Quel che Federmeccanica non può non sapere.
Dopo il secondo incontro tra le parti per il rinnovo del biennio economico dei metalmeccanici si confermano le forti resistenze di Federmeccanica a recepire le richieste rivendicative per avanzare verso una soluzione contrattuale. Sia che si tratti di pre-tattica o di una sostanziale reticenza, questa chiusura influenzerà i temi dello sciopero generale della categoria indetto da Fim, Fiom e Uilm per il prossimo 15 aprile. Lo sciopero ha come oggetto principale la richiesta, indirizzata a governo e imprenditori, di un avvio a breve di misure di politica industriale finalizzate a rilanciare un settore da tempo in difficoltà ma essenziale per il futuro del Paese. Alla base dello sciopero vi è la convinzione che non ci si possa ancora attardare a puntare il dito su salari e costo del lavoro come cause dei ritardi del settore metalmeccanico – è ormai conclamato che la moderazione salariale ha caratterizzato l’ultimo decennio – ma che vadano innanzitutto individuate risorse e soluzioni per rafforzare il grado di competitività del sistema industriale italiano. A Federmeccanica è stato fatto presente che la richiesta salariale fuoriusciva dagli schemi del Protocollo del 23 luglio. Di questo non ci sembra sia possibile sorprendersi, e non solo perché questo governo ha voluto stabilire unilateralmente i parametri per l’inflazione programmata. Dal 2000 in avanti si sono sommati fatti che non possono essere non considerati. 1) Negli anni tra il 2000 e il 2004 l’inflazione programmata si è regolarmente posizionata almeno un punto sopra l’inflazione effettiva. L’incapacità di previsione del governo si è tradotta in un ritardato e minore recupero del potere d’acquisto dei lavoratori (e quindi minori e ritardate erogazioni da parte delle imprese). 2) A seguito dell’introduzione dell’euro si è aperto in questo Paese un conflitto mai avvenuto prima nella capacità degli organi preposti di rappresentare correttamente la dinamica dei prezzi. Non si può sottovalutare il fatto che l’inflazione rappresenta un elemento iniquo nella redistribuzione dei redditi: permette infatti di trasferire potere d’acquisto e redditi da coloro che hanno retribuzioni fisse a coloro che possono vedere aumentati i propri redditi attraverso un intervento diretto sui prezzi. Il dibattito degli ultimi due anni sull’inflazione percepita, sulla composizione del paniere, sul peso che i singoli prodotti assumono all’interno del paniere, sui metodi di rilevazione dei prezzi, sulla crescita dei prezzi tra i beni di cui fanno frequente uso i lavoratori dipendenti, non è stato solo un dibattito culturale da cui sia possibile chiamarsi fuori. Si tratta di problemi sostanziali che vanno ben aldilà delle differenze minime tra l’indice dei prezzi al consumo per famiglie di operai e impiegati (Foi), solitamente usato nei rinnovi contrattuali, e l’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività (Nic), peraltro usato a livello nazionale per misurare il tasso d’inflazione (e nei Dpef). 3) Gli effetti negli ultimi anni di un’inflazione più alta in Italia rispetto ai principali paesi industrializzati fanno tra l’altro si che l’aumento delle retribuzioni nominali da noi sia dato quasi per intero dal recupero dell’inflazione. Mentre le retribuzioni orarie reali in Italia sono cresciute appena dell’1,4% (1995-2004), negli Usa sono aumentate del 5,3%, dell’8,8% in Germania, del 13,1% in Francia e del 25,6 nel Regno Unito. Un altro capitolo enfatizzato da Federmeccanica è quello relativo al costo del lavoro per unità di prodotto (Clup). Anche qui se si va a distinguere tra Clup nominale e reale nel manifatturiero su un periodo lungo (1995-2004) e quindi significativo, si può vedere che un certa crescita del Clup nominale è addebitabile quasi per intero a un nostro maggior tasso d’inflazione rispetto ai paesi concorrenti e si può vedere che il Clup reale nel periodo considerato diminuisce del 4%, in linea con gli altri paesi. La performance del Clup negli ultimi anni non è attribuibile a una crescita del costo del lavoro, che non si rileva, ma semmai a una relativa crescita dell’occupazione (spesso precaria e dequalificata), e soprattutto al forte rallentamento dell’economia. E’ una tendenza che trova conferma nei confronti internazionali elaborati dal Bureau of Labour statistics (Bls) americano. Anche qui i dati disponibili (’95-02) indicano come il costo del lavoro per ora lavorata nel settore metalmeccanico sia inferiore in Italia rispetto alle principali economie industrializzate. Si
tratta di temi che con argomentazioni simili potrebbero essere estese
anche al capitolo della produttività. In realtà le rivendicazioni
avanzate dai metalmeccanici hanno una legittimità profonda e non
contingente. Il vero ostacolo non sono gli aspetti retributivi ma la
volontà e la capacità di rimuovere, magari consensualmente, nodi
strutturali che impediscono all’industria italiana di crescere. |