Fem: dal seminario di Roma un passo avanti per il sindacato unitario europeo
Il 17 e 18 dicembre 1999 si è svolto a Roma, all'Hotel Forum, un seminario promosso dalla Fem, con il contributo dell'Afett (Istituto per la formazione europeo), in collaborazione con i sindacati italiani, per un approfondimento della discussione sulle prospettive della costruzione del Sindacato europeo, dopo il Congresso della Fem a Copenaghen del giugno 1999, in cui i sindacati italiani avevano presentato un proprio documento e un proprio candidato.
Al seminario hanno partecipato segretari generali di tutti i sindacati affiliati, responsabili della contrattazione e uffici internazionali: per Fim, Fiom, Uilm hanno partecipato Patrizia Pitronaci e Antonino Regazzi (Uilm), Cosmano Spagnolo, Mario Sepi e Toni Ferigo (Fim), Claudio Sabattini, Cesare Damiano e Alessandra Mecozzi (Fiom).
Il dibattito della prima giornata è stato introdotto, al mattino, da una relazione dal responsabile dell'Istituto di Studi europeo - Rainer Hoffmann - sulle prospettive del Sindacato europeo e, al pomeriggio, da una relazione del prof. Lorenzo Bordogna, dell'Università di Brescia, che ha messo l'accento in modo particolare sui problemi e gli ostacoli da superare nella costruzione di un sindacato europeo, in rapporto alla nascita dell'Euro e al contesto della globalizzazione.
La seconda giornata si è aperta con una tavola rotonda dei segretari generali della Fiom, della Fgm-Cfdt (Francia), della Fm-Cc.Oo. (Spagna), di Fellesforbundet (Norvegia), della Ccmb (Belgio), del vicepresidente della Ig Metall, introdotta dal Segretario generale della Fem, sui temi più politici e immediati delle scelte da farsi per la costruzione del Sindacato europeo: cambiamenti del lavoro e della struttura produttiva, differenti sistemi di contrattazione e relazioni sindacali, quale modello sociale, iniziative di lotta a livello europeo, ruolo dei Comitati aziendali europei in rapporto alle strategie delle multinazionali.
Il dibattito si è concentrato sulla proposta, sostenuta da italiani e spagnoli, di dare avvio ad un lavoro che porti il prossimo congresso a costituire il sindacato unitario e sulle iniziative immediate che è possibile realizzare per coinvolgere in questo processo lavoratrici e lavoratori, per i quali la dimensione sindacale europea è ancora vissuta come molto lontana.
Si è discusso di cooperazione, coordinamento, o integrazione e la conclusione è stata di continuare la discussione politica anche all'interno dell'organismo decisionale della Fem, l'Esecutivo, verificando anche lì la possibilità di definire un gruppo di lavoro ad alto livello che prepari nuove proposte.
Riguardo al coinvolgimento di lavoratrici e lavoratori, si è discusso su come realizzare passi avanti nelle politiche contrattuali e nelle politiche industriali nei diversi settori: molti si sono soffermati sulla necessità che alla prima iniziativa di lotta europea, che ha coinvolto nello scorso novembre i Cantieri navali in 12 Paesi, venga dato un seguito per arrivare a risultati concreti. Saranno interessati da iniziative europee nell'anno 2000 anche i settori delle Tlc e della Siderurgia.
Altro punto molto dibattuto è stato quello dei Comitati aziendali europei e, raccogliendo elementi emersi dal dibattito, la Fem si è impegnata ad affrontare il problema, potenziando la discussione sulla iniziativa dei Cae, sia sul versante della politica industriale che dei diritti.
E' intervenuto nel dibattito anche il segretario generale della Ces, Emilio Gabaglio, sostenendo la necessità di una accelerazione del processo di costituzione del Sindacato europeo, non sottovalutandone le difficoltà insite nelle grandi differenze esistenti tra i sindacati, ma vedendolo come lo strumento essenziale per una Europa sociale e utile per favorire la costruzione di una Europa politica.
Seminario Fem 17/12/1999
Professore di Sociologia dell'organizzazione presso l'Università di Brescia
Penso di fermare la mia attenzione su due punti molto semplici che mi sembrano importanti per il tema della costruzione di un sindacato europeo, o dell’avvio del processo di costruzione di un sindacato su scala europea. Il primo punto è la necessità di avviare un processo di coordinamento dell’azione sindacale e della contrattazione collettiva dei sindacati nazionali tra loro e, in vista di un futuro piuttosto lontano, della costruzione di un vero sistema europeo di relazioni industriali. Sono stati già fatti passi significativi in questo senso. Il secondo punto su cui mi voglio fermare, sono le difficoltà che i sindacati nazionali incontrano e incontreranno a lungo, sulla strada della costruzione di questo processo di coordinamento. Nel nuovo contesto, i sindacati nazionali hanno bisogno di coordinare le loro attività sindacali, la loro attività di contrattazione collettiva sul piano nazionale con quanto avviene negli altri sindacati, negli altri sistemi di relazioni industriali; questa necessità va però incontro a grosse difficoltà, che è bene avere presenti perché se si è pessimisti sul piano dell’analisi si può essere più efficaci sul piano dell’azione.
Necessità di coordinamento sindacale europeo
Sul primo punto mi fermerò molto poco, per essere stato ampiamente motivo di dibattito, in sedi sindacali, politiche e anche in sedi "scientifiche" e accademiche. Mi fermerò invece un po’ di più sul secondo punto: sulle difficoltà che incontra la costruzione di un coordinamento sovranazionale nei sindacati nazionali.
Il congresso della Ces di Helsinky, sul documento, ha chiaramente parlato di questa esigenza, ha anzi intitolato uno dei documenti che ho visto alla costruzione di un sistema europeo di relazioni industriali enfatizzando l’esigenza di coordinamento e di costruzione di un sindacato europeo. In una conferenza, che voi conoscete meglio di me, dei sindacati della Federazione europea dei metalmeccanici – nel dicembre del 1998 – sulla contrattazione collettiva è stata presa una risoluzione, sulla coordination rule, delle regole di coordinamento della contrattazione collettiva dei sindacati nazionali, eccetera.
Quindi questa è una porta aperta, non credo che ci sia bisogno di convincere nessuno che è indispensabile trovare forme di coordinamento. Anche se però, tra gli studiosi, non ci sono posizioni univoche su questo.
Anche le ragioni che sono alla base di questa esigenza di coordinamento dell’azione sindacale nazionale su un piano sovranazionale sono molto note. Le ragioni sono riconducibili, semplificando con una sintesi estrema, al nuovo contesto economico, politico e istituzionale in cui i sindacati nazionali e l’economia nazionale si trovano a dover operare e confrontarsi. Un nuovo contesto fatto di globalizzazione – per usare una parola ultranota – e di Unione monetaria europea, con le sue istituzioni, patto di stabilità incluso.
L’enorme intensificazione della concorrenza internazionale, sia sul mercato dei prodotti che sul mercato dei capitali sostanzialmente taglia ogni posizione di rendita – così come la chiamerebbero gli economisti – di cui hanno a lungo goduto imprese ed economie nazionali in un contesto di maggior protezione e maggior chiusura alla concorrenza internazionale. Rendite di cui godevano le imprese e le economie, ma di cui godevano anche i sindacati e i lavoratori, che naturalmente partecipavano alla distribuzione di queste rendite. Ora, in genere, si mette l’accento sulla concorrenza intensificata nel mercato dei prodotti, nel mercato delle merci, dei beni e dei servizi e si insiste meno sul mercato dei capitali, che a mio avviso invece è fondamentale. Cioè quello che c’è di nuovo, anche qui semplificando molto, è l’estrema mobilità che i capitali finanziari hanno acquisito, permessa dalla tecnologia, permessa dalle regole che hanno deregolato i mercati finanziari e che hanno favorito l’avvento di nuovi investitori istituzionali, diversi dagli investitori individuali, familiari e singoli – che erano molto più leali negli investimenti che facevano. I nuovi investitori istituzionali sono molto meno leali e molto più sensibili e vulnerabili alla redditività a breve termine dei capitali investiti. Se i capitali investiti sono poco redditizi nel breve termine, questi capitali si muovono rapidamente da un’impresa all’altra, da un mercato all’altro, da un paese all’altro e questo crea grossi problemi di regolazione. Ora queste due caratteristiche – intensificazione della concorrenza sul mercato del prodotto e intensificazione della concorrenza sul mercato dei capitali – pongono, appunto, pressioni poderose sulle imprese e sulle economie. E non soltanto sulle imprese del settore esposto alla concorrenza, ma sulle imprese che hanno bisogno di attrarre i capitali. Per esempio, in tutta Europa, nel settore delle privatizzazioni di ex monopoli pubblici, il peso del capitale finanziario internazionale è poderoso. Questa pressione vuole dire che c’è una forte spinta, un forte incentivo a produrre redditività nel breve termine, e quindi a tagliare e ridurre al minimo tutte le posizioni di rendita di cui godevano economie, imprese e sindacati nazionali nei contesti precedenti, maggiormente protetti.
Globalizzazione e Unione monetaria europea
Quindi ci sono sempre meno rendite da distribuire per l’azione sindacale. A questo scenario che è legato alla globalizzazione, l’unione monetaria e le sue istituzioni – la Banca centrale europea e il patto di stabilità, per citare solo quelle più importanti – aggiungono qualcosa di più, aggiungono non solo una intensificata concorrenza sui mercati europei, tra i paesi europei, tra le economie europee, ma anche l’indebolimento o lo smantellamento dei tradizionali strumenti della politica economica che erano in mano ai governi nazionali per governare la politica economica e le relazioni nazionali. Cosa vuol dire questo smantellamento? Vuole dire che i governi nazionali, le autorità nazionali non hanno più nelle loro mani le leve della politica monetaria, non hanno più nelle loro mani le leve della politica del cambio - e quanto questa fosse importante per un paese come quello in cui ci troviamo è tristemente noto, perché si faceva ampiamente uso di questa leva per recuperare comportamenti poco virtuosi, per recuperare ex post comportamenti poco virtuosi ex ante dentro le imprese e nel sistema di relazioni industriali – e, la costruzione dell’unione monetaria e delle sue istituzioni, pone anche forti limiti alle politiche di bilancio. Altra leva fondamentale della politica economica keynesiana, che era in mano ai governi nazionali, erano le politiche di bilancio; anche quelle sotto le regole strette del patto di stabilità subiscono forti limitazioni e forti vincoli. Questo comporta, come hanno sottolineato molti studiosi – ad esempio il recente premio Nobel per l’economia, Mundell – che la difesa della competitività delle imprese e delle economie nazionali si sposta sempre più a livello micro, a livello delle regole del mercato del lavoro, a livello delle imprese. Un quadro radicalmente diverso da quello dei venti-trent’anni di economia della politica keynesiana, dove c’era in qualche modo una rigidità nelle regole che disciplinano il lavoro e una flessibilità a livello macro, ad esempio nella politica del cambio per molti paesi. Ora, a livello macro non è più flessibile nulla nel contesto europeo e la flessibilità, la competitività, i paesi, le economie e le imprese devono recuperarla e trovarla nel mercato del lavoro, nelle regole del mercato del lavoro, nelle istituzioni del mercato del lavoro, a livello micro. E’ anche vero, non lo voglio nascondere, che non è soltanto sul costo del lavoro e sulla produttività del lavoro all’interno delle imprese che si gioca la competitività delle imprese e delle economie nazionali, ma sicuramente c’è anche – lo ricordo, ma è ovvio – una produttività di sistema che si gioca sulla efficacia dei sistemi informativi, che si gioca sull’efficacia delle infrastrutture tecnologiche di comunicazione, che si gioca sull’efficacia del sistema creditizio, ecc. Questo non toglie, per quanto ci riguarda, che il problema del lavoro, del costo del lavoro, delle regole del lavoro e delle istituzioni del mercato del lavoro, diventano oggetto di concorrenza tra imprese e tra paesi.
Come ha detto un eminente studioso, Wolfgang Streek, il nuovo contesto istituzionale dell’Unione monetaria europea ha aperto una fase di competizione tra i regimi di relazioni industriali e di competizione tra i regimi di welfare; le imprese e i paesi concorrono non più soltanto sui prodotti ma sulle regole che disciplinano in senso lato il lavoro usato per produrre quei beni, quelle merci e quei servizi.
Per dirla in un linguaggio vicino all’esperienza sindacale, questo contesto nuovo, fatto di globalizzazione più Unione monetaria europea, in qualche modo – con un’immagine forse un po’ forzata – porta indietro e risospinge i sindacati nazionali e i sistemi di relazioni industriali nazionali in una fase prepluralista, in una specie di open shop su scala continentale, in cui non solo le merci ma i lavoratori e i sistemi di regole che disciplinano il mercato del lavoro sono messi in concorrenza tra di loro. Per dirla ancora con le parole di un altro studioso dei primi decenni del secolo negli Stati Uniti, John Commons, se prima si poteva dire – come lui sosteneva – che il compito fondamentale dell’azione sindacale è to take wages out of competition, tirare i salari e il lavoro e le regole del lavoro fuori dalla concorrenza, ciò che succede con il nuovo sistema e con il nuovo contesto di globalizzazione e di unione monetaria è che prepotentemente, il lavoro, il costo del lavoro, le regole del lavoro, i regimi di relazioni industriali sono ributtati dentro la concorrenza, sono riportati dentro una concorrenza di mercato e competono gli uni con gli altri. E’ come, per usare un’altra immagine, se i sindacati nazionali fossero messi nelle condizioni di Sisifo, cioè che dopo essere arrivati in cima alla montagna – dopo decenni e decenni di fatiche per la costruzione di un sistema di relazioni industriali nazionali, che all’interno dei singoli paesi tirava fuori il lavoro e le regole del lavoro dalla concorrenza – d’improvviso sono stati ributtati giù e si ritrovano a iniziare il lavoro da capo. Si ritrovano con le condizioni del lavoro, con le regole del lavoro di nuovo nella concorrenza, una concorrenza che non si gioca più sul piano nazionale – naturalmente – ma sul piano europeo e sul piano globale.
E naturalmente, in questo gioco un po’ drammatico e un po’ tragico, chi soffre di più è chi aveva faticato di più nella costruzione delle protezioni e dei sistemi di relazioni industriali nazionali; e chi aveva faticato di più, più si sente minacciato dalla nuova situazione.
Ora da questi pochi cenni, credo che emergano in maniera molto chiara cose note e stranote, le ragioni fondamentali che rendono così importante un’attività di coordinamento dell’azione sindacale tra i sindacati nazionali. Perché è di vitale importanza per loro coordinare la propria attività per tirare fuori, di nuovo, il lavoro e le regole del lavoro dalla concorrenza in cui sono stati ributtati. Importanza questa che non esiste invece per le imprese, com’è noto. Le imprese, nei loro rapporti con i lavoratori e con i sindacati dei lavoratori sono avvantaggiate, sono strutturalmente rafforzate dalla situazione nuova che si è creata, non hanno bisogno di creare un coordinamento fra di loro, anzi la nuova situazione crea e moltiplica per le imprese le possibilità di uscita dalle relazioni industriali, e crea per le imprese la possibilità oggettiva di far giocare l’uno contro l’altro i sindacati nazionali, per ottenere le condizioni più favorevoli. Di qui dunque, per finire sul primo punto, l’esigenza di un coordinamento dell’azione sindacale dei sindacati nazionali. Azione e coordinamento in primo luogo della contrattazione collettiva, naturalmente.
Gli ostacoli alla costruzione di un sindacato europeo
E vengo così al secondo punto della mia presentazione: quanto difficile sia raggiungere dei risultati importanti sulla strada del coordinamento delle azioni sindacati nazionali e della contrattazione collettiva. Anche se non nego, che ci sono significativi risultati acquisiti sulla strada del coordinamento.
Ora io voglio cercare di mettere in luce i problemi su questo punto e forse andrò giù con la mano pesante nel farlo, perché sono convinto – come diceva un grande intellettuale del nostro paese – che è meglio che ragione e volontà si dividano i compiti: alla ragione spetta l’analisi e il pessimismo dell’analisi e alla volontà spetta l’ottimismo dell’azione. Siccome non agisco mi attengo all’analisi e al pessimismo dell’analisi. Vengo al punto: le difficoltà di un’azione di coordinamento della contrattazione collettiva e dell’iniziativa sindacale nazionale, semplificando anche qui con una sintesi estrema. Credo che le difficoltà nascano dalle diversità delle situazioni nazionali, diversità nelle regole ma non solo, dalla diversità degli interessi nazionali e dalla diversità, quindi, degli interessi dei sindacati nazionali. Diversità che possiamo trovare se con la memoria andiamo a guardare le vicende degli ultimi anni, a bizzeffe, diversità di interessi che nei casi estremi possono arrivare a mettere l’una contro l’altra la solidarietà corporativa – io la chiamo così – nazionale, contro la solidarietà di classe trasnazionale e sovranazionale. C’è una tale diversità di interessi degli attori in gioco, in questo nuovo gioco della globalizzazione dell’Unione monetaria europea, che in casi estremi si può toccare con mano un conflitto, un contrasto che non è facile da superare tra una solidarietà nazionale "corporativa" – quindi una solidarietà sul piano nazionale tra gli interessi dei lavoratori e dei loro sindacati e gli interessi delle imprese nazionali – contro una solidarietà di classe sovranazionale o transnazionale.
Faccio un paio di esempi, tanto per renderci conto di qual è la natura concreta dei problemi in gioco. Prendiamo un esempio che il paese che vi ospita conosce abbastanza bene, e che è forse noto anche ai presenti. Prendiamo l’esempio del Mezzogiorno d’Italia. Nelle regioni meridionali del nostro paese c’è un tasso di disoccupazione che è più del doppio della media del paese, e che per alcune categorie – per i giovani in modo particolare, e per le donne – arriva a tassi incredibili del 30-40%. Ora c’è un disperato bisogno, riconosciuto da tutti, dalle forze politiche, dai sindacati e dai governi, di creare in quelle regioni nuova occupazione, di creare nuove imprese, di attirare capitali dall’interno del paese ma anche da altri paesi, e investimenti che producono nuove imprese, nuova occupazione eccetera. Ora è sicuro che il costo del lavoro e le regole del lavoro non sono l’unica variabile critica che decide se un’impresa – italiana del Nord o estera – sposta i propri investimenti in quelle regioni del meridione. Ci sono molti altri fattori: problemi di sicurezza, di infrastrutture eccetera, ma non c’è neanche dubbio che il costo del lavoro e le regole del lavoro sono una delle variabili critiche della decisione.
Cosa deve fare un sindacato locale o nazionale? Qui il discorso non cambia. Deve rispondere, essere responsive, essere sensibile agli interessi locali – in questo caso non esattamente gli interessi dei suoi membri attuali, dei suoi iscritti attuali, ma gli interessi dei membri potenziali futuri che sono disoccupati oggi e che potranno entrare nel mondo del lavoro domani e iscriversi al sindacato – e quindi accettare o concordare con le imprese locali o nazionali o internazionali, che decidono di andare a investire lì, sconti – uso questo termine per semplificare – sul costo del lavoro e sulle regole del lavoro? Questo è il primo corno del dilemma. E non ha grande importanza ai fini del discorso che sto facendo, cosa che ha importanza nel dibattito sindacale interno nostro italiano, se questi sconti sono sugli standard minimi generali - quindi una rottura delle regole – o sono deroghe contrattate di volta in volta agli standard che restano. Questo è importante per noi discuterlo, ma in questo discorso che sto facendo non ha nessun rilievo. Il problema è: il sindacato risponde agli interessi locali e concede qualche sconto sulle regole e sul costo del lavoro, in vista di attrarre investimenti, di attrarre capitali, creare occupazione eccetera, oppure deve rispondere, deve essere responsive alla solidarietà di classe internazionale e quindi a non fare dell’undercutting sui salari.
Una solidarietà di classe internazionale che richiede, naturalmente – anche qui semplificando molto e al limite – condizioni di lavoro uguali per tutti, naturalmente sul piano sovranazionale. Questo è un problema drammatico, un vero dilemma che i sindacati italiani hanno di fronte. Ma se li troverebbero di fronte anche altri sindacati nazionali che si trovassero in condizioni simili e, badate bene, anche i governi nazionali, non solo i sindacati. Non a caso il nostro governo più volte si è trovato a confrontarsi in maniera vivace – diciamo – con le autorità comunitarie, per convincerle della legittimità di tutta una serie di misure sul lavoro in quelle aree particolarmente svantaggiate, che legittimamente alla luce degli occhi delle autorità europee erano una minaccia alle regole della concorrenza; erano misure distorsive della concorrenza.
Situazioni come questa, così note nel nostro paese, si moltiplicano in tutta Europa, e si moltiplicano enormemente nel nuovo contesto. Prendo un altro caso, anche questo credo ricorrente e noto, di una multinazionale che abbia filiali in più paesi europei e magari anche extraeuropei e che debba fare delle ristrutturazioni per soddisfare quelle esigenze di redditività immediata a cui è sottoposto nel nuovo contesto della concorrenza internazionale e della liberalizzazione dei mercati finanziari. Ora, non è affatto irrealistico, anzi credo che tutti abbiano esperienza, chi diretta chi per averlo letto sul giornale e nei libri di testo, che queste aziende cerchino di mettere in competizione una filiale nazionale con l’altra e i sistemi di relazioni industriali di una filiale nazionale con l’altra, per strappare concessioni o per imporre quelle che si chiamano le best practices - comportamenti virtuosi di lavoro e di relazioni industriali -, sotto la minaccia di spostare investimenti o promesse di investimenti da una filiale all’altra, da un paese all’altro. Anche qui cosa devono fare i sindacati locali nazionali? Devono essere responsive, devono rispondere agli interessi dei membri locali di ciascuna filiale nazionale o alla solidarietà di classe sovranazionale. Non è un dilemma semplice da sciogliere Si dirà anche "ma sono state creati appositamente, i consigli aziendali europei, the european workscouncils, esattamente per affrontare questi problemi". Ora non voglio essere più pessimista del necessario, però sappiamo anche che spesso il coordinamento permesso da questi istituti così importanti per i sindacati e per i lavoratori, in situazioni di questo genere – lo scambio di informazioni eccetera – è stato usato esattamente per finalità di concorrenza tra le filiali nazionali e non di cooperazione tra i lavoratori delle varie sedi nazionali; ed è stato usato esattamente per logiche di concession bargaining, di fare concessioni maggiori di quelle che avrebbe fatto una filiale di un altro paese, al fine di trattenere gli investimenti o le promesse di investimenti del posto interessato invece che in altri posti. Il problema non è così semplice, quindi, ed è ben presente.
Dentro e oltre la diversità di interessi
Questi due esempi mostrano che i problemi di coordinamento nascono dalla diversità, dalla eterogeneità delle situazioni, eterogenità e diversità tra paesi e aree con alti salari e con bassi salari, tra paesi e aree con alti standard di lavoro e welfare e con bassi standard di lavoro e di welfare. Situazioni che creano anche una forte situazione oggettivamente diversa, che creano una forte diversità di interessi, di interessi che devono essere rappresentati dai sindacati. Ora, sempre nella storia dei movimenti sindacali nazionali, la eterogeneità degli interessi da rappresentare ha costituito un grosso problema. C’è stata una sola struttura sindacale che è stata esente da questi problemi, ed è la struttura e l’esperienza dei sindacati di mestiere delle Craft unions, che erano note agli studiosi e agli storici per essere il regno della democrazia, la democrazia degli uguali, il regno della democrazia diretta, il regno della non frattura degli interessi dei rappresentanti e interessi dei rappresentati. Era un po’ l’età dell’oro del sindacalismo, un’età dell’oro e una democrazia tra eguali che aveva come prezzo evidente l’esclusione di tutti quelli che uguali non erano, cioè di tutti quelli che non avevano in mano il mestiere. Quella democrazia degli eletti stava in piedi esattamente perché teneva fuori dalla porta tutti quelli che uguali non erano. Non c’era un problema di diversità di interessi da rappresentare, bastava al limite fare la lista e la somma di tutti gli interessi e andare a fare le rivendicazioni: erano tutti uguali.
Questa situazione, questa sorta di età dell’oro, è finita non appena i sindacati nazionali hanno cercato di costruire modelli diversi di sindacalismo: sono passati ai sindacati industriali e poi a quelli confederali; in quel caso man mano si sale verso aggregazioni più ampie degli interessi dei lavoratori da rappresentare, il problema dell’eterogeneità, della diversità degli interessi diventa più grosso. In cosa consiste il problema? Consiste nel fatto che quanti più interessi si rappresentano, quanto più numericamente ma quanto più diversi qualitativamente sono gli interessi da rappresentare, tanto più indispensabile diventa fare una sintesi. Non si può rappresentare tutti e non si può rappresentare tutti con la stessa intensità. Non è possibile fare una lista chilometrica degli interessi da rappresentare di tutti i lavoratori europei, occorre fare una sintesi, un’interpretazione, una selezione, occorre premiare qualcuno e penalizzare altri, occorre fare una priorità nel tempo e dire "questi interessi ora, questi altri domani", occorre fare una gerarchia e in tutti questi lavori di interpretazione, di selezione e gerarchizzazione degli interessi e delle domande dei lavoratori, c’è qualche interesse che verrà penalizzato e sacrificato. In genere, nelle esperienze nazionali, nella storia dei sindacati nazionali, gli interessi che sono penalizzati sono quelli più forti sul mercato del lavoro. Sono loro, non i deboli. I deboli non hanno scelta, non hanno altra scelta che affidarsi a una rappresentanza collettiva dei loro interessi; quelli che sono penalizzati sono i forti, le posizioni forti sul mercato del lavoro che non a caso, spesso, si tirano fuori dalla rappresentanza collettiva generale per fare il proprio, per andare per conto loro e perseguire i loro interessi specifici. Gli italiani conoscono bene, forse anche qualche straniero conosce altrettanto bene, l’esperienza dei Cobas. L’esperienza dei Cobas nel nostro paese spesso si legge in questi termini: sono le categorie forti che si sfidano, non le categorie deboli; perché hanno le risorse per giocare per conto proprio.
La natura dei problemi che i sindacati europei nazionali hanno nella costruzione del coordinamento sovranazionale della loro azione, e nella costruzione di un sindacato europeo è esattamente, credo, quella che ho prima detto, è quella che hanno trovato i sindacati nazionali quando hanno dovuto costruire sindacati industriali e sindacati confederali: hanno dovuto affrontare e risolvere il problema della diversità degli interessi da rappresentare. Ora possono essere diverse le contingenze storiche, possono essere diverse le storie dei singoli paesi, possono essere diverse – e sicuramente lo sono ed è un problema – anche le regole dei singoli paesi, ma all’osso la differenza è di interessi che difficilmente può essere rappresentata; per essere rappresentata richiede il superamento di difficoltà molto rilevanti.
Questi problemi da superare sono enormi sul piano nazionale, nell’esperienza nazionale il superamento di tali problemi ha richiesto decenni e decenni. Non è una cosa che si può fare da un anno all’altro: superare queste difficoltà è un processo molto lungo. Ma è anche vero, però, che l’esperienza nazionale ci ha insegnato che questi problemi possono essere affrontati – e qui viene l’ottimismo della volontà – e risolti. Sono naturalmente sempre presenti, possono aprire dei varchi – le esperienze italiana e francese mostrano come questi varchi sono percorribili e possono creare grosse difficoltà a una rappresentanza generale degli interessi – ma tuttavia queste esperienze hanno mostrato che si può avere successo nella costruzione di forme di coordinamento sovrasettoriali e, nel nostro caso, sovranazionale degli interessi.
La storia sarebbe lunghissima se volessimo analizzare qualche caso nazionale e come questi problemi sono stati affrontati e risolti, ma tutto questo ci porterebbe troppo lontano. I fattori sono molteplici e per concludere io voglio richiamare qui due punti, che mi sembrano importanti per l’attuale dibattito tra i sindacati europei. Il primo punto è questo: queste difficoltà della differenza degli interessi, di eterogeneità degli interessi sono state risolte sul piano nazionale - ora qui sono consapevole di chiudermi un po’ in un circolo vizioso, ma lo dico ugualmente perché è importante – tramite la costruzione di un’organizzazione forte e autorevole; un’organizzazione forte e autorevole vuole dire un’organizzazione che ha poteri di controllo e sanzione sui comportamenti dei lavoratori, nel caso nazionale, e dei sindacati ora affiliati all’organizzazione stessa. Ora il circolo vizioso dov’è? E’ che costruire un sindacato forte e autorevole richiede esattamente di superare tutte le difficoltà che ho detto prima. Questo però con il processo storico può essere fatto. L'esperienza storica dimostra che questo circolo vizioso può essere sciolto e superato. Che però la forza e l’autorevolezza dell’organizzazione sia essenziale può essere mostrato anche, credo, dall’esperienza di coordinamento che è fatta attualmente da alcuni sindacati europei. Prendiamo, ad esempio, l’esperienza che voi conoscete meglio di me: quella del coordinamento e della contrattazione collettiva in seno alla Federazione europea dei metalmeccanici, alla nota coordination rule che è stata approvata nella Conferenza del dicembre del 1998. Domanda: se un sindacato nazionale non si attiene a questa regola, che cosa succede? E’ prevista una sanzione? C’è qualcuno che ha l’autorità di comminare una sanzione? Senza questo la spinta al tirarsi fuori, al fare il free raider è troppo forte, sempre legittima sotto situazioni di emergenza, sotto pressioni molto forti, ma per il rispetto della regola serve qualcuno che abbia l’autorità di comminare sanzioni.
Un’organizzazione forte di questo genere non so come si costruisce, lo sapete credo meglio voi di me. Un’organizzazione forte è essenziale per superare questo problema, deve andare oltre le differenze – naturalmente, ma nello stesso tempo non può essere un’organizzazione che ignora le differenze; non può far finta che le differenze non esistono. Perché se fa finta che le differenze non esistono, queste – in organizzazioni democratiche, in associazioni volontarie e democratiche come tutti i sindacati del mondo libero sono – queste differenze ritorneranno sempre fuori, saranno sempre buttate fuori dalla porta e ritorneranno dentro dalla finestra. Quindi un’organizzazione forte deve avere in sé i meccanismi democratici di legittimazione dell’autorità stessa, perché soltanto attraverso questa legittimazione delle differenze, questa sintesi delle differenze può fare leva anche su quelle risorse fondamentali per ogni organizzazione volontaria, che sono l’identità e la militanza. Che non si estraggono con la forza.
Europa sociale e istituzioni democratiche
Quindi questo è un primo terreno su cui mi sembra ci sia difficoltà di coordinamento dell’attività dei sindacati nazionali. C’è bisogno di un’organizzazione forte, sovranazionale, che abbia autorità. Naturalmente un’organizzazione forte non può che richiedere in qualche misura un cedimento di sovranità, una cessione di sovranità da parte dei sindacati nazionali; perché altrimenti i sindacati europei riproducono esattamente la stessa logica di rapporti intergovernativi che c’è nella costruzione istituzionale europea, dove contano i rapporti di forza. E naturalmente questa parziale cessione di sovranità da parte dei sindacati nazionali a una struttura sovranazionale è tanto più dolorosa quanto più forte il sindacato nazionale. Di nuovo, il sindacato debole non ci rimette molto a rimettere la propria autorità a un sindacato sovranazionale, il sindacato forte invece ci rimette un sacco, se non altro ci rimette tutto il tempo che ha impiegato per costruire questa sua forza.
Secondo, mi sembra un punto importante da sottolineare, dell’esperienza storica dei sindacati nazionali europei, ed è questo: in questo processo di costruzione, i sindacati nazionali sono stati aiutati in qualche modo dal ruolo delle istituzioni pubbliche. Quello che in parole povere voglio dire è che la costruzione di un sindacato nazionale, come ci mostra l’esperienza storica, è stata avvantaggiata dall’esistenza di un potere politico nazionale forte, da uno stato nazionale forte, dove forte vuole dire come minimo avere l’effettiva capacità di accentramento delle risorse e di ridistribuzione delle risorse. Risorse economiche ma non solo: risorse di potere, risorse di legittimazione; i sindacati si sono addentrati in esperienze di concertazione, che sono pericolose per la coesione interna del sindacato; perché in esperienze di concertazione che sono volte al perseguimento di obiettivi anche di competitività nazionale, di contenimento dell’inflazione eccetera, quello che il sindacato porta è un po’ di legittimazione e una moderazione delle rivendicazioni. Questo porta il sindacato. Poi ottiene politiche a favore dell’occupazione, dello sviluppo, dell’ingresso nell’Unione monetaria europea eccetera. Ma porta moderazione. Le due risorse fondamentali che porta sono legittimazione e moderazione rivendicativa. Moderazione rivendicativa va a scapito soprattutto delle parti forti del mercato del lavoro, che non a caso sono i più ostili, i maggiori nemici delle politiche di concertazione stessa, perché sono quelli che ci rimettono di più. Le politiche di concertazione sono aperte al dissenso della base dei sindacati. Da che mondo è mondo è così, da quando le politiche di concertazione sono nate è così. In questo contenimento del dissenso interno, i sindacati confederali dei paesi che hanno fatto questa esperienza, sono stati aiutati molto dalle risorse che venivano dal centro: dalle istituzioni politiche; risorse in termini di potere, di legittimazione a partecipare alla formulazione della politica economica e sociale nazionale, risorse in termini di prestigio – prestigio personale, anche questo conta – e anche risorse materiali: difesa del potere d’acquisto o minore intaccamento del potere d’acquisto, del potere reale delle retribuzioni eccetera. Ora, tutto questo è stato possibile nella storia degli ultimi 10-20 anni nelle politiche di concertazione ma nella storia di costruzione dei sindacati nazionali, perché c’era un potere politico nazionale forte, in grado di accentrare e redistribuire risorse. Questo manca sul piano europeo, quindi mi sembra fondamentale che i sindacati nazionali e quelli europei siano fortemente interessati nella costruzione della polity europea, del sistema politico istituzionale europeo. Perché un rafforzamento delle istituzioni democratiche della comunità è fondamentale ed è di vitale importanza per il sindacato, anche per l’attività del sindacato e per superare quei problemi di coesione interna su cui ho richiamato l’attenzione. Ripeto: rafforzamento delle istituzioni democratiche della comunità, perché per fortuna istituzioni forti nella comunità ci sono - come la Banca centrale europea -, ma devono essere affiancate da forti istituzioni democratiche, che abbiano il potere di accentrare e ridistribuire risorse. Così come fanno le autorità nazionali sul piano nazionale. Per esempio – e chiudo con questo inciso – un problema che si pone qui è la mancanza di un vero bilancio europeo: il bilancio comunitario è tra l’1,3-1,5-1,6% del prodotto interno lordo dei paesi membri, appartenenti alla Comunità europea. Lì non c’è niente da distribuire. Pur importanti come sono per alcuni paesi le risorse che vengono distribuite, ma non sono niente rispetto all’autorità che avevano i governi nazionali. Ora questo pone problemi poderosi sul piano politico. Per come è avvenuta finora la costruzione della polity europea. Voglio però dire che anche dal punto di vista molto parziale da cui abbiamo oggi guardato alla costruzione europea, il punto di vista della costruzione di un sindacato europeo, i problemi istituzionali dell’architettura comunitaria, dell’edificio comunitario, sono di grande importanza.