- Relazione
introduttiva di Francesca Re David
-
-
- A
un anno esatto dalla celebrazione dei
suoi 100 anni, la Fiom
ha promosso insieme all’Archivio audiovisivo del movimento operaio e
democratico questo seminario che si presenta come un’occasione di libero
confronto fra protagonisti, esperti di diverse discipline, osservatori
privilegiati intorno al tema che consideriamo centrale, la lente per
leggere passato e presente, per progettare
il futuro.
- Il
lavoro e i lavori come nucleo essenziale dell’identità individuale e
collettiva di uomini e donne; le forme e i modi in cui si è espressa e si
esprime tale identità nel corso delle tumultuose trasformazioni di questo
secolo, dal taylorismo alla società dell’informazione.
- Un
confronto libero, nel senso che questo è l’avvio di un percorso di
ricerca che intendiamo compiere in tutto l’arco dell’anno, al quale vi
abbiamo chiesto di partecipare portando ognuno il proprio punto di vista,
la propria chiave analitica senza avere precostituito testi e documenti
per “contenere” la discussione.
- Un
seminario, quindi, a cui attribuiamo un valore in sé, per l’autorevolezza
degli interlocutori che abbiamo inteso coinvolgere, ma che è allo stesso
tempo, momento fondamentale per aiutarci a costruire le tappe che
seguiranno, a individuare i nodi teorici e le fasi
emblematiche su cui lavorare; parte integrante e insieme fase
preliminare, quindi, per mettere a punto il nostro percorso di ricerca.
- Un
seminario promosso dalla Fiom nazionale, che coinvolge il Comitato
centrale della Fiom, e l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e
democratico, perché riteniamo che sia elemento di comprensione della
storia delle lavoratrici, dei lavoratori e del sindacato che li
rappresenta, l’immagine che di questa storia è stata data nelle diverse
fasi. Questo infatti aiuta a comprendere il ruolo sociale che alla “classe
operaia” è stato riconosciuto; l’impatto del lavoro nell’immaginario
collettivo; la relazione con gli intellettuali. La storia e le diverse
fasi lette attraverso la rappresentazione che se ne dà con documenti
filmici dell’archivio, ci aiuta a vedere con altri occhi l’impatto
sociale e culturale del lavoro industriale che accompagna e si intreccia
indissolubilmente con la storia del nostro paese.
- La
premessa da cui partiamo, è che la questione del lavoro non si risolve
nel problema della sopravvivenza (come strumento per garantirsi la
sopravvivenza), ma è per le persone il fondamentale strumento di
trasformazione della realtà. Trasformazione materiale e oggi immateriale,
fatta di prodotti, merci, del loro impatto con la natura, del loro valore
sociale ed economico, delle modifiche che producono nella vita quotidiana,
delle potenzialità che esprimono; trasformazione nei modelli di
produzione, nei sistemi industriali, organizzativi e di organizzazione del
lavoro e quindi di relazioni e di poteri; trasformazione sociale, se è
vero che a modelli produttivi corrispondono modelli sociali;
trasformazione come capacità di rappresentanza collettiva del lavoro, di
identità in quanto soggetto portatore di un autonomo punto di vista e
perciò in grado di contribuire a determinare cambiamenti, la cui storia
si lega a fasi storiche, disegni politici, progetti sociali, valutazioni
interne ed esterne all’impresa.
- Il
progetto ambizioso che parte oggi è di leggere attraverso la
Fiom - il maggiore oltre che il
più antico sindacato dell’industria – la storia sociale di un
secolo, le relazioni e i poteri, i valori e le trasformazioni.
- Lavoro
– identità – rappresentanza, di fronte ai cambiamenti determinati dal
progresso e dall’innovazione; dalle relazioni sociali e dai rapporti di
forza; da nuove soggettività e nuovi bisogni che irrompono modificando
uno schema classico di riferimento, ponendo nuove domande,
cioè la necessità di affrontare una società complessa quale è
la nostra.
- Il
Novecento è il secolo del contratto collettivo come fonte di diritti
collegati alla condizione di lavoro, che supera la relazione individuale e
subordinata fra padrone e salariato esprimendo una identità del lavoro
dipendente e un’autonoma rappresentanza di interessi. Il contratto fissa
regole per tutti, determinate spesso, ma non solo, dai rapporti di forza,
stabilizza conquiste sociali. Discuterne oggi significa anche
affinare gli elementi di comprensione e quindi di progettualità
strategica, se è corretta l’analisi che facciamo per cui al centro dell’attacco
della Confindustria oggi torna proprio il contratto di lavoro, non a caso
insieme alla proposta di un modello sociale e di convivenza che sembra
imboccare una strada regressiva. La Confindustria vorrebbe infatti
riportare le relazioni fra capitale e lavoro alla relazione fra impresa e
singolo dipendente, negando così un punto di vista collettivo diverso da
quello dell’impresa. Quel
patto per la modernizzazione proposto dal
presidente della Confindustria D’Amato, insieme all’alleanza
referendaria con i radicali, sono un’espressione esplicita del fatto che
per le imprese è chiarissimo come il comando nel lavoro e nell’organizzazione
sociale siano questioni inscindibili, insieme alla proclamazione di una
modernizzazione che utilizza per sè la rottura di identità (e di
rappresentanza) nel lavoro – già messe a dura prova dalla frantumazione
dei processi produttivi e di titolarità dei rapporti di lavoro
intervenuta in questi ultimi anni.
- Intrecciare
i cambiamenti intervenuti nel corso del secolo in tema di lavoro, di
soggetti, di modelli produttivi, con le tappe fondamentali della storia
della Fiom e delle relazioni industriali, e
con i mutamenti politici e sociali, significa verificare e chiarire
la relazione fra uomini, donne e lavoro che attraversa tutto il secolo di
storia del movimento sindacale.
- L’identità
dei lavoratori in tutto il secolo si diversifica e
pone sempre la questione di riannodare e riconoscere i fili comuni.
E’ il tema della rappresentanza e quindi del sindacato, nella
consapevolezza che o si è in grado di difendere un’autonoma visione
delle cose dando risposte complesse a una società complessa,
riaggiornando e arricchendo il significato di solidarietà e uguaglianza,
se ciò non avviene si rischia che siano le imprese ad imporre la loro
egemonia dentro un disegno neo-corporativo.
- Il
Novecento è secolo di profonde trasformazioni materiali e di paradigma
sociale, attraversato da immani conflitti e grandi conquiste.
- Hobsbawm,
nel suo libro Il secolo breve dice
che la struttura del secolo appare come un trittico: l’età della
catastrofe fino ai postumi della Seconda guerra mondiale; l’età dell’oro
segnata da una straordinaria crescita economica e di trasformazione
sociale che hanno mutato la società umana più profondamente di qualunque
altro periodo; e infine una nuova epoca di decomposizione, di incertezza e
di crisi, di instabilità economica e politica, di crisi sociale e
morale. Nel corso del Novecento il mondo è diventato
incomparabilmente più ricco di quanto lo sia mai stato, sia nella
capacità di produrre beni e servizi, sia nella loro varietà illimitata;
fino agli anni Ottanta la maggior parte delle persone ha avuto un tenore
di vita superiore a quello dei propri genitori, ma alla fine del secolo l’ineguaglianza
ha preso di nuovo il sopravvento.
- La
domanda fondamentale è come le lavoratrici e i lavoratori sono stati
investiti da questi cambiamenti, dalle trasformazioni di un secolo di
grandi conflitti e insieme di grandi speranze e idealità, dentro un
processo tecnologico che ha annullato il tempo e la distanza.
- Infatti,
- -
cambia la struttura produttiva: dall’azienda artigiana alla fabbrica che
contiene tutto; dal decentramento
produttivo degli anni Settanta, all’azienda a rete di cui ancora oggi
non sono chiari i confini,
fino alla fabbrica del software;
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cambia la struttura del
capitale: dalla famiglia ai manager che gestiscono l’impresa sempre più
internazionalizzata, al capitale finanziario che comanda, con le sue
logiche di profitto a breve, qualsiasi investimento rendendo
tendenzialmente precaria qualsiasi impresa che non sia radicata sul
territorio da qualcosa in più della pura logica dei costi; infine, dalle
partecipazioni statali alle privatizzazioni;
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cambiano i soggetti: solo
soffermandoci sul Secondo dopoguerra, emergono i giovani meridionali che
diventano operai nelle grandi
imprese del Nord: la generazione delle magliette a strisce, grande
protagonista delle lotte e delle conquiste degli anni Sessanta. E le
donne, che irrompono nel mercato del lavoro sconvolgendo equilibri
familiari e sociali consolidati; dilatando con le loro richieste di
diritto al lavoro il significato stesso del problema disoccupazione;
mettono in campo strategie individuali per stare faticosamente dentro uno
schema di totale, antica
presenza nel lavoro di cura, e di nuova presenza nei tempi del lavoro
costruiti sul maschio capofamiglia; e il pensiero femminista che introduce
contraddizioni nelle relazioni consolidate, che ragiona sul valore della
differenza, che pone la questione di ridiscutere modelli sociali e di
lavoro da una diversa angolazione. E poi l’immigrazione, che accentua l’esperienza
di gerarchia di diritti e di riconoscimenti nel lavoro, cui seguiranno il
moltiplicarsi di rapporti di lavoro, sempre più deregolamentati. Si
complica la rappresentanza e il modo di riflettere sui diritti. Senza
dimenticare la difficile relazione fra compagni/rivali, dipendenti dalle
multinazionali e dispersi in lontane aree del mondo, messi in competizione
gli uni contro gli altri nella rincorsa delle convenienze sui costi;
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cambia l’organizzazione
del tempo, dalla fabbrica rigida agli orari flessibili, nel continuo
conflitto fra esigenze di chi lavora ed esigenze dell’impresa. Il tempo
si ripropone sempre come misurazione del lavoro, dei livelli di
inclusione/esclusione, degli spazi di costrizione/libertà, di
riconoscimento delle attività storicamente necessarie. Il tempo esprime
il possesso del controllo o del comando sulla prestazione di lavoro;
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cambiano le condizioni di
lavoro: per i mutamenti
tecnologici, ma anche per la capacità o meno di mettere in campo
strategie per il controllo sull’organizzazione del lavoro e sull’intensità
della prestazione. Sempre al centro, è la questione dei poteri che
richiama l’efficacia dell’azione
contrattuale quando la prestazione diventa
punto di coesione e di forza, o al contrario se ne cede il comando
riducendo il lavoro a mero fattore di costo;
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cambia il rapporto con la
società: dalle lotte operaie come motore delle grandi riforme sociali,
alla rinascita del “pensiero unico” neo-liberista, che individua
proprio negli operai protagonisti degli anni Settanta il soggetto contro
cui accanirsi, tentando di trasformare le loro conquiste per tutti in
privilegi e tentando di incuneare una spaccatura fra le diverse
generazioni delle lavoratrici e lavoratori. Un pensiero unico che
identifica nel benessere dell’impresa il motore del cambiamento; che
sprona alla concorrenza come il nuovo valore del “moderno”; che riduce
lo Stato sociale ad assistenza per gli inevitabili esclusi;
- -
cambiano i diritti necessari per garantire uguaglianza fra soggetti sempre
più fra loro diversificati: gli uomini, le donne, i giovani, gli anziani,
gli immigrati, i lavoratori e le lavoratrici cosiddetti atipici; le
famiglie che si differenziano nella composizione. La tentazione di
affrontare questa questione paradossalmente semplificando, è forte.
- La
domanda è: in che modo la Fiom è stata dentro questi cambiamenti,
determinandoli e/o essendone determinata? Alcuni parzialissimi cenni sul
nostro cammino sono necessari. La Federazione italiana degli operai
metallurgici nasce con 58 sezioni e 18.000 iscritti il 16 giugno del 1901,
quando le Leghe di mestiere danno origine alla Federazione nazionale,
riconoscendo così una identità collettiva fondata sulla condizione
operaia. Nel ’46 il cambio di nome in Federazione impiegati operai
metallurgici allarga i confini dell’identità, comprendendo tutti i
lavoratori che sono dentro il processo produttivo nella fabbrica
metalmeccanica, quale che sia la loro funzione specifica. E’ una
riaffermazione di rappresentanza del lavoro dopo le guerre, che sempre
ammutoliscono e dividono; dopo il fascismo, che azzera
il riconoscimento dell’altro nell’ideologia corporativa che
finge di annullare le differenze fra padroni e lavoratori; dopo le
repressioni e gli omicidi perpetuati dalla dittatura, che colpiscono
il movimento sindacale fino a sopprimerlo con la violenza.
- Nel
’48 la scissione sindacale proietta di nuovo l’identità al di fuori
della condizione di lavoro. L’appartenenza ideologica fa premio sui
legami di classe producendo divisioni che gravano sulla capacità di
tutela degli interessi. E’ fortissima la relazione con i partiti
protagonisti della guerra fredda, che separa sindacalismo cattolico,
laico, comunista e socialista. In questa fase la classe operaia è
eminentemente soggetto politico, perché l’affermazione della democrazia
è la condizione preliminare per qualsiasi conquista.
- Così
la Cgil e la Fiom sono protagoniste nel ’53 della battaglia contro la
legge truffa. La scelta della Cgil di
essere veicolo di affermazione di princìpi generali di uguaglianza,
contro il rischio di una cultura corporativa
che si può affermare dentro una ipotesi aziendalista delle
relazioni con i padroni e di subordinazione ai favori del sistema di
potere democristiano sul territorio, porterà a un distacco dal legame con
le condizioni concrete di lavoro dentro la fabbrica. Arriva così la
sconfitta alle elezioni delle commissioni interne alla Fiat nel ’55. La
Fiom dimezza gli iscritti, dai 404.000 del ’55 ai 256.000 nel ’56,
arrivando a toccare il punto più basso nel ’59, quando scende sotto i
200.000 iscritti. Ma nel ’56 la rotta è già stata invertita: il XII
Congresso della Fiom apre la strategia del “ritorno in fabbrica”,
affermando un principio costitutivo della storia della Cgil: la forza si
ha o si perde a seconda se si è in grado di condizionare e incidere nel
luogo in cui la prestazione di lavoro si esplica e di essere al tempo
stesso sindacato generale. Si comincia così a delineare l’inscindibilità
dei due strumenti contrattuali: il contratto nazionale, che in quegli anni
si completa in tutte le sue parti, come veicolo di solidarietà,
regolatore di diritti per tutti i lavoratori e le lavoratrici; la
contrattazione aziendale per migliorare le condizioni di lavoro come
strumento che apre il conflitto
e il confronto in fabbrica. Nascono così le sezioni sindacali in fabbrica
che diramano le relazioni e i punti di confronto.
- Siamo
agli anni del boom economico, che portano alla ribalta politica i giovani
operai metalmeccanici del Sud che hanno invaso con le loro famiglie le
città-fabbrica del Nord Italia, producendo rilevantissimi mutamenti
culturali e sociali. Si radica fra i lavoratori e nel sindacato l’orgoglio
e la consapevolezza di essere protagonisti dello sviluppo del
paese, dando origine a una fase che culmina con la stagione di lotte del
‘68-69. L’emancipazione del lavoro dipendente, la relazione (anche
difficile) con studenti e intellettuali, segna l’impatto politico e
sociale di una classe operaia che diventa portatrice di un progetto
sociale che travalica i suoi confini.
- Il
’69 è l’anno del contratto che porta l’orario di lavoro a 40 ore.
La battaglia è liberare dalla fabbrica il tempo del sabato e della
domenica per guadagnare tempo per sé, fuori dai vincoli della produzione;
nel ’70 lo Statuto dei lavoratori riconosce per legge i diritti
acquisiti dai lavoratori e dalle lavoratrici e le libertà sindacali. Il
centro dell’impegno sindacale in
fabbrica è la prestazione,
per migliorare le condizioni di lavoro e la qualità del tempo di lavoro:
la salute, i ritmi, l’intensità. La conoscenza del ciclo produttivo
diventa l’elemento maggiore di potere contrattuale, e nel gruppo
omogeneo si riconosce il proprio delegato sindacale. Il cuore dell’identità
torna a essere la condizione che supera le divisioni fra sigle:
nasce la Flm, e il sindacato dei metalmeccanici tornerà a essere
uno, per poco più di un decennio.
- Siamo
infatti alla vigilia dei grandi processi di ristrutturazione che
modificheranno il ciclo produttivo e l’organizzazione del lavoro; inizia
il decentramento delle grandi fabbriche e la manifattura - con esiti
alterni - va verso il Sud. E’ un decennio di tumultuosi cambiamenti
sociali, dalle grandi riforme che ci consegnano lo Stato sociale fondato
su princìpi, valori e diritti che da qualche tempo sono sotto attacco,
alla battaglia referendaria sul divorzio che rende palese i mutamenti
culturali e sociali avvenuti.
- Comincia
poi la fase di ripiegamento e di svalutazione sociale del lavoro
industriale; dopo gli anni delle stragi di Stato e del terrorismo che
hanno tentato di destrutturare l’ascesa del progetto sociale che si
radicava dalla fabbrica, alla scuola, al territorio, l’attacco padronale
riparte dal rapporto capitale/lavoro.
- L’Ottanta
alla Fiat apre il terreno alla rivincita da parte del padronato. Il fulcro
della strategia confindustriale è liquidare
la contrattazione. Schiacciato dalle ristrutturazioni, il sindacato tratta
quasi esclusivamente sugli ammortizzatori sociali; avere un lavoro diventa
una fortuna. Si passa così dal lavoro come un diritto al lavoro come un
“privilegio”; tutto ciò avrà effetti enormi sull’identità
individuale e collettiva, sulla capacità di rappresentanza. Si perde la
capacità di lettura del ciclo produttivo e di controllo sulla prestazione
di lavoro, complici i mutamenti tecnologici il cui governo è
nelle mani delle imprese. Si tenta così di espellere il conflitto
dalle fabbriche.
- L’impresa
punta a guidare i processi, le terziarizzazioni, determina il
moltiplicarsi dei rapporti di lavoro.
La democrazia in fabbrica e fuori dalla fabbrica è in difficoltà.
- E
nella difficoltà, ci si divide. Mentre
i valori collettivi lasciano il campo al “pensiero debole” del
successo individuale, nell’84 finisce l’Flm, l’esperienza unitaria
figlia dei Cdf. Di nuovo, l’identità
viene ricercata fuori dalla rappresentanza sociale.
- Comincia
l’esodo dalle fabbriche: le generazioni della ricostruzione e del boom
economico vengono espulse dalle ristrutturazioni, generazioni per le
quali non si aprono le porte se non per un lavoro spesso in nero. La Cgil
ricerca nella solidarietà le radici di un sindacato generale che unifichi
un mondo del lavoro sempre più diversificato.
- Nell’87
il Congresso della Fiom lancia la codeterminazione: contro un’impresa
che ha nelle mani tutte le scelte, facendo i conti con una rappresentanza
che sta perdendo terreno – nelle fabbriche non si vota più, segno che
la perdita di controllo sulla prestazione di lavoro ha piegato la
democrazia – si rilancia un’ipotesi che rimette al centro l’idea di
un autonomo punto di vista, per una partecipazione non subordinata.
- La
democrazia non c’è in fabbrica ed entra in crisi nel paese: la politica
che non si sa riformare viene riformata dalle inchieste giudiziarie sulla
corruzione; al Nord anche i lavoratori cercano altrove elementi di identità e la
Lega miete successi; il Sud accresce il distacco dal resto del paese. Il
sindacato subisce l’attacco più violento all’autonomia negoziale,
che produrrà nella Cgil una
crisi esplicita.
- Il
capitalismo italiano ha scelto la sua collocazione nella divisione
internazionale della produzione, decidendo di concorrere nel mercato
mondiale nel segmento medio-basso, dove la sfida si gioca sui costi e non
sull’innovazione di prodotto.
- Mentre
all’America passa definitivamente il primato dell’innovazione
tecnologica ma anche del manifatturiero ad alto contenuto; mentre la
manifattura viaggia per il mondo che non è più eurocentrico; mentre in
Europa la Germania e la Francia sono i paesi più avanzati da questo punto
di vista, l’Italia è loro subfornitrice.
- E
al tempo stesso sceglie di imitare del modello americano gli aspetti
deteriori, non certo la sfida
sulle nuove tecnologie: la precarietà del lavoro diventa condizione
permanente per abbattere i costi, ma anche per affermare il controllo sul
lavoro, come elemento strutturale di comando sulle persone.
- L’incertezza
diventa condizione strutturale e non transitoria, per qualsiasi tipo di
rapporto di lavoro e per tutte le fasi della vita, sia perché il lavoro
si può perdere, sia perché la precarietà è dentro il modello
produttivo stesso.
- Con
gli accordi del luglio ’93, il sindacato fa un tentativo importante:
farsi parte insieme alle imprese e al governo di un sistema di regole
dentro il quale accettare vincoli, ma anche garanzie per la salvaguardia
del sistema contrattuale sui due livelli; sulla base della condivisione di
obiettivi, accettare il principio della moderazione salariale dentro una
politica di tutti i redditi, raffreddare il ricorso al conflitto per
assicurare il rispetto di un punto di vista autonomo.
- E
contemporaneamente, si apre una nuova fase con l’obiettivo di
risollevare la democrazia nei luoghi di lavoro che tenga conto della crisi
di rappresentanza e della scissione fra rappresentanza e controllo della
prestazione e delle condizioni di lavoro, che ha segnato gli anni Ottanta:
nascono le Rsu.
- Ma
il nuovo sistema di regole non colma il deficit progettuale che investe
tutta la sinistra politica e sociale degli anni Novanta, né limita a
lungo l’aggressività di una Confindustria che - soprattutto dopo l’euro
- vuole concludere la parabola del ‘900 affermando la vocazione
autoritaria del capitale sul lavoro. D’altre parte, fin dal ’93 la
Federmeccanica aveva detto no alla concertazione, esprimendo la volontà
di liquidare in fretta le relazioni sindacali.
- L’ultima
campagna referendaria, portatrice di un modello sociale che tende ad
annullare conquiste acquisite per riaffermare il primato dell’individualismo,
che presume una società dell’esclusione, esplicita la strada
scelta dalla Confindustria: è il patto per la modernizzazione, che
confonde liberismo con libertà.
- Al
centro dell’attacco c’è inevitabilmente il contratto collettivo di
lavoro, che per la Federmeccanica va
definitivamente liquidato: se il costo è al centro delle strategie delle
imprese, la prestazione di lavoro deve essere dominio dell’impresa.
- Si
tenta così di ridurre il
lavoro a puro fattore di costo e il riconoscimento del suo valore
equiparato alla caratteristica della piena disponibilità.
- L’obiettivo
è sostituire a identità e rappresentanza collettiva nel lavoro, la
conquista dei singoli all’impresa utilizzando le armi del ricatto e
della promozione unilaterale, che trovano terreno fertile nella incertezza
dei destini individuali.
- Come
sempre, condizioni nei luoghi
di lavoro e modello sociale si saldano, in questo caso dentro l’ipotesi
di una società come assemblaggio di individui egocentrici fra loro
separati. A tutto ciò, nel disegno restauratore, si accompagna un’idea
di Stato sociale che dà prestazioni a capitalizzazione – dove ognuno
mette da parte per sé, se ce la fa – e che magari – come vorrebbe la
Cisl – vede il lavoratore azionista della propria impresa, da cui
dipende quindi oltre che per il proprio presente, per il possibile futuro.
- Per
contrastare questa prospettiva, è necessario affermare un modello
alternativo; per quanto attiene al lavoro, questo significa stare dentro
la globalizzazione con l’ottica di rimettere insieme ciò che si è
frantumato: ricostruire e ritrovare il controllo del ciclo produttivo, e
attraverso ciò, del lavoro e dei lavori. Come dicono i teorici dell’impresa
moderna, la catena del valore si sposta in alto, verso i servizi
telematici, che però senza
gli oggetti concreti sono inutili, senza valore d’uso. E’ la
svalutazione massima che il lavoro
della manifattura abbia avuto in tutta la sua storia.
- Significa
riannodare i fili dell’identità, facendo i conti con una realtà sempre
più complessa, per scelte soggettive e condizioni materiali. Riproporre
il primato della persona che
determina i cambiamenti, senza arrendersi all’incertezza come paradigma
per il futuro e alla concorrenza come chiave delle relazioni.
- Il contratto collettivo è lo strumento e
insieme il simbolo di un’idea fondata sul diritto, di riconoscimento di
valore al lavoro, di affermazione di un autonomo punto di vista. Mettere
oggi al centro la prestazione di lavoro significa preoccuparsi della
materialità delle condizioni di vita contro un’idea che sposta fuori,
prescinde dalla qualità della vita delle persone per giudicare
modernizzazione e progresso. E ricercare quindi anche quell’unità
sindacale che sempre si sfilaccia quando il riconoscersi nel lavoro entra
in crisi, ripartendo dal basso, dalle domande e dai bisogni degli uomini e
delle donne.
- Il peggioramento
delle condizioni di lavoro, di cui sono consapevoli tutti coloro che non
giudicano dalla borsa lo stato di salute di un paese, ci dice che da qui
dobbiamo ripartire, perché la condizione del lavoro e della prestazione,
estesa nel suo significato, è ancora la radice dell’identità.
- Per trovare le
ragioni, il modo, le forme, i contenuti per affrontare il nuovo secolo
riaffermando nel lavoro il fondamentale strumento di trasformazione della
realtà, bisogna recuperare memoria storica.
- Dice ancora Hobsbawm
che: “La distruzione del passato, meglio la distruzione dei meccanismi
sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quelle delle
generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più
strani degli ultimi anni del Novecento”.
- Questo
è il percorso del centenario della Fiom che intendiamo aprire oggi, con
le inevitabili approssimazioni e schematicità. L’obiettivo è
riflettere sulla trama che compone la nostra esperienza collettiva, per
contribuire a rompere questo processo verso la perdita della memoria
collettiva, e in questo di ognuno; vogliamo partire dal parziale punto di
vista del sindacato dei metalmeccanici della Cgil per riflettere sul
passato, con uno sguardo rivolto al presente e al futuro.
-
- Roma,
16 giugno 2000