L’anno dell'incertezza

"Rassegna sindacale", n. 40 - ottobre 2002

 

Compagna scomoda di questa fase economica e finanziaria è sicuramente l’incertezza. Mai come in questo 2002 le previsioni sono apparse aleatorie.

Nell’aggiornamento al "Documento di programmazione economica e finanziaria" (Dpef), nell’aprile scorso, il governo aveva ancora confermato un tasso di crescita per il 2002 pari al 2,3%. Successivamente, a luglio, nel "Documento" relativo al 2003-2006, quella previsione veniva rivista al ribasso e portata all’1,3%. A metà settembre il ministro dell’Economia Tremonti, in Parlamento, dichiarava che il tasso di crescita per il 2002 non avrebbe superato lo 0,6%, meno della metà di quanto previsto nell’ultimo "Documento di programmazione".

Anche quest’ultima si presenta come una previsione tutt’altro che probabile, poiché visti gli andamenti del primo semestre, per ottenere uno 0,6% su base annua ci vorrebbe un secondo semestre posizionato sopra l’1%, il che comporterebbe un cambiamento significativo del ciclo economico, cosa di cui purtroppo non si vedono le premesse.

Ma l’incertezza non la riscontriamo solo sulle previsioni di crescita del prodotto interno lordo. Se osserviamo la tabella 1, contenente le previsioni (le più aggiornate disponibili) per l’intero 2002 da parte dei principali istituti, vediamo come valutazioni sostanzialmente differenti affiorino su molti altri importanti indicatori.

Colpisce in particolare lo stacco tra la previsione del ministero dell’Economia sui consumi delle famiglie italiane (1,3%), quelle di organismi internazionali (tra 1,4% e 1,7%) e quelle mediamente formulate da organismi nazionali (tra 1,0 e 0,2%).Ancor di più colpisce la previsione circa gli investimenti: qui si passa da –0,9 % del Centro Europa ricerche (Cer) a un 2,6% del ministero dell’Economia, passando per un intermedio 1,3% del Centro studi Confindustria (Csc). Valori significativamente divergenti si leggono anche per importazioni ed esportazioni, mentre più equilibrate risultano le stime relative all’andamento dell’occupazione e della disoccupazione.

Sull’inflazione molto si è detto e scritto. Aldilà della relativa sorpresa per il fatto che, di norma, in una fase di rallentamento dell’economia, per non dire di recessione, la dinamica dei prezzi non dovrebbe crescere, sta di fatto che ci troviamo nell’imbarazzante posizione per cui il governo ha programmato (Dpef 2003-2006) per il 2002 un’inflazione all’1,8% (dopo aver rivisto il dato contenuto nel Dpef 2002-2004, pari all’1,2%). In realtà ci confrontiamo con un 2,2% a luglio, 2,4% ad agosto e 2,6% a settembre. Stanti così le cose diventa sempre più probabile un incremento medio per il 2002 del 2,5%.

Su questi problemi si è innescata una vivace polemica durante l’estate e alla ripresa di settembre. Qualcuno è volato alto, correndo il rischio di favorire (concettualmente) la ripresa di una spirale di inseguimenti tra prezzi e salari.

Intanto va detto che sembrerebbe da escludere una responsabilità dei prezzi alla produzione industriale nella crescita dei prezzi in generale, in quanto il dato di luglio 2002 su quello del corrispondente mese dell’anno precedente dà un incremento solo dello 0,1. In secondo luogo, per quanto si voglia attribuire la sensazione (!?) che i prezzi siano aumentati a causa di quello che con un bell’inglesismo si chiama changeover (ovvero agli arrotondamenti derivanti dalla conversione dei prezzi da valuta nazionale a euro), anche il Centro studi Confindustria (“Previsioni macroeconomiche”, settembre 2002) non può non rilevare l’esistenza di pesanti contraddizioni e aumenti.

In pratica i prezzi dei beni di acquisto frequente sarebbero aumentati più della media dei prezzi rilevati dalla statistica. Così in Italia – afferma l’Ufficio studi Confindustria – gli aumenti superiori al 4% hanno riguardato per lo più beni di acquisto frequente, dove si sono verificati in alcuni casi (vedi commercio al dettaglio) incrementi superiori al 10%!

Su questa base di dati e di valutazioni congiunturali di tipo macroeconomico descritta nel n.7 (ottobre 2002) dell’”Osservatorio sull’industria metalmeccanica”, curato dall’Ufficio economico della Fiom-Cgil, si inserisce l’esame della produzione industriale.

A fronte di un relativo peggioramento dell’indicatore di competitività nei primi due trimestri del 2002, si accompagna una contrazione consistente sia delle importazioni (-6,0%) che delle esportazioni (-5,2%) relative all’intera economia. Nel settore metalmeccanico gli stessi indicatori mostrano un calo dell’8,1% (importazioni) e del 7,2% (esportazioni).

Confrontando (vedi tabella 2) il valore del saldo attivo per il settore metalmeccanico e per l’intera economia si osserva che – per il primo semestre 2002 – il risultato positivo della bilancia commerciale dipende in modo consistente dall’andamento del settore metalmeccanico.

Entrando più nello specifico, si può notare come l’unico comparto dell’industria metalmeccanica che registra un saldo positivo è quello relativo alle Macchine e apparecchi meccanici (15.646 milioni di euro, di cui 25.297 da esportazioni e 9.651 dalle importazioni), quello che si raduna attorno ai Beni strumentali e si tratta, in definitiva, del comparto che dà il principale contributo positivo al saldo commerciale dell’intera economia.

In termini generali, nei primi 8 mesi del 2002 la produzione metalmeccanica ha fatto registrare un calo intorno al 6%, confermando così il trend negativo che si era già manifestato nel 2001 (–3%): un calo che nel 2002 si è manifestato in tutti i comparti dell’industria del settore.

Il fascicolo in uscita dell’”Osservatorio”, infine, contiene per la prima volta un esame della struttura occupazionale derivante dai dati dell’Indagine sulle Forze di lavoro di fonte Istat: un’indagine di tipo campionario che se per le sue caratteristiche può presentare qualche limite (nel senso di stimare i fenomeni osservati), d’altro canto offre informazioni altrimenti difficilmente reperibili. I dati, aggiornati all’aprile 2002, indicano 2.137.000 addetti al settore metalmeccanico, di cui l’86,3% dipendenti e il 13,7% indipendenti. Le donne rappresentano nel complesso il 20,9% degli occupati dipendenti e la maggior presenza femminile si presenta tra gli impiegati (37,9%), mentre tra gli operai e gli apprendisti il loro peso è pari al 15%. Per quanto riguarda l’evoluzione dell’occupazione dipendente, secondo l’Indagine sulle forze di lavoro, si registra un aumento dello 0,6 nel primo semestre del 2002, come risultante di un incremento dello 0,6% di quella maschile e di un decremento dell’ 1% di quella femminile.