L'Italia a rischio


Articolo di Gianni Ferrante pubblicato su "Rassegna sindacale" n. 28 de l21-27 luglio 2005

 

Quale quadro ci consegna l’ultimo fascicolo dell’“Osservatorio sull’industria metalmeccanica” (n.15, giugno ’05), periodico a cura dell’Ufficio economico della Fiom-Cgil? Un’Italia in recessione, con un Pil che nel 2005 non sarà in grado di replicare i risultati già mediocri del 2004 (1,0%), mentre le economie europee hanno imboccato la strada della crescita e il commercio internazionale continua la sua corsa. Il pil italiano nel 2004 è stato meno di un quarto di quelli Usa e giapponese.

Un problema specifico italiano dunque, tant’è che secondo l’Unione europea se dieci anni fa il reddito pro capite italiano era pari al 104,0% della media europea (a 15), oggi questa percentuale è scesa al 97,0% e punta verso un’ulteriore contrazione.

Tra le ragioni fondamentali della perdita di competitività delle imprese italiane non ci sono né la sopravalutazione dell’euro, né gli effetti della concorrenza cinese e delle altre economie emergenti. Ha pesato la scarsa propensione del sistema industriale a reagire ai processi di globalizzazione dell’economia, nonostante una prolungata fase di moderazione salariale. E’ sempre l’Unione europea a ricordare che le retribuzioni reali italiane tra il ’95 e il 2004 sono cresciute appena dello 0,2%, lontano dal 16,1% della Germania e dal 10,5% della Francia.

Allora si guardi pure alla bassa dinamica della produttività, non per puntare il dito su una crescita salariale eccessiva che non c’è stata, ma per tenere presente che il tipo di specializzazione produttiva italiana è caratterizzato dalla predominanza di settori che registrano una bassa dinamica della domanda nazionale e internazionale.

E – come ha ricordato Banca d’Italia nella sua ultima Relazione – “in assenza di un’espansione vigorosa dell’attività produttiva si sono sviluppate tipologie di lavoro meno stabili e con livelli retributivi inferiori”…”è cresciuto il numero dei rapporti a tempo determinato”…”si è allargato il divario tra salari d’ingresso e quelli medi”…”è stato contenuto il costo del lavoro per dipendente, ma l’immissione di nuovi lavoratori in attività marginali ha inciso sulla crescita della produttività”.

In tema di retribuzioni il dato che emerge è che in Italia, a differenza di quanto avviene in altri paesi, il tasso di crescita delle retribuzioni nominali copre solo la crescita dei prezzi. Infatti tra il ’95 e il 2004 le retribuzioni orarie in Italia sono cresciute appena dell’1,7%, contro il 5,7% degli –Usa, il 26,2% di Gb, il 9,0 della Germania. E’ quindi il persistere di un differenziale d’inflazione tra l’Italia e gli altri paesi a produrre effetti negativi a catena e non si può pretendere che i lavoratori dipendenti si accontentino delle retribuzioni nominali senza guardare al reale potere d’acquisto. Né si possono rivendicare i vincoli della politica dei redditi nel momento in cui il governo da solo sceglie di adottare, come fa almeno dal 2000, indici d’inflazione programmata inattendibili (vedi figura).

Nel settore metalmeccanico gli indici del valore aggiunto (a prezzi ’95) e quello della produzione industriale hanno fatto registrar nel 2004 lievi miglioramenti rispetto ai due pesanti anni precedenti (con qualche peggioramento nel I trim. del 2005). A livello di singoli comparti due comparti crescono (“Produzione di metallo e prodotti in metallo” e “Macchine e apparecchi meccanici”) e due registrano contrazioni (“Macchine elettriche” e “Mezzi di trasporto”).

Le retribuzioni contrattuali nel 2004 hanno fatto registrare una crescita leggermente superiore a quella dell’inflazione, ma non è stato così nel 2003. E se si distingue tra impiegati e operai si vede come negli ultimi anni questi ultimi non siano neanche riusciti a recuperare l’inflazione. Una situazione confermata dalle retribuzioni lorde nelle grandi imprese: nel periodo 2000-’04 quelle operaie crescono dell’8,4% contro il 10,5% dell’inflazione e ciò nonostante l’aumento registrato nell’ultimo anno. Se si tiene poi conto che le retribuzioni di fatto contengono oltre gli aumenti contrattuali, anche la contrattazione di secondo livello e gli aumenti di produttività, si può valutare che tipo di penalizzazione rappresenti un aumento dell’1,4% per gli impiegati e un risultato al di sotto dell’inflazione per gli operai.