Politiche nuove per i sistemi produttivi in Italia
Di particolare interesse
questo recente testo del prof. Enzo Rullani (Docente di Economia
aziendale, presso l’Università Cà Foscari di Venezia) per
l’aderenza ai temi che impegnano in questa fase il sindacato e il
dibattito politico nel suo insieme. Aldilà della condivisione di
singoli punti, si tratta di uno sforzo utile nel tentativo di indicare
vie d’uscita alla situazione di stallo economico-produttiva italiana. (Le precedenti
“Letture” sono reperibili sempre sul sito Fiom, alla Rubrica
“Ufficio economico”). (Sintesi a cura di G.
Ferrante)
Premessa Caratteristica del made in Italy sono spesso le innovazioni di uso, date dall’importazione di tecnologie altrui usate in contesti diversi da quelli di origine. Su queste poi si esprime una nostra capacità di imitazione, di adattamento che ha consentito finora alle imprese italiane di “mettersi in pari” (rispetto ai concorrenti) negli skills tecnologici di base. Ma l’importazione di tecnologie altrui non crea, di per sé, un vantaggio competitivo. Con formule imprenditoriali fatte di tecnologia importata, bassi costi dei processi, innovazioni di uso dei prodotti, si generano vantaggi competitivi solo in alcuni settori, da cui la specializzazione italiana nella moda, casa, alimentare, meccanica leggera (sub fornitura, macchine, piccoli elettrodomestici). Rimangono così esclusi i settori high tech, i prodotti di grande serie e i prodotti di largo consumo. La formula competitiva italiana ha dimostrato una discreta capacità di espansione nel periodo 1970-2000 (ovvero a partire dall’inizio della crisi del fordismo). Nei primi anni del nuovo secolo maturano due condizioni che decretano un indebolimento di quel modello: - il Centro Nord investito dalla proliferazione dei distretti e delle piccole imprese arriva a una situazione di saturazione (lavoro, spazi, infrastrutture, ecc.); - - entrano in gioco, dopo la caduta del muro di Berlino, i paesi dell’Est Europa. A questo bisogna aggiungere l’euro a 1,30 sul dollaro, che aggrava i problemi. L’Europa rischia di ghettizzarsi su politiche macroeconomiche che scoraggiano la domanda interna e le esportazioni, alimentando la stagnazione, quando altri paesi (il blocco del dollaro) procedono allegramente con politiche di espansione keinesiana della domanda, alimentate dal deficit americano e mantenute dal finanziamento del deficit che i creditori fanno all’America. Occorrerebbe quindi che l’Europa subordinasse la politica monetaria a quella di sviluppo. Le imprese europee sono spinte dalla pressione del cambio su una strada che rende ancora più difficile quella di un recupero di produttività. Occorre infatti accettare la sfida produttivistica che deriva dalle nuove condizioni di concorrenza. Una scelta che da noi, a differenza che in Germania e in Giappone, è stata rinviata (grazie anche alle politiche monetarie permissive del passato). La sfida produttivistica peraltro è già in atto. Una quota delle imprese dei settori maggiormente esposti chiude o è in grande difficoltà. Le altre, considerando i ridotti margini e gli elevati rischi, sono ancora incerte sul da farsi. Solo un drappello di “pionieri” sono andati in avanscoperta su nuovi terreni per trovare nuove opportunità. C’è poi chi è convinto di essere al riparo dal terremoto competitivo perché è protetto da meccanismi istituzionali. Se sia possibile o meno vincere la sfida dipende da noi: da cosa fanno le famiglie, le imprese, i sistemi locali e lo Stato per avviare risposte innovative. Le condizioni perché ciò accada non ci sono ancora e vanno create. Le famiglie devono decidere che destinazione dare al proprio reddito e al risparmio: rendita immobiliare, consumo improduttivo oppure istruzione e formazione? Le imprese devono smettere di avere un atteggiamento attendista o difensivo (vedi nuovo ciclo di adozione delle Ict). I sistemi locali stanno compiendo qualche sforzo ma sono poche le esperienze di successo. Lo Stato non ha ancora imparato bene a fare il regolatore, né a garantire l’accesso delle persone e delle imprese alle risorse essenziali per l’esercizio della cittadinanza. Globalizzazione e
materializzazione: le due sfide da affrontare Non c’è solo da sistemare qualche crisi locale, occorre prendere atto che un ciclo di sviluppo è finito. Certo non si può partire da zero, né immaginare che quel che c’è diventi rapidamente altro. Il nuovo va creato plasmando, in nuove forme, le risorse e le capacità che abbiamo ereditato dal vecchio. Occorre farlo – ricorda Rullani - tenendo conto della: A) globalizzazione delle filiere produttive, B) smaterializzazione del valore. La fornitura (a monte) va riorganizzata tenendo conto che esistono oggi possibilità di lavorazione e di approvvigionamento più ampie e differenziate che un tempo. La commercializzazione (a valle) va sviluppata con un impegno diretto più importante nei marchi, nelle reti di vendita, In ambedue i casi sono necessari investimenti rilevanti e cambiamenti nella rete di fornitura locale. Molti di questi appaiono sotto l’etichetta della delocalizzazione (in genere in paesi a basso costo). Uno stabilimento che chiude o viene spostato altrove genera un problema di disoccupazione locale (che deve essere gestito con ammortizzatori all’altezza del compito), ma provoca anche altri cambiamenti (libera risorse di lavoro e di spazio per attività sostitutive; può selezionare in loco le attività di qualità). Non sono quindi le delocalizzazioni il concetto appropriato per rendere conto di quello che sta accadendo. Bisogna che le imprese abbiano la possibilità di sfruttare, nella loro filiera, le produzioni a basso costo fatte in localizzazioni favorevoli, senza tuttavia portare a un vero e proprio abbandono del terreno di origine. Questo territorio può infatti conservare la sua ragion d’essere per capacità e competenze che sono difficilmente reperibili altrove. In più può usare le risorse che si rendono libere per far crescere nuove professionalità e nuove imprese. Quindi una doppia trasformazione: - le filiere attuali devono essere aiutate ad estendersi geograficamente andando a cercare per tutto il mondo le localizzazioni competitive; - allo stesso tempo il territorio di origine deve mettersi in condizione di competere per la qualità delle risorse e conoscenze messe a disposizione. Ma la trasformazione non può limitarsi al campo della manifattura. Non tutta la manifattura è destinata a trasferirsi altrove, ma certo una parte si. La manifattura destinata a restare nei paesi con costo del lavoro elevato è solo quella in cui si fa uso di conoscenze originali e poco codificate, sedimentate dall’esperienza nel cervello della gente, nell’organizzazione di impresa; conoscenze utili per affrontare problemi nuovi o scarsamente formalizzati. E’ possibile scommettere non più sulla manifattura in quanto tale, ma su quella che usa capitale intellettuale e relazionale per affrontare problemi complessi, ad alta varietà. Occorre attendersi da questo punto di vista due cambiamenti: - i clienti e i fornitori potenziali (per la ricerca di soluzioni flessibili e innovative) non sono più gli stessi. Occorre cercare nuovi fornitori e nuovi clienti. - il valore generato dalle filiere presso il consumatore finale è sempre meno legato alle prestazioni fisiche dei prodotti materiali e sempre più a prestazioni di tipo immateriale (servizio, significato, esperienza), che vengono attivate non dalla fabbricazione del prodotto fisico, ma dal marketing, dalla progettazione, dal design, dalla comunicazione, dai marchi, dalla rete di commercializzazione. Il processo di riposizionamento accoppia trasformazione geografica (globalizzazione delle filiere) e arricchimento immateriale delle proprie funzioni (specializzazione nell’immateriale). I confini tra manifattura e terziario diventano labili. Ma in un’economia di piccola impresa nessun terziario intelligente può crescere (all’interno di un’impresa manifatturiera di 10 o 20 addetti). Accanto alla manifattura deve nascere un sistema sempre più consistente di imprese specializzate, che producono e vendono servizi terziari. Quattro nodi da sciogliere A chi tocca realizzare questi cambiamenti? L’entità e il rischio delle innovazioni richieste è tale che saranno gli attori economici a percorrere o meno la strada del riposizionamento tracciata. Con appropriate scelte politiche è possibile aumentare l’impegno di risorse e la qualità degli investimenti fatti dallo Stato e dalle Amministrazioni locali. Ma il grosso dell’investimento e del rischio tocca comunque agli attori direttamente in gioco: famiglie, imprese, società locali e società nazionale. I nodi da sciogliere non nascono tanto dalle storiche insufficienze del capitalismo italiano, quanto dalla storia (recente) di successo che ha consolidato un modo di operare non più efficace per rispondere alla globalizzazione e alla smaterializzazione. Usare ciò che già esiste, ma introdurre una reale discontinuità. I quattro nodi da sciogliere: 1) spostare l’accento dalla conoscenza importata a quella autoprodotta; 2) rinnovare la capacità di assorbimento della conoscenza importata (mettere persone e imprese in grado di padroneggiare i linguaggi della scienza, della tecnologia, dell’organizzazione); 3) andare oltre l’orizzonte della fabbrica materiale dando spazio a tutti i livelli della filiera alle possibilità di generazione del valore immateriale; 4) il lavoro di apprendimento, con gli investimenti e i rischi che comporta, va diviso tra più soggetti che si attrezzano a lavorare in rete tra loro. 1) In tempi di concorrenza cinese si comincia ad apprezzare il valore della conoscenza autoprodotta, per avere a disposizione capitale intellettuale e relazionale originale. 2) Fino a che la tecnologia meccanica è stata alla base della produzione industriale era facile assorbire le conoscenze altrui; oggi per assorbire il nuovo occorre padroneggiare i linguaggi della scienza, dell’ingegneria, dell’informatica. Il rischio è che il Paese non solo non faccia ricerca nella produzione di nuove conoscenze, ma non riesca nemmeno più ad importare quelle degli altri. 3) L’investimento in autoproduzione di conoscenze e in capacità di assorbimento non deve riguardare solo gli aspetti tecnologici, ma tutti gli aspetti immateriali. 4) Infine, bisogna indurre i diversi attori a realizzare innovazioni complementari, che possono avere successo solo se gli specialisti vengono integrati. Export, sub fornitura e
occupazione: emergenze da affrontare La crisi sta generando situazioni di emergenza, tra cui: A) l’emergenza export (perdita di quote che annunciano un indebolimento negli sbocchi esteri); B) l’emergenza sub fornitura (crisi delle piccole imprese e degli artigiani che vedono allontanarsi committenti tradizionali e restano senza margini e senza sbocchi); C) l’emergenza occupazione (focolai di crisi occupazionale in tutti i territori in cui le aziende delocalizzazano o chiudono). L’emergenza export va affrontata con un piano per l’internazionalizzazione centrato sulla creazione di presidi diretti all’estero (in particolare quelli nei paesi dell’area extra euro). Si dovrebbe garantire un sostegno finanziario e una copertura politico-diplomatica adeguata alle imprese che hanno progetti di investimento nella rete di fornitura e nella rete di vendite all’estero. L’emergenza sub fornitura va affrontata con un piano nelle diverse filiere distrettuali e locali che sono attualmente “in sofferenza”. Le smagliature che si stanno aprendo nelle reti locali, allontanando fornitori e committenti una volta strettamente legati, creano lo spazio per riqualificare e ri-orientare molte piccole imprese e catene di sub fornitura che finora si sono limitate a “servire il committente”. Un contributo importante può essere L’emergenza occupazione va affrontata con un piano di creazione di nuovi posti di lavoro nel terziario, in tutti i luoghi in cui c’è un’emorragia di posti di lavoro nella manifattura. Essendo difficile che ci siano altri investimenti e attività del manifatturiero, bisogna puntare alla creazione di nuovi e più qualificati posti di lavoro nel terziario. Innovazione di sistema Aldilà dei problemi immediati, occorre anche introdurre innovazioni di sistema. Oggi che il nostro sistema è in panne occorre ridisegnare la logica complessiva di funzionamento del nostro sistema economico e produttivo, facendo innovazioni di sistema che sono primaria responsabilità della politica.
Garantire l’accesso alle risorse abilitanti. Le singole persone dipendono dalla piattaforma di conoscenze e di servizi a cui hanno accesso nel luogo in cui vivono e lavorano. Se la nostra è un’economia di filiera, è altrettanto vero che le filiere hanno radici territoriali perché le unità che le compongono, specie se piccole, usano il territorio come piattaforma relazionale per accedere alle conoscenze e ai servizi che servono. Si a per le persone che per le imprese, l’esistenza di una piattaforma di accesso adeguata garantisce la cittadinanza (universalità dei diritti) e la possibilità di diventare forza produttiva. Questa piattaforma in passato è stata assicurata da forti investimenti pubblici e da politiche di modernizzazione coerenti. Oggi uguale attenzione dovrebbe essere data all’accesso all’istruzione superiore e ai circuiti della ricerca, all’accesso alla mobilità globale (aerei, alta velocità), all’accesso ai servizi rari. Il ruolo della politica è quello di integrare persone e imprese in piattaforme moderne. Occorre fare in modo che in ogni piattaforma territoriale persone e imprese abbiano accesso,a condizioni competitive, alle conoscenze e ai servizi che servono per essere cittadini e produttori. Oggi l’elemento critico dei servizi pubblici è il degrado della qualità dei servizi forniti alle piattaforme di accesso. Liberalizzare i mercati. Occorre superare una sistematica limitazione della concorrenza in alcuni settori. Non solo in settori tradizionalmente pubblici (le grandi utilities nazionali e i servizi pubblici locali), ma anche in settori privati (trasporti, energia, professioni, finanza, commercio, costruzioni). Per ridurre le rendite occorre elaborare un’organica politica di liberalizzazione dei mercati, rendendoli contendibili anche in campi in cui la concorrenza è rimasta debole o assente (finanza, credito bancario, autostrade, telecomunicazioni, energia). L’investimento immateriale. Non si tratta solo di investire in capitale umano e ricerca, ma anche in marchi commerciali, reti di vendita, pubblicità, moda, stili di vita, sistemi di gestione, circuiti logistici, reti informatiche, marchi di qualità nella fornitura, sistemi di garanzia per i clienti. Tutto il nostro sistema è impreparato a questo passaggio. Lo Stato potrà fare di più ma fino a un certo punto. Si dovrà anche ricorrere alle scelte di investimento e all’assunzione di rischio dei diretti interessati, ossia delle persone, delle imprese, delle società locali (territori). Ma occorre domandarsi se questi soggetti ne hanno convenienza? Bisogna agire sugli ostacoli che rendono l’investimento in assets immateriali particolarmente rischioso. Per le imprese conta essere inserite in una rete ampia: se la filiera è limitata, locale, le conoscenze hanno necessariamente un valore limitato (piccolo l’investimento, piccolo il ritorno). Occorre superare la scarsa dimestichezza che molti imprenditori hanno rispetto al mondo che produce capitale intellettuale e relazionale. La tutela brevettale è carente, occorre tutelare l’esclusività delle conoscenze possedute. Se ne avvertono gli effetti quando entrano in gioco concorrenti low cost. Un’altra fonte di dispersione cognitiva è l’eccessivo turn over nei rapporti di lavoro dipendente. Bisognerebbe creare contratti di lungo periodo di partnership per cui impresa e dipendente co-investono sullo sviluppo di skills professionali o su percorsi di formazione. Anche un eccessivo turn over dei fornitori rende incerta la prospettiva di ciascuno. Nel caso degli investimenti personali, occorre tenere presente che le famiglie sono sempre più propense a investire nell’istruzione dei figli, ma il mercato del lavoro risponde in modo lento a questa nuova disponibilità. Le assunzioni spesso non premiano i laureati e quando questi vengono assunti vengono adibiti a mansioni che non ripagano dell’investimento fatto. Ne discende un quadro dei rapporti di lavoro diverso da quello conosciuto in epoca fordista. Il singolo lavoratore è chiamato a investire su se stesso e lo fa con l’appoggio dei suoi rappresentanti, dello Stato e, ove possibile, del suo datore di lavoro. E’ un quadro in cui la distanza tra lavoro autonomo, lavoro atipico e lavoro tipico si riduce. La condivisione dei bisogni e delle identità. Per investire le politiche di liberalizzazione non sono tutto; occorre un quadro di cooperazione di condivisione che sincronizzi i comportamenti di molte persone e imprese, crei regole trasparenti, disciplini le aspettative, crei responsabilità. La flessibilità non è tutto. C’è bisogno di un quadro dove i giovani siano incentivati a investire su se stessi e sul proprio futuro. E questo non può essere un quadro privo di garanzie, di aspettative, di impegni reciproci. |