo avviene assieme al processo di legislazione autoritaria che colpisce la forza lavoro migrante. La legge Bossi-Fini rappresenta l’estremo tentativo di privatizzazione delle relazioni sociali, quello per cui gli stessi diritti di cittadinanza delle persone sono affidate alla impresa. Immaginiamo tutte le forme di precariato esistenti o in preparazione per i lavoratori nativi, ed a esse aggiungiamo quella riservata ai migranti. Che potranno avere il permesso di soggiorno solo se c’è un padrone che lo chiede per loro. Se quel padrone ti licenzia, ti espelle anche dall’Italia. Siamo qui ad una vera e propria forma di moderna schiavitù.

 

5)       Ecco perché abbiamo potuto contemporaneamente affermare che il rapporto di lavoro che governa l’impresa è ancora quello a tempo indeterminato, e che allo stesso tempo, la precarizzazione è la condizione generalizzata ed unificante del lavoro. Perché l’impresa non rinuncia affatto al rapporto di lavoro da sempre fondamentale, organizza ancora tutta la sua attività attorno ad esso. Ma, questa è la brutale novità, il rapporto di lavoro indeterminato, i suoi diritti e le sue garanzie, diventano una sorta di miraggio sociale. Un miraggio verso il quale far convergere gli sforzi, le disponibilità, la subordinazione della forza lavoro. Di una forza lavoro che deve sapere che in ogni istante della sua vita lavorativa può essere espulsa dal processo produttivo. Per raggiungere il miraggio del lavoro sicuro, bisogna essere precari sempre.

Contro questo paradosso liberista occorre muoversi, e muoversi ora. Prima che si consolidi un sistema di gerarchie feudali nelle condizioni di lavoro, tale da rendere impraticabile per un lungo periodo qualsiasi azione collettiva.

 

Le iniziative della Fiom

 

1)       La Fiom già nel suo Congresso, ha individuato nella lotta alla precarietà del lavoro il punto centrale, unificante, della propria iniziativa. Così come, quando sorsero le catene di montaggio e gli operai specializzati furono in molti luoghi soppiantati dagli operai di linea, così come quando la Fiom scelse una linea di sindacalismo industriale e di classe, proponendosi di unificare potere contrattuale di tutti i lavoratori. Così oggi attorno alla precarietà occorre costruire, con lo stesso spirito, una nuova unità del mondo del lavoro.

Tale unità implica il rifiuto della contrattazione separata. Quella che divide i diritti dei giovani da quelli degli anziani, i precari dai momentaneamente più tutelati, i nuovi assunti dai vecchi assunti, i decentrati dai dipendenti dell’azienda madre. Scopo e valore fondamentale della iniziativa di un moderno sindacato industriale è quella di perseguire l’obiettivo secondo il quale i lavoratori che concorrono a vario titolo a realizzare lo stesso prodotto o lo stesso bene, devono godere degli stessi diritti e delle stesse condizioni fondamentali. E, se fanno la stessa mansione, della stessa paga.

Questo principio di eguaglianza è stato scardinato dalla frantumazione del mondo del lavoro. Ricostruirlo è compito fondamentale in un sindacato che non voglia regredire a modelli corporativi e a pure tutele del mestiere. Naturalmente è un compito strategico, che richiede passaggi e articolazioni intermedie. La piattaforma costruita nel Contratto nazionale aveva ed ha questo scopo. Per noi la battaglia per ottenere un Contratto nazionale che risponda alle esigenze di riunificazione dei diritti del lavoro e che contrasti la precarizzazione e l’individualizzazione del rapporto di lavoro, continua.

Continua nelle vertenze pre-contrattuali, nelle quali cerchiamo di porre un argine al disastro salariale dell’accordo separato e a quelli normativi dell’applicazione della legge 30. Ma continua anche cercando di ottenere dalle imprese migliori condizioni per la forza lavoro precaria qui ed ora.

Occorre costruire una contrattazione permanente nei luoghi di lavoro che abbia al centro il rapporto di lavoro. Così come nel passato siamo stati puntuali verso le imprese nell’esigere di discutere tempi e condizioni di lavoro, bisogna oggi riprendere l’iniziativa su questi temi assieme a quella contro la precarizzazione. Su questo piano dobbiamo costruire un conflitto forte ovunque le imprese non accettino davvero di trattare.

 

2)       Accanto alla ripresa generalizzata della iniziativa rivendicativa nei luoghi di lavoro, è indispensabile sviluppare, una iniziativa generale per fermare l’offensiva del Governo e diventano strumenti per applicare la legge 30, la legge sui contratti a termine, quella sulla flessibilità degli orari, diventano insomma strumenti di attuazione delle disposizioni del Governo.

Non possiamo affrontare questa materia su un piano esclusivamente contrattualistico, non si può gestire la legge 30. Si può solo lottare e fare in modo che essa fallisca e venga cancellata.

Per questo la Fiom intende praticare e proporre a tutto il movimento sindacale una iniziativa diffusa che abbia lo scopo di ottenere la messa in mora e la non applicazione pratica della legge 30.

Il che vuol dire non entrare negli Enti bilaterali che ne dovrebbero gestire l’applicazione, contestare i risultati del loro operato nei luoghi di lavoro e sul piano legale. Costruire campagne di mobilitazione contro la legge che comportino anche forme di dissobedienza civile rispetto alla sua applicazione.

Facciamo appello a tutti i movimenti che lottano contro il liberismo, affinché si lanci una campagna di mobilitazione contro l’applicazione della legge 30 e contro il precariato. Riteniamo che un modello interessante di mobilitazione sarebbe quello di costituire anche da noi, così come avvenuto negli Stati Uniti per opera del movimento sindacale e dei movimenti antiliberisti, comitati e movimenti che lottino per ottenere un “lavoro con giustizia”.

Siamo aperti al confronto con chiunque sia disposto a misurarsi concretamente sulla lotta della precarietà del lavoro.

Chiediamo infine alle forze politiche del centro sinistra l’impegno chiaro a mettere nel proprio programma, oltre che una sacrosanta legge sulla rappresentanza, l’abrogazione della legge 30. Lo ripetiamo, questa legge non può essere emendata ma deve essere soppressa.

Lo stesso chiediamo anche per la legge Bossi-Fini: essa è una tale vergogna sociale e civile per il nostro Paese, che abolirla da parte di una nuova maggioranza di centro-sinistra deve diventare una questione di ordine morale.

La Fiom ha partecipato con convinzione alla campagna referendaria per estendere a tutte e a tutti l’art.18. Quella campagna non ha avuto successo, ma l’alto livello delle adesioni raccolte, i quasi 11 milioni di Sì, e soprattutto la condizione concreta dei lavoratori chiedono di continuare l’impegno per l’estensione dei diritti. Per questo intendiamo muoverci a sostegno che tutte quelle iniziative e progetti di legge, a partire da quello della Confederazione, che si propongono di sviluppare ed estendere in tutti i luoghi e in tutti i rapporti di lavoro i diritti fondamentali garantiti dallo Statuto e dalla Costituzione. Siamo infatti sempre convinti che i diritti o si estendono a tutti, o prima o poi non sono più di nessuno, per questo intendiamo continuare nell’iniziativa per la loro massima diffusione.

 

3)       L’iniziativa della Fiom continuerà sia sul piano dell’azione articolata che su quello generale. Mentre prosegue e si estende con successo l’iniziativa per i pre-contratti, nella giornata di domani scenderanno in sciopero in tutta Italia i lavoratori della Fincantieri e i metalmeccanici artigiani, da più di due anni senza Contratto nazionale. La loro è una lotta difficilissima, ma di grande valore e non solo perché si collega a tutto il nostro impegno per i diritti. Ma anche perché le associazioni degli artigiani per prime hanno esplicitamente disdettato il modello contrattuale fondato sul contratto nazionale e si apprestano a rivendicare la sostanziale fine di quell’istituto.

Le decisioni del governo sulle pensioni, lo abbiamo detto più volte, rappresentano un ulteriore passo nella precarizzazione del lavoro. E’ bene ribadire che per noi non è da respingere solo l’allungamento dell’età pensionabile, ma l’intera delega del governo, con la riduzione dei contributi per i nuovi assunti e con il sequestro del Tfr per i fondi pensione. La lotta contro la controriforma delle pensioni dovrà perciò collegarsi alla lotta contro la precarizzazione del lavoro e dovrà quindi coinvolgere la legge 30. Oggi si dimostra ancora di più l’effetto disastroso che ha avuto sui diritti dei lavoratori il “Patto per l’Italia”, contro tutti i suoi effetti noi lottiamo. Su queste basi caratterizzeremo la nostra partecipazione a uno sciopero generale di tutte le categorie che riteniamo indispensabile.

Diamo appuntamento a tutti i movimenti di lotta contro la precarizzazione alla manifestazione del 17 ottobre. Là noi rivendicheremo ancora una volta un Contratto nazionale fondato sulla democrazia. Su quella democrazia della rappresentanza che la Federmeccanica e la Confindustria negano alla radice affermando il principio che si fa l’accordo con chi ci sta. E che il Governo a sua volta mette in discussione dando valore di legge agli accordi separati.

Lottiamo per la democrazia e per il diritto dei lavoratori a decidere sui loro contratti. E questa è solo l’altra faccia della lotta necessaria ad impedire che tutto il rapporto e le condizioni di lavoro vengano decise dal padrone nell’atto di far sottoscrivere al lavoratore l’assunzione.

Diamo appuntamento al 17 ottobre sapendo che esso sarà un momento decisivo, ma che poi si dovrà continuare perché l’alternativa è un regime autoritario senza precedenti nei confronti del lavoro.