Il ruolo dello Stato nel rilancio della competitività

 

Riprendiamo dal n. 4 (2005) dei “Quaderni di Rassegna sindacale” il Forum intorno alla necessità di una ripresa dell’intervento pubblico nell’economia, dal titolo: Il ruolo dello Stato nel rilancio della competitività, a cui hanno partecipato: Giorgio Ruffolo (presidente del Cer), Marcello Messori (Economista, Università di Roma), Giorgio Lunghini (Economista, Università di Pavia) e Cristiano Antonelli (Economista, Università di Torino). Tralasciamo il primo “giro” di risposte intorno alla perdita di quote di mercato dell’Europa e in particolare dell’Italia, per concentrarci sul secondo (e i successivi) tema proposto ai partecipanti al dibattito: di fronte alla perdita di competitività dell’economia europea e italiana molti stanno rivalutando varie modalità di intervento dello Stato e/o di politiche pubbliche nell’economia.

Ruffolo: Si, c’è una rivalutazione dell’intervento pubblico, ma non si può pensare a un ritorno delle politiche keynesiane o alle esagerazioni statalistiche dello stato sociale. Occorre spostare il fulcro della politica macroeconomica (oggi quasi inesistente) dal livello nazionale a quello europeo. Il rilancio del piano Delors è l’unica possibilità di realizzare la strategia di Lisbona.

Anche a livello nazionale si aprono spazi per un rilancio dell’intervento pubblico,non più come gestione diretta, ma come “nuova programmazione” (Ciampi): nella politica sociale, l’organizzazione di una concertazione sociale sistematica; in quello della politica industriale, la promozione dei distretti industriali (Sylos Labini).

Messori: Non si tratta di vagheggiare né l’immediata trasformazione di un’economia industriale tradizionale in un’economia dei servizi avanzati, né l’immediato passaggio da una specializzazione manifatturiera in settori maturi a una specializzazione industriale in settori sulla frontiera tecnologica. Vero è che il sistema economico italiano fa registrare un peso maggiore delle attività manifatturiere e un peso inferiore dei servizi alle imprese e alle famiglie.

Si tratta quindi di partire dalla realtà esistente per:

- aumentare la consistenza e l’efficienza dei servizi;

- costruire ambienti più favorevoli all’operare delle imprese industriali mediante il drastico miglioramento delle infrastrutture materiali e immateriali, formazione scolastica, ricerca e sviluppo;

- rafforzare le nostre poche grandi e medie imprese industriali e di servizi in grado di produrre innovazione;

- aprire l’economia e la società italiane alle fasce di lavoratori o di popolazione più colpite dal cambiamento.

In una situazione così difficile per l’Italia, il realistico cambiamento del modello di specializzazione dell’economia italiana deve poggiare su: le rinnovate “esternalità” prodotte da nuovi e più efficienti servizi (reali e finanziari) e da una domanda pubblica capace di facilitare l’uso dell’innovazione: interventi locali e nazionali per rafforzare le imprese di successo; l’aggancio a progetti europei, ecc.

Lunghini:Tra le cause del declino dell’economia italiana una è proprio il venir meno dell’intervento dello Stato; a sua volta conseguenza del gravosissimo lascito di una lunga stagione di irresponsabilità politica e finanziaria, che tra il 1981 e il 1995 raddoppiò il debito pubblico rispetto al prodotto interno lordo. L’irresponsabile smobilitazione dell’impresa pubblica, rispetto all’alternativa di una sua gestione corretta ed efficiente e, dunque, uno stimolo all’impresa privata.

Antonelli: Sulle ali della rivoluzione digitale le imprese americane avviano un rapido processo di globalizzazione, accelerando lo spostamento delle attività manifatturiere nel sud-est asiatico fino alle regioni meridionali della Cina, sia attraverso la creazione di unità produttive sia attraverso forme di decentramento in cui la produzione è affidata a imprese locali indipendenti.

La base manifatturiera americana si contrae rapidamente. Alla fine del 2004 solo il 10% della forza lavoro negli Usa è occupata in attività manifatturiere. L’economia americana diventa un’economia di servizi. La rivoluzione digitale consente infatti l’industrializzazione delle attività terziarie.

La Gran Bretagna segue la trasformazione americana con dieci anni di ritardo.

Pochi anni dopo gran parte dell’Europa settentrionale, e nordica soprattutto, ripropone le sequenze modello: crisi delle esportazioni manifatturiere, declino dell’industria manifatturiera, crisi prolungata, specializzazione nelle attività terziarie, ripresa del cammino di crescita.

In generale, maggiore è la dotazione di capitale umano, più veloce è l’assimilazione del nuovo modello e meno prolungata è la crisi di transizione.

L’Europa continentale appare gravemente attardata nella difesa sterile del passato. Il caso tedesco appare di gran lunga peggiore di quello italiano, per la sua grave difficoltà di riassorbire la disoccupazione creata dal declino manifatturiero.

In questo contesto, la crisi della crescita della produttività totale dei fattori in Italia a partire dalla fine degli anni novanta segnala una chiara difficoltà delle imprese a partecipare al processo di adozione creativa delle tecnologie digitali, che stentano a essere usate dalle imprese. Pochissime imprese del resto sono in grado di competere nella produzione di tecnologie digitali. Il circuito virtuoso tra saper fare e saper usare, che tanto aveva contribuito alla crescita dell’economia italiana nell’epoca fordista, appare inceppato.

Ruffolo: L’intervento dello Stato resta comunque essenziale per quanto riguarda l’istruzione pubblica, la ricerca, la salute pubblica, che comprende anche la sicurezza (nel Mezzogiorno soprattutto).

Messori: Vi sono sette grandi aree in cui diventa essenziale l’intervento dello Stato.

a)      la liberalizzazione e la ri-regolamentazione dei mercati di molti servizi alle imprese;

b)      il completamento della riforma normativa dei mercati finanziari, già avviata negli anni novanta, che deve sfociare nel cambiamento del Testo unico bancario e nell’adozione di un modello di regolamentazione per finalità;

c)       la costruzione di ulteriori esternalità per i sistemi di impresa, incentrata sulla riforma dei sistemi di istruzione e di formazione, sulla ridefinizione dell’organizzazione pubblica relativa alla “ricerca e sviluppo” e su una più moderna dotazione infrastrutturale;

d)       il rafforzamento delle attività di successo mediante un’adeguata interazione con le istituzioni decentrate e con le istituzioni europee;

e)       la costruzione di reti selettive di protezione (sistema di ammortizzatori sociali, per evitare che i costi sociali del cambiamento ricadano sulle fasce più deboli della popolazione e accentuino le disparità sociali;

f)        l’offerta di servizi sociali (sanità, previdenza di base, istruzione, ecc.).

Lunghini: Oggi si vorrebbe che la scuola e l’università si trasformassero in un’azienda al servizio delle imprese. Invece la riduzione della scuola e dell’università a strumento mercantile non sarebbe affatto nell’interesse delle stesse imprese, per non parlare della libertà della cultura e della scienza. Se davvero i giovani devono prepararsi a cambiare mestiere cinque o sei volte nella loro vita occorrerà non una scuola che insegni mestieri, ma una scuola che insegni a studiare e a imparare. A fare si imparerà poi, nel mondo del lavoro.

Non c’è industria senza piano, e l’intervento pubblico, diretto e indiretto, è essenziale nel governo strutturale del sistema economico e sociale. Qui può e deve avere un ruolo importante la riscoperta e la riproposta dell’impresa pubblica, nelle dimensioni e nelle forme giuridiche, patrimoniali e organizzative appropriate a questi tempi.

Più in generale, il settore pubblico può e deve fare ciò che il settore privato, per ragioni di convenienza economica di breve periodo, semplicemente non fa.

 

Antonelli: La transizione al modello dell’economia dei servizi è lenta, manca una guida politica, parti della classe dirigente addirittura si oppongono. Futili dibattiti circa il ruolo della flessibilità dei mercati del lavoro occupano le menti. Non si tratta di rendere flessibile il lavoro manifatturiero: si tratta di identificare le caratteristiche necessariamente nuove, del lavoro terziario.

La transizione della forza lavoro espulsa dalle industrie manifatturiere verso le industrie dei servizi non sarà certamente facile né semplice. Intere generazioni rischiano di soffrire una fine anticipata della loro attività lavorativa con gravi conseguenze sociali e personali.

Di fronte all’entità del fenomeno, e alle profonde implicazioni in termini di organizzazione del lavoro, distribuzione del reddito, crescita sia pure temporanea di una grave forma di disoccupazione selettiva concentrata in alcune fasce sociali e demografiche, la sinistra ha a lungo reagito in modo negativo, cercando di opporsi al processo in corso, incapace di coglierne le implicazioni positive. Affiorano scorie di mercantilismo e qualcuno spera di salvare l’occupazione manifatturiera con politiche industriali, addirittura con interventi direttamente protezionistici come accade purtroppo in Francia. Rispetto a queste posizioni conservatrici, il neoliberismo angloamericano ha saputo assumere toni più propositivi. Ha avuto il merito di abbracciare il processo di deindustrializzazione come un processo di innovazione istituzionale e strutturale. Per favorire il quale era necessario sradicare una politica economica interventista, orientata al sostegno delle imprese esistenti.

Veniamo al tema della sostenibilità dell’evoluzione che si è prodotta negli ultimi anni nei mercati globali. Ci sono due possibili scenari:

I)                   Le esportazioni europee hanno saputo mantenere elevati volumi, in termini quantitativi, ma sono destinate a un’inevitabile contrazione. Alla quale si potrà porre rimedio solo riducendo il loro prezzo, quindi accettando una riduzione delle ragioni di scambio. Tale riduzione potrà avvenire con vari strumenti: - una feroce contrazione dei salari; - un forte aumento della produttività totale dei fattori, prodotto dal rapido incremento dei tassi di introduzione e diffusione di innovazioni che consentano di produrre più merci con gli stessi input e, quindi, permettano di ridurre i prezzi; - un trasferimento allo Stato di alcune voci di costo che gravano sui bilanci aziendali; - una svalutazione monetaria ottenuta attraverso una forte riduzione del costo del denaro, quindi stimolando il deflusso del capitale finanziario verso lidi più remunerativi.

II)                 Il miglioramento delle ragioni di scambio è destinato a persistere pur in presenza di un leggero, ma costante declino delle quote di mercato. Non solo, si accentuano le già forti pressioni verso un’ulteriore rivalutazione dell’euro. Un numero crescente di paesi dell’area del dollaro decide di usare l’euro come moneta di riserva, scegliendo titoli denominati in euro come strumento finanziario per la gestione delle riserve e per la stessa gestione della liquidità commerciale.

In realtà ci sono alcuni provvedimenti di politica economica minimi sui quali conviene concentrare l’attenzione. La dotazione di capitale umano svolge un ruolo essenziale: aumentare la dotazione di laureati in discipline tecnico-scientifiche. Non solo sono necessarie maggiori risorse per la ricerca, ma anche e soprattutto una politica della ricerca che identifichi poche piattaforme tecnologiche, attivando i rapporti tra sistema scientifico nazionale, europeo e sistema delle imprese. Del resto in molte regioni settentrionali, in Piemonte soprattutto, la grande trasformazione è molto più avanzata di quanto non ci si renda conto: i settori dei servizi alla produzione occupano già una quota di addetti maggiore di quella delle industrie manifatturiere e producono una quota di valore aggiunto sensibilmente superiore.

Il modello tipico dell’economia italiana, di adozione creativa delle tecnologie dominanti spesso messe a punto altrove, deve essere messo in condizione di ripartire. La discontinuità tecnologica e organizzativa tra il modello fordista a base meccanica e il modello globalizzato a base digitale ha trovato il sistema italiano attardato.

Si tratta dunque di identificare un numero limitato di piattaforme tecnologiche. L’enorme spesa pubblica nel campo della sanità offre una leva importante che non è mai stata usata al fine di attivare una specifica piattaforma: le biotecnologie offrono significative opportunità.

La spesa militare sembra aver conosciuto un’evoluzione positiva, grazie soprattutto ai successi di Finmeccanica. Un intervento nelle telecomunicazioni, un tasto purtroppo assai dolente, sembra infine necessario per rimediare ai gravi ritardi accumulati, anche per tamponare difficoltà emergenti e sottrarre il settore a logiche  di sussistenza esclusivamente finanziarie imposte da assetti proprietari barocchi e inconsistenti.

(sintesi liberamente realizzata a cura di Gianni Ferrante)