"Il declino? Non ci riguarda. Il comparto delle macchine utensili"

 Articolo di Gianni Ferrante pubblicato su "Rassegna sindacale" n. 30 del 4-10 agosto 2005

 

Mentre continuano a fioccare notizie negative sullo stato dell’industria italiana (la più recente è quella relativa alla perdita di 6mila occupati nella grande impresa tra il maggio 2005 e maggio 2004), e mentre il coro dei cantori dei malanni strutturali e congiunturali del sistema delle imprese si è allargato oltre misura e quello di coloro che propongono rimedi realistici è fatto di poche voci frammentate, ha senso distinguersi per analizzare comparti che offrono, seppure in termini relativi, risultati positivi? Crediamo di si e speriamo di dimostrarlo.

Il comparto in questione è quello delle Macchine utensili, collocato entro l’industria metalmeccanica, e la pubblicazione recente del Rapporto di settore (a cura dell’Ucimu) ce ne offre gli argomenti.

Si tratta di un comparto che occupa poco meno di 30mila addetti (quello più ampio dei Beni strumentali arriva a 159mila addetti), le cui aziende sono distribuite per oltre il 90% fra 4 regioni (Piemonte, Lombardia, Triveneto, Emilia-Romagna) e le aziende che ne fanno parte per quasi il 60% è costituito da strutture con meno di 50 addetti (l’80% ha meno di 100 addetti!).

Fin qui siamo nella norma. Le cose cambiano se ci ricordiamo che si tratta di un comparto specializzato in beni d’investimento e d’eccellenza, che funziona come una cartina di tornasole nei confronti della capacità delle imprese di investire in tecnologie produttive, senza la cui continua innovazione è dura parlare di competitività. Non solo: stiamo parlando di un comparto che ci vede terzi tra i produttori mondiali (dopo Giappone e Germania), con il 10,4% della produzione, pari a 36 mld di euro (+8,5% nel 2004 rispetto al 2003).

Uun comparto fortemente rivolto alle esportazioni (oltre il 50% della produzione), che nel 2004 sono cresciute del 12, 4%, raggiungendo nel II trimestre un livello tra i più alti dal ’99 a oggi. A questo dato positivo si contrappone quello delle consegne sul mercato interno diminuite del 5,7%(e il calo sul mercato domestico è proseguito nei primi due trimestri del 2005), anche se va notato che nel 2004 le importazioni sul mercato nazionale sono cresciute del 5%. Nel complesso, il saldo della bilancia commerciale (cresciuto del 50% nel 2003), ha fatto registrare un ulteriore miglioramento nel 2004 (+18,8%). Si tratta di un risultato non secondario, che ha fornito un significativo contributo all’insieme della bilancia commerciale manifatturiera.

Affiorano così pregi e contrasti emblematici. Da un lato una buona presenza sui mercati esteri, distribuita in modo equilibrato. Il 51,3% delle esportazioni è verso i paesi dell’Unione europea; il secondo mercato di sbocco è quello asiatico (cresce la Cina e in particolare il Giappone); C’è in terza posizione l’Europa extra Ue (in primis la Russia , poi Turchia e Svizzera) e poi le esportazioni verso l due Americhe. Nell’insieme l’Italia è il terzo Paese esportatore (9,8%) dopo Germania e Giappone.

Dall’altro lato una dimensione media d’impresa poco al di sopra dei 20 addetti; “una diffusa adesione degli imprenditori a una concezione tradizionale e, tendenzialmente, chiusa dell’impresa e dei suoi percorsi di sviluppo, come ricorda una recente ricerca di Federmacchine. Incontrano diffidenza le ipotesi di aggregazione, collaborazione con entità esterne, apertura al capitale di terzi, apporto di manager estranei alla famiglia.

Ancora una volta – se ce ne fosse ancora bisogno – è possibile serenamente constatare che mentre nel comparto i costi per la manodopera sono aumentati nel 2004 dell’1,3% e quelli per le materie prime del 20,1% (Confindustria, Rapporto settori, luglio ’05), i problemi veri risiedono – come ricorda lo stesso Presidente di Ucimu, Tacchella - nel fatto che l’Italia non investe e ciò non preoccupa le autorità di governo. In secondo luogo, anche se le imprese del comparto stanno facendo il loro dovere in termini di presenza sui mercati esteri, troppo poco si interviene sui nodi peraltro da tempo individuati: 1) internazionalizzazione delle imprese, grazie anche a più efficace apporto delle istituzioni (Ice, Sace, ecc.); 2) un maggior grado di innovazione attraverso ricerca e sviluppo; 3) rafforzamento organizzativo e finanziario (anche attraverso una maggiore attività di formazione professionale); 4) adeguamento degli assetti proprietari, conferendo anche maggiore autonomia ai manager.