Commercio internazionale. Italia: le stesse merci della Cina?

 (articolo di G. Ferrante, pubblicato su “Rassegna sindacale”, n. 33, 15-22 settembre 2005)

 

Molti ricorderanno quanto fu travagliato, a partire dalla metà degli anni settanta, il processo di comprensione degli effetti della rivoluzione informatica; quanto fu complesso rivedere le concezioni tayloriste e quanto fu difficile tradurre il nuovo in analisi e proposte. Qualcosa del genere sta capitando da qualche anno con la globalizzazione, con l’interscambio mondiale tra paesi.

A punti di vista a volte preconcetti si accompagna la necessaria individuazione di strumenti concreti capaci di fronteggiare un processo inarrestabile, mentre l’analisi fatica a fotografare un processo ancora in rapida evoluzione.

Particolarmente utile quindi il monografico di “Congiuntura ref.” (settembre ’05), redatto dall’Istituto milanese di analisi economica, dedicato a “La sfida della globalizzazione e la crisi italiana”.

Lo studio ci porta a riconsiderare il luogo comune secondo cui sono cresciuti i servizi a discapito dell’industria. In realtà spesso è il valore aggiunto di servizi connessi all’attività industriale a crescere e se il peso dell’industria risulta decrescente, non vi è dubbio che le esportazioni hanno assunto maggiore rilevanza: per l’industria la capacità di competere a livello globale è sicuramente più rilevante che in passato. L’esempio più significativo è rappresentato dalla Germania, che agli inizi degli anni ’90 deteneva una quota delle esportazioni sul Pil intorno al 25%, mentre ora è arrivata in prossimità del 40%. Non solo, di recente è diventato primo paese esportatore mondiale.

In realtà la struttura del commercio internazionale sta producendo trasformazioni irreversibili. Mentre diminuisce il ventaglio delle produzioni di ciascun paese (e parallelamente aumenta la quota di domanda interna che viene soddisfatta dalle importazioni), aumenta, anche per i paesi occidentali, la platea dei mercati di sbocco..

Ma la diagnosi per l’Italia non è certo fausta: “le sfide poste dal nuovo ambiente macroeconomico – dice lo studio – sono state tutte perse” e “ la metafora del declino costituisce la rappresentazione sintetica più efficace”.

La quota dell’Italia nelle esportazioni mondiali è passata dal 5,0% del 1990 al 3,7% del 2000, al 3,8% del 2004 (e il decremento è simile anche nelle importazioni). Un po’ meglio se guardiamo ai dati delle esportazioni divisi per alcune aree: 7,5% verso l’Asia (9,7% il Regno Unito), 13,6% verso l’Europa dell’Est (14,3% la Germania ), 2,9% verso l’America Latina (2,0% la Germania ).

Se tralasciamo il fatto recente che l’Italia ha usufruito di un ciclo positivo di investimenti nel settore immobiliare, resta il fatto che il nostro modello produttivo conta una discreta presenza dei comparti industriali, le cui sorti sono particolarmente legate alla domanda dei mercati esteri e quindi qui cominciano i guai. Sono state infatti proprio le esportazioni l’anello debole negli ultimi anni ( fornendo addirittura un contributo negativo). Il sistema non ha reagito al nuovo e l’unico sforzo sembra essere stato quello delle delocalizzazioni produttive. E’ la produttività ad essersi bloccata in Italia negli ultimi anni, mentre è aumentata negli altri paesi. E la causa –ricorda il Rapporto – non è la dinamica salariale, ma il fatto che i “settori esportatori hanno rinunciato ad investire e ad attuare politiche necessarie ad accrescere la produttività”. Si è magari agito sui prezzi finali all’esportazione per recuperare margini, ma il modello di specializzazione è rimasto uguale a se stesso da trenta anni a questa parte (e oggi appare pericolosamente simile a quello cinese) e anche la scelta dei nostri mercati di sbocco appare centrata su paesi caratterizzati da una domanda poco dinamica (vedi, ad esempio, Romania e Grecia).

 

(articolo di G. Ferrante, pubblicato su “Rassegna sindacale”, n. 33, 15-22 settembre ’05)