Non Bolkestein ma FrankensteinNotizie Internazionali n. 91 dicembre 2004 È stato questo lo slogan con cui i lavoratori edili della Federazione europea dei sindacati delle costruzioni hanno manifestato a Bruxelles il 25 novembre scorso contro la direttiva europea relativa ai servizi nel mercato interno, detta appunto “Bolkestein” dal nome del suo presentatore. Tale direttiva, approvata dalla Commissione e in via di discussione e approvazione definitiva, intende regolare – o meglio liberalizzare senza regole – tutte quelle attività economiche “normalmente fornite dietro remunerazione senza che ciò esiga che il servizio sia pagato da coloro che ne beneficiano”. Da una prima lettura di questa dicitura potrebbe sembrare che i settori pubblici siano quelli più interessati alla direttiva, ma se si legge attentamente il testo si evince che tutti i settori ne verranno coinvolti e che la pericolosità sociale di tale direttiva è enorme. Cerchiamo di capire perché. Vi sono già alcuni settori di rilevanza sociale inseriti nella direttiva quali quelli relativi alla fornitura di energia o acqua che di per sé rappresentano una scelta di privatizzazione inaccettabile, e l’elenco è stato ritenuto ampliabile dalla Commissione. Quindi la distinzione con altri settori di emanazione pubblica resta molto fluida, anche perché l’accesso a molti servizi pubblici avviene in parte dietro pagamento (ad esempio, in Italia è così per il settore sanitario o per quello scolastico). Possiamo ragionevolmente prevedere quindi che i settori che oggi vengono considerati fuori dalla direttiva possano invece essere inclusi con l’eccezione assoluta degli apparati militari e di sicurezza degli Stati membri. A questo ragionevole dubbio va aggiunto il pericolo sempre più incombente della privatizzazione dei settori pubblici ad alto impatto sociale quali i trasporti, la sanità, l’energia ecc. Rientrano nella direttiva i servizi alle imprese inclusi quelli di assunzione di personale, comprese le agenzie di lavoro interinale. A questo punto il quadro è completo, ovvero tutti i settori pubblici e privati seguiranno le norme della Bolkestein. La norma più pericolosa è rappresentata dall’introduzione del principio del “paese di origine”. Tale principio prevede che i lavoratori o prestatori di servizio siano soggetti esclusivamente alla legislazione del paese di origine, ovvero lo Stato membro d’origine è responsabile del controllo dell’attività di servizio del suo esercizio, in particolare anche dei contratti di lavoro applicati. Lo Stato ospitante ha solo un blando potere di controllo delle procedure. Tale principio deroga il Trattato europeo in termini di controllo e di potere degli Stati membri, cioè di poter decidere se un’attività o un’altra possa essere installata o prestata sul proprio territorio e le sue condizioni economiche e sociali (applicazione delle leggi e dei contratti dello Stato membro ospitante). In base a tale principio i lavoratori cosiddetti “in distacco” – che prestano servizio in un altro Stato membro – sono assoggettati al solo controllo e all’applicazione delle leggi e dei contratti dello Stato di origine. La direttiva non prevede né che il prestatore di servizio abbia una ragione sociale nello Stato ospitante né tanto meno che abbia una persona di rappresentanza. Possiamo facilmente immaginare, soprattutto dopo l’allargamento dell’Unione europea, cosa può accadere in un quadro politico dove le condizioni legislative e contrattuali del lavoro sono così diverse. Le imprese e gli Stati utilizzeranno tutto ciò che di più conveniente possa trovarsi sul mercato. La concorrenza al ribasso, il dumping sociale e la precarizzazione saranno armi gigantesche nelle mani degli imprenditori. I contratti nazionali e tutto il sistema di contrattazione diviene in questo modo nella visione europea cosa inutile, poiché si potrà sempre utilizzare manodopera che arriva da altri paesi con contratti diversi e minori tutele. Le forme illegali del mercato del lavoro potrebbero, attraverso la direttiva, ritrovare slancio e vitalità, mentre paradossalmente il vero mercato del lavoro sommerso, quello degli immigrati, non avrà più scampo poiché per i paesi terzi sono previste clausole assurde e vincolanti, ad esempio che il lavoratore prestatore di servizio potrà entrare nel paese ospitante solo dietro dichiarazione del proprio Stato di essere lavoratore dipendente. Si penalizzano quindi gli immigrati a favore di un “grande caporalato” di manodopera europea: dopo la delocalizzazione delle imprese avremo come ricatto la delocalizzazione di altri lavoratori in sostituzione di quelli del paese ospitante! L’annullamento dell’autonomia degli Stati membri, lo svilimento della contrattazione collettiva, l’enorme insicurezza sociale che la direttiva Bolkenstein porterebbe con sé sono ragioni sufficienti per indurci a chiederne il ritiro. La Fiom nazionale aderisce alla campagna di Attac per il ritiro della direttiva Bolkestein, ma lavora anche in ambito sindacale europeo perché non è la sola direttiva da ritirare. La proposta di revisione della direttiva sull’orario di lavoro se è possibile è anche peggiore della Bolkestein. Infatti quest’ultima è talmente estrema da aver suscitato l’interesse e la decisione di emendarla persino da governi di centrodestra, mentre la discussione sulla modifica dell’orario di lavoro si verifica nella quasi totale indifferenza di tutti i soggetti (a onor del vero anche sindacali). Essa scardina completamente gli assetti attuali: sparisce l’orario di lavoro come l’abbiamo conosciuto dal dopoguerra a oggi, cambia non solo la quantità di orario permesso ma le conseguenze sui soggetti interessati, sottraendo sempre più rappresentanza alla contrattazione collettiva e alla legislazione nazionale. Il limite settimanale di lavoro previsto dalla direttiva è di 48 ore che possono essere utilizzate per 12 mesi, nel contempo viene esaltato il ruolo dell’accordo tra impresa e singolo lavoratore arrivando a ipotizzare un consenso per una settimana lavorativa di 65 ore! Questa scelta è incomprensibile se si guarda alla realtà dei paesi membri dove l’orario di lavoro è in grande maggioranza fissato sulle 40 ore settimanali e dove, nell’Europa dei 15, l’orario effettivo di lavoro è di 38 ore. Vengono così messe in discussione non solo le condizioni di lavoro e di vita delle persone, ma anche la contrattazione, che sinora in Europa aveva definito standard di condizioni contrattuali più elevati (si pensi solo alle 35 ore dei tedeschi). A noi sembra di poter ragionevolmente supporre che questa direttiva prenda spunto dalla situazione inglese (più volte sollecitati ad armonizzare le condizioni di lavoro con quelle degli altri Stati membri) e dalle pressioni del padronato, ovvero si è scelta la situazione sindacale più debole e le pressioni più forti. Che Europa è mai questa dove si pretende di applicare ricette americane o inglesi per competere nel proprio mercato interno? Il governo europeo sta scegliendo nella pratica ricette neoliberiste che annulleranno tutte le conquiste sociali del vecchio continente. A queste scelte fa riscontro un silenzio impressionante delle forze politiche. Non c’è cittadino italiano che sappia di cosa stiano discutendo e di quali implicazioni quelle decisioni abbiano sulla sua vita, se non una volta approvate. Il difetto sta non solo nell’informazione, ma anche nella rappresentanza. Noi ci opporremo a queste scelte e fortunatamente non da soli. Non solo si è mobilitato il Social forum, ma anche i sindacati europei, pure se con un po’ di ritardo. La Federazione europea dei metalmeccanici (Fem) ha già preso posizione contro la direttiva sulla modifica dell’orario di lavoro e si appresta a decidere iniziative, e il dibattito sulle direttive si è fatto più serrato in molti sindacati europei dei metalmeccanici e dei servizi. In Italia si è costituito un comitato promotore, di cui la Fiom nazionale fa parte, per il lancio di una campagna nazionale per il ritiro della Bolkenstein, che prevede una raccolta di firme capillare e iniziative in tutti i territori. Verrà organizzato un convegno nazionale entro febbraio per valutare il risultato della campagna e per organizzare la manifestazione europea il 19 marzo a Bruxelles, indetta dal Forum sociale europeo (ulteriori informazioni sul sito internet www.fiom.cgil.it). Grazie al nuovo trattato non esiste il diritto al lavoro per i cittadini europei e per il sindacato non è previsto il diritto di sciopero europeo, ma l’auspicio è di arrivare a una lotta generalizzata per affermare l’Europa dei cittadini, delle lavoratrici e dei lavoratori, dei migranti. Fem.
Il Consiglio per l’Occupazione e le Politiche sociali nel suo incontro
del 7 dicembre non ha raggiunto un accordo riguardo alla direttiva
sull’orario di lavoro
dal
corrispondente Eucob@ Jochen Goldbach 9 dicembre 2004 - Le condizioni alle quali dovrebbero essere consentite le opzioni individuali di deroga dell’orario di lavoro settimanale massimo di 48 ore sono state al centro dell’incontro dei ministri per l’Occupazione e gli Affari sociali. Le distanze tra i tre gruppi che sostenevano tre diversi approcci sono rimaste troppo distanti a seguito di una discussione nel Consiglio del 7 dicembre. Paesi come Svezia, Francia, Grecia e Spagna hanno sostenuto un avvicinamento graduale alla possibilità di opzioni individuali. Al contrario, un altro gruppo guidato dalla Gran Bretagna era in favore dello status quo che consente opzioni individuali sottoscritte dai singoli. Far firmare ai dipendenti l’accordo di opzione individuale contemporaneamente al contratto, una pratica diffusa in Gran Bretagna, è stato oggetto di ampie critiche. La percezione comune è che a tali condizioni, le persone si trovino messe sotto pressione per acconsentire alla deroga, limitando in questo modo di fatto la loro libertà di scelta. Un terzo gruppo, compresa la Repubblica ceca, il Lussemburgo, l’Irlanda e altri, ha sostenuto la proposta della Commissione. La Commissione è favorevole a un’opzione individuale flessibile soggetta ad accordi collettivi (ove possibile). Prendendo in considerazione la precedente giurisprudenza della Corte europea di giustizia che calcola il periodo di “reperibilità” come “lavoro”, il Consiglio vorrebbe aggiungere tre definizioni alla direttiva, il “tempo di reperibilità”, la “parte di attesa del tempo di disponibilità”, e “sede di lavoro”. I paesi europei sostengono che in base alle definizioni attualmente applicabili (Direttiva 2003/88/EC) l’applicazione diretta dell’interpretazione della Corte graverebbe eccessivamente sui budget della sanità. Ma la parte di attesa dell’orario di lavoro potrebbe anche essere contata come orario di lavoro, nel caso in cui la legislazione nazionale o un accordo collettivo lo prevedano. La proposta legislativa è soggetta a un voto in Consiglio a maggioranza qualificata. Il Parlamento europeo ha un ruolo di codecisione. |