Politica industriale, la Commissione europea e i ritardi della metalmeccanica italiana.

(Articolo di Gianni Ferrante, tratto da “Rassegna sindacale” n. 6, 18 febbraio 2003)

 

E’ una buona notizia che la Commissione europea abbia tenuto a fine gennaio un’importante Conferenza per riconsiderare il suo approccio alla politica industriale. Dopo anni in cui si pensava che la new economy e i servizi avessero sormontato la manifattura, oggi si torna a pensare all’industria come motore dell’economia. Difesa e sviluppo della competitività europea – dicono i Commissari europei - richiedono una nuova sfida, sia in termini intellettuali che politici. Dopo anni in cui all’idea di politica industriale ha corrisposto qualcosa di negativo, oggi questa politica va rilanciata con forza sia nei suoi aspetti economici che sociali e ambientali.

A fronte di un’idea di politica industriale sinonimo di politica d’impresa (dove il riferimento era solo il mercato), oppure dispersa nelle scelte generali di politica economica nazionale, Prodi e soci avanzano la necessità di costruire un nuovo equilibrio tra fattori orizzontali e bisogni specifici dei diversi settori e comparti.

Su queste basi la Commissione si propone di lanciare un ampio dibattito con i paesi europei per rimettere in circolo un’idea di politica industriale fatta di interazione tra politiche diverse.

Questa buona notizia crea però un certo pessimismo nel momento in cui si pensa al nostro attuale governo e alla sua volontà di raccogliere e arricchire questo dibattito. L’esperienza degli ultimi due anni ci ha mostrato come una pratica liberista spinta e disordinata abbia tenuto gli organi competenti lontani da un impegno ad affrontare la crisi di alcuni comparti pur strategici per lo sviluppo e la capacità competitiva dell’Italia. E’ mancato un investimento che offrisse strumenti nuovi per  migliorare il grado di innovazione del sistema industriale.

Un assenteismo che ha fatto velo alla scarsità di competenze, tenuto conto che quelle già insufficienti che, ad esempio, erano collocate presso il ministero dell’Industria, sono state rimosse grazie a una discutibile interpretazione dello spoil system.

Fatto sta che da anni (anche prima di questo governo, per la verità) manca una scelta politica, una volontà e quindi una sede, che individui i bisogni di medio-lungo periodo del nostro sistema industriale e dei suoi comparti più significativi.

Forze sociali e partiti dal canto loro – anche per mancanza, come detto, di un indirizzo nazionale – hanno finito per fare i conti soprattutto con le emergenze, con i continui processi di ristrutturazione imposti dai nuovi termini della competizione internazionale.

La recessione in atto ormai da due anni nei principali paesi industrializzati sembra aver fatto spazio a una sensibilità nuova verso la politica industriale. Gli enormi passi avanti fatti da alcuni paesi di recente industrializzazione (vedi per tutti la Cina), i fenomeni di ritardo, per non parlare di declino, che hanno accompagnato il rallentamento dell’economia, spingono ad approfondire e rilanciare questi temi.

Senza risorse e strumenti nuovi, propedeutici al superamento di alcune strozzature storiche del sistema industriale italiano, le cose continueranno ad andare come sappiamo.

E a proposito dell’industria metalmeccanica continueremo a rilevare sempre gli stessi stati di salute: buonino quando la congiuntura è favorevole, gravemente sofferente quando la congiuntura è negativa (così come si conviene a un soggetto fragile). E’ quest’ultimo il caso descritto nell’ultimo fascicolo dell’”Osservatorio sull’industria metalmeccanica”, n. 8, febbraio ’03: contrazione della produzione del 4,5% nel 2002 (dopo il –3,0% del 2001). Ciò significa che arretrano tutti i comparti del settore: dallo 0,3% di Macchine e apparecchi meccanici, al –7,4% dei Mezzi di trasporto. Il ricorso alla Cig (nei primi otto mesi) è salito del 48,5% per gli operai. Paradossalmente tiene l’occupazione (nell’intera dell’economia ma non nella metalmeccanica) e questo a causa del calo della produzione, fa arretrare la produttività, nonostante gli ultimi anni siano stati anni di bassa crescita del costo del lavoro per unità di prodotto.