La distruzione creativa e il problema della competitività delle imprese italiane

 

Scriveva l’economista J. Schumpeter all’inizio degli anni ’70 che un’impresa nasce da una nuova idea imprenditoriale, che si traduce in un nuovo prodotto o un nuovo processo produttivo grazie all’investimento in R&S. Per sua natura, tale investimento è rischioso, perché il successo economico dipende dall’abilità di conquistarsi una quota di mercato a danno di altri concorrenti e tale abilità non è accertabile a priori. Sarà, pertanto, la selezione operata dalla concorrenza a determinare la qualità delle idee vincenti.

Nel confronto concorrenziale emergono quindi vincitori e vinti. I primi riescono a praticare prezzi più bassi a parità di qualità o ad offrire qualità maggiore a parità di prezzo.

Si crea così il fenomeno della distruzione creativa in virtù del quale le imprese migliori generano profitti, le mediocri fanno profitti inferiori. Le peggiori scompaiono rapidamente dal mercato perché incapaci di coprire i loro costi di produzione con i ricavi.

Lo spartiacque è dato dalle “imprese marginali”, cioè quelle che riescono a generare ricavi appena sufficienti a coprire i costi e che,quindi, non fanno alcun profitto. La loro produttività individua la soglia minima al di sotto della quale è impossibile per un’impresa sopravvivere sul mercato.

E’ da queste riflessioni che parte un interessante saggio di M. Del Gatto, G.I.P. Ottaviano e M. Pagnini (docenti rispettivamente delle università di Cagliari e Bologna ed economista della Banca d’Italia il terzo), dal titolo “La competitività delle imprese italiane: all’origine del malessere”, pubblicato nell’utile rivista “Economia italiana” (n.1, gennaio-aprile 2005), edita dal gruppo bancario Capitalia.

Gli autori muovono anche dalla constatazione di come il reddito pro capite italiano sia sceso sotto la media europea e di come la quota nazionale sul commercio mondiale sia scesa dal 4,8% del ‘99 a poco più del 3,0%.

Pensando alle cause di questa situazione tutti invocano la competitività. In realtà, dicono gli autori, la competitività non è un bene in sé: la crescita del benessere economico di un Paese dipende essenzialmente dalla capacità dei suoi cittadini di migliorare le condizioni di vita attraverso un continuo aumento della produttività delle sue imprese e della qualità dei suoi prodotti (che questa poi sostenga la competitività rappresenta un effetto collaterale gradito).

Quindi, una misura del miglioramento del benessere economico di un paese è la crescita sostenibile del suo consumo reale pro capite.

Secondo gli autori per aumentare il consumo pro capite del Paese ci sono tre strade:

  1. aumentare la produttività in modo che ogni lavoratore produca di più;
  2. aumentare il numero dei cittadini che partecipano alla forza lavoro;
  3. risparmiare meno per lasciare più risorse al consumo.

Gli autori ritengono che la seconda e la terza strada siano precluse: la seconda per motivi demografici (il nostro Paese è infatti caratterizzato da una popolazione stagnante), la terza perché riducendo risparmi e investimenti il consumo odierno andrebbe a scapito del consumo futuro.

Rimarrebbe dunque solo la prima strada, alla quale però si potrebbero aggiungere ulteriori opzioni, particolarmente valide, per non dire essenziali, in una fase in cui l’apertura agli scambi internazionali è diventata strategica (mentre le tre strade sopra richiamate appartengono più a un’economia autarchica che non esiste più). Tra queste ulteriori opzioni c’è quella di spuntare prezzi più alti per i beni esportati (ma per fare questo occorre rendere le merci nazionali più appetibili, cioè migliorarne la qualità a parità di prezzo): ma anche questo, come già detto, non è altro che un miglioramento della produttività, cioè un aumento delle vendite a parità di quantità di fattori produttivi utilizzati.

Secondo il saggio in esame, nel lungo periodo il miglioramento del benessere economico del Paese dipende essenzialmente dalla crescita della sua produttività (quindi, concorrenza, innovazione, tessuto industriale, capitale umano, ecc., sono importanti solo nella misura in cui influenzano la produttività).

Tra i segnali d’allarme che testimoniano dei ritardi italiani nei confronti della concorrenza internazionale gli autori ricordano il tema del nanismo delle imprese italiane, citando un recente volume di F. Onida (Se il piccolo non cresce. Piccole e medie imprese italiane in affanno, Il Mulino, Bologna 2004): “il sistema produttivo è ormai pressoché privo di grandi imprese, ha un numero limitato (anche se crescente) di gruppi di media dimensione ed è invece articolato in una fitta rete di imprese medio-piccole e piccole, fino alle microimprese con meno di 10 addetti.

Le cause di questa situazione, come si sa, sono molte: la tradizione agraria della piccola impresa familiare, la limitata dimensione del mercato interno, una specializzazione settoriale del Paese in settori a scarsa intensità di R&S e deboli economie di scala, carenze infrastrutturali (materiali, come ferrovie, autostrade e porti), invisibili (servizi alle imprese) e normative.

Anche il fenomeno dei distretti industriali sembrerebbe aver mostrato negli ultimi anni una serie di difficoltà nel tenere il passo della crescita della produttività riscontrata in altri paesi, soprattutto nei settori tecnologicamente avanzati.

Sulla base di questi segnali d’allarme gli autori dividono le imprese italiane in tre gruppi:

  1. le imprese marginali,a scarsa produttività, che subiscono la concorrenza sul mercato interno e non hanno accesso al mercato estero.
  2. Le imprese di media produttività, che sopravvivono soprattutto grazie alle vendite sul mercato domestico.
  3. Le imprese ad alta produttività, anch’esse in difficoltà sul mercato domestico, ma che si rifanno sui mercati esteri.

Si potrebbe aggiungere un quarto gruppo (le imprese elitarie) formato da produttori estremamente produttivi e perciò in grado di trasformarsi in multinazionali.

In sintesi, dicono i tre autori, è più facile trovare imprese più produttive laddove la concorrenza è stimolata dall’efficienza delle infrastrutture e dei servizi, dalla facilità dell’entrata sul mercato, dalla dimensione e dall’apertura del mercato stesso.

La concorrenza promuove la sopravvivenza delle imprese più produttive a danno di quelle meno produttive (con il risultato di avere prezzi inferiori, qualità superiore e imprese più grandi che, nonostante margini di profitto inferiori raggiungono maggiori profitti complessivi grazie alla scala).

Dunque, per riassumere brevemente, “per stimolare la crescita della produttività e della qualità occorre dare spazio alla distruzione creativa della concorrenza nell’ambito di un contesto normativo equo e trasparente, che stimoli: la competizione tra le imprese, la contendibilità delle loro quote di mercato; l’integrazione dei mercati regionali, attraverso il miglioramento delle infrastrutture logistiche; la competizione nei servizi alle imprese; lo snellimento delle procedure burocratiche”. Mentre, al contrario, il ritorno a manovre protezionistiche, che ripropongono la logica perversa delle svalutazioni del passato, porta in sé il germe dell’arretramento economico.

Come si vede, aggiungiamo noi, la tematica del costo del lavoro resta solo sullo sfondo di una ricerca (e delle preoccupazioni) da parte degli autori che chiama in causa ben altri fattori. Elementi questi che dovrebbero impegnare a vasto raggio padronato e forze di governo nella formulazione di proposte che siano in grado di portare strutturalmente fuori il sistema produttivo italiano dalle secche attuali, tralasciando il perverso inseguimento di scorciatoie che finiscono per gravare principalmente sul lavoro dipendente, sul suo reddito, sulla riduzione delle competenze professionali, con il risultato tra l’altro di deprimere i consumi.

A corredo delle loro analisi gli autori chiamano in causa i dati provenienti dalla Centrale dei bilanci (che monitora i beneficiari del credito bancario) che si riferiscono al periodo 1983- 1999 (con riguardo soprattutto alle imprese medio-grandi del Centro-Nord.

Dall’esame dei dati, in estrema sintesi, se ne ricava che:

-         le imprese che non esportano sono meno produttive delle esortatrici;

-         nonostante che sia le imprese esportatrici che quelle non esportatrici osservino nel tempo un incremento della loro produttività, le prime mantengono il loro vantaggio in termini di produttività totale dei fattori. Questo indica che le differenze di produttività tra i due gruppi di imprese sono di natura permanente;

-         è l’alta produttività ad aprire le porte dei mercati internazionali;

-         i problemi di produttività a livello di singola impresa sono legati a caratteristiche strutturali del territorio che differenziano Nord e Sud d’Italia;

-         infine, esaminando le differenze tra il periodo iniziale esaminato e quello finale, in rapporto all’effetto della svalutazione della lira, si nota come questa si presenti come un sussidio alle esportazioni, ma riducendo il livello di produttività che permette di raggiungere i mercati esteri, finisce per determinare uno scadimento della produttività media degli esportatori.

Da quanto finora richiamato emerge che le linee di intervento per promuovere il benessere economico del Paese risultano innanzitutto essere:

-         maggiore concorrenza tra le imprese presenti sul mercato;

-         maggiore contendibilità delle loro quote di mercato;

-         maggiore integrazione dei mercati regionali attraverso il miglioramento delle strutture logistiche;

-         maggiore concorrenza nei servizi alle imprese;

-         snellimento normativo.

 

(sintesi a cura di G. Ferrante)