Un capitalismo in cerca di nuovi padroni

 

Proseguiamo, attraverso le Letture, l’analisi di alcune significative elaborazioni intorno alla fiorente letteratura sul declino industriale. Qui riprendiamo un saggio di Sandro Trento, economista della Banca d’Italia, dal titolo Un capitalismo in cerca di nuovi padroni, pubblicato sul n.5 del 2005 di “Italianieuropei”.

 

Delle cause del declino industriale abbiamo parlato in abbondanza per non doverci tornare sopra. Possiamo solo ricordare che fra le tante cause della perdita di competitività del sistema industriale italiano è stato tra l’altro individuato l’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto. La letteratura economica ha ormai a riguardo ampiamente precisato come la produttività totale dei fattori (e quindi non la crescita dei salari) sia addirittura diminuita nella seconda metà degli anni ’90, evento pressoché unico nella storia di un paese industrializzato. Poi ovviamente vi sono le altre cause: ritardo nella rivoluzione tecnologica, modello di specializzazione, frammentazione dimensionale delle imprese, insufficiente sviluppo del settore terziario, ecc.

Il saggio di Trento parte considerando in particolare uno degli elementi richiamati: gli effetti sulla competitività della ridotta dimensione delle imprese italiane. Questa ultima limita la capacità innovativa, riduce la capacità di penetrazione nei mercati esteri, offre poche opportunità d’impiego per tecnici qualificati e laureati.

Né il problema della ridotta dimensione dipende unicamente dal nostro modello di specializzazione. Vi sono studi che dimostrano come la dimensione delle imprese italiane minore di quella media delle imprese italiane sia confermata in tutti i settori.

Guardando alle nuove imprese, si scopre che mentre in Italia a due anni dalla nascita un’impresa ha accresciuto in media la propria occupazione del 25%, negli Usa nello stesso arco di tempo l’occupazione raddoppia.

Un sistema produttivo nel quale le imprese hanno in media 3,9 addetti e nel quale l’accrescimento nel tempo è lentissimo non può che specializzarsi in settori a minore complessità tecnologica e organizzativa, come il tessile, il cuoio e le calzature, i mobili e certi rami della meccanica.

Quali sono i fattori alla base del mancato aggiustamento strutturale dell’Italia e della scarsa crescita delle imprese?

L’efficienza di un’impresa dipende dal modello di governo del quale essa è dotata.

Il governo dell’impresa (corporate governance) è costituito da quell’insieme di norme e di istituzioni che regolano i rapporti tra i tre attori coinvolti nell’impresa stessa (stakeholders): capitale (azionisti e finanziatori), management e lavoratori.

Vi sono modelli di capitalismo nei quali esiste una forte complementarietà tra gli assetti di governo delle imprese e la gestione delle risorse umane, che conducono, ad esempio, a forti investimenti nel capitale umano dei dipendenti per lo sviluppo di competenze specifiche all’azienda stessa. E’ questo il caso di molte grandi imprese tedesche o giapponesi, nelle quali la stabilità della proprietà e del controllo sono funzionali anche alla costruzione di relazioni di lungo periodo con i dipendenti. Si tratta di un modello particolarmente praticato in settori oligopolistici a media e alta tecnologia come quello delle automobili, della meccanica, dell’elettronica,della chimica, con prodotti di alta qualità.

Nello stesso tempo negli Usa ad assetti di governo caratterizzati dalla diffusione della proprietà, dal controllo manageriale e da un suo ricambio relativamente frequente fa riscontro una gestione assai più flessibile della forza lavoro, con valorizzazione di competenze non specifiche.

Il modello italiano non è riconducibile a nessuno dei due. Le imprese sono a controllo familiare, con forte concentrazione della proprietà; manca un mercato per il controllo societario, ma sono assenti anche dei soggetti preposti alla supervisione del controllo stesso. Anche sulla formazione dei lavoratori siamo in una posizione intermedia: scarsa valorizzazione delle competenze acquisite mediante l’istruzione pre-lavorativa, ma anche scarsi investimenti in formazione sul posto di lavoro.

In generale, un buon sistema di governance deve avere almeno tre requisiti.

1)      deve assicurare adeguati incentivi a chi controlla l’impresa affinché persegua l’obiettivo di massimizzarne il valore complessivo (è quindi necessaria una certa stabilità del controllo);

2)      deve garantire che all’impresa affluiscano risorse finanziarie sufficienti (servono quindi intermediari e mercati capaci di finanziare i potenziali imprenditori);

3)      deve assicurare un’allocazione efficiente del controllo, cioè che quest’ultimo venga attribuito al soggetto maggiormente in grado di massimizzare il valore dell’impresa (occorre prevedere quindi meccanismi che favoriscano il ricambio del controllo quando necessario).

A distanza di dieci anni da analoghe imprese (Banca d’Italia, Il mercato della proprietà e del controllo delle imprese: aspetti teorici e istituzionali, Roma 1994) sono state realizzate nuove ricerche sugli assetti proprietari delle imprese italiane non quotate e quotate.

Le imprese italiane non quotate. Nel 2003 la dimensione media della quota di proprietà detenuta dal primo azionista è pari al 64,7% del capitale delle imprese non quotate. Il 61% delle imprese sono controllate di diritto da un unico azionista. Il grado di concentrazione della proprietà è rimasto sostanzialmente immutato rispetto al 1993.

La proprietà diretta del capitale delle imprese italiane è detenuta per la gran parte da persone fisiche. Trascurabile è il peso delle banche e delle assicurazioni nella proprietà delle imprese non quotate (1%).

E’ evidente il carattere “non anonimo” del capitalismo italiano.

Le modalità di controllo. Se si tiene conto della proprietà e degli altri mezzi utili per l’esercizio del controllo, come quelli di natura contrattuale (patti parasociali) o di natura informale ( legami di parentela e di fiducia) si può avere un quadro del controllo.

Anche nei modelli di controllo il peso delle persone fisiche è dominante (52%). Significativa è poi la percentuale di imprese controllate da holding o sub-holding (23%) e da soggetti esteri (15%). Scarso il peso del settore pubblico (2%). Il ruolo delle persone fisiche è rimasto sui livelli del 1993.

Complessivamente in due terzi delle società analizzate si adottano strumenti limitativi della circolazione delle partecipazioni. Si tratta di un’evidente indicazione di “chiusura” ulteriore della proprietà delle imprese italiane.

I gruppi quotati. Il numero delle società quotate è sostanzialmente fermo da anni su valori inferiori a 300. Nel 1992  gli addetti nei gruppi quotati erano il 15% dell’occupazione totale, oggi sono circa il 12%: questo soprattutto a causa del ridimensionamento della grande impresa e dei processi di delocalizzazione.

La concentrazione della proprietà per le imprese quotate è diminuita tra il ’93 e il 2003, ma rimane comunque molto elevata. La quota media ponderata detenuta dall’azionista principale è infatti passata dal 67% al 53%.; quella dei primi tre azionisti dal 73 al 60%. Sono soprattutto le banche ad aver sperimentato una maggiore diffusione della proprietà.

Complessivamente, permane per i gruppi quotati, una forte concentrazione dei diritti di voto, che consente a un’azionista o a una coalizione di azionisti di controllare le società, e la prevalenza, nonostante il ridimensionamento, di strutture piramidali, che permettono al controllante di diluire il proprio impegno finanziario effettivo. Sono queste le forme attraverso le quali in Italia si realizza la separazione tra proprietà e controllo e che rendono il nostro capitalismo distante dai modelli anglosassoni e più simile a quelli dell’Europa continentale.

Un elemento importante di cambiamento nel periodo considerato è stato il forte ridimensionamento del peso dello Stato nella proprietà e nel controllo dei gruppi quotati.

Il mercato della proprietà delle imprese. Più della metà delle imprese italiane esaminate nella ricerca (S. Giacomelli e S. Trento, Proprietà, controllo e trasferimenti nelle imprese italiane. Cosa è cambiato nel decennio 1993-2003?, in “Temi di discussione”, Banca d’Italia, n. 550, giugno 2005) non ha mai subito trasferimenti del controllo.

Il mercato della proprietà delle imprese in Italia sembra ancora largamente incentrata sui contatti personali. Più della metà delle imprese sono ancora controllate dal fondatore.

Il risultato di maggior rilievo è rappresentato dal modesto cambiamento degli assetti proprietari delle imprese italiane rispetto al decennio precedente. Il grado di concentrazione della proprietà è molto elevata ed essa risulta detenuta per la gran parte direttamente da persone fisiche. L’esiguità della partecipazione diretta degli investitori istituzionali al capitale delle imprese continua a rappresentare un importante elemento di differenziazione rispetto ai paesi finanziariamente più sviluppati.

All’aumentare delle dimensioni d’impresa molto rilevante è ancora il ricorso a forme organizzative come i gruppi piramidali – al vertice dei quali, però, si “ritrovano” prevalentemente “famiglie” – o a forme di controllo di coalizione sostenute da patti di sindacato.

La concentrazione della proprietà non ha di per sé un carattere negativo; essa è tipica di modelli di capitalismo (continentali) alternativi a quelli (anglosassoni) fondati sulle public companies.

Le imprese italiane non crescono anche perché ciò richiederebbe un superamento, almeno parziale, del modello familiare chiuso e un’apertura del capitale a nuovi soggetti.

La riluttanza a crescere degli imprenditori italiani non è però frutto di ragioni etniche o culturali. Il punto è che chi è controllante in un’impresa italiana può appropriarsi di benefici privati molto più elevati di quelli presenti in altri paesi avanzati. Ridurre i benefici privati del controllo è propedeutico per facilitare la crescita e il ricambio nel governo delle imprese italiane.

 

Il quadro di stasi e di sporadici cambiamenti del capitalismo italiano è coerente con l’imobilismo registrato dal punto di vista della specializzazione settoriale, dell’innovazione e del cambiamento organizzativo.

Una delle questioni centrali è quella della crescita dimensionale delle imprese, dovuto al modello di controllo prevalente, che si basa su una proprietà concentrata, spesso familiare e di scarsissima circolazione.

Un’azione di politica industriale che intenda favorire la crescita dimensionale delle imprese non può prescindere dagli assetti proprietari.

Un cambio del modello di specializzazione richiederebbe una riallocazione di risorse verso soggetti in grado di gestire le tecnologie più moderne, di riorganizzare le imprese, di consentire uno spostamento verso nuovi settori. Servirebbe in sintesi un vasto ricambio nella classe imprenditoriale.

Una strategia che favorisca l’apertura degli assetti di governo delle imprese va articolata su un mix di misure:

1)      Riduzione dei benefici privati del controllo: per favorire una maggiore diffusione della proprietà (rafforzare la protezione giuridica degli azionisti non controllanti);

2)      Azioni volte a incentivare la crescita dimensionale (ad esempio, una riduzione dell’aliquota applicabile alla base imponibile “marginale”, che premi le imprese che producono valori aggiunti e in generale base imponibile;

3)      Incentivi alla quotazione;

4)      Investitori istituzionali: una delle peculiarità del capitalismo italiano è la quasi assenza di investitori istituzionali nel capitale delle imprese (e delle banche). L’avvio dei fondi pensione è parte essenziale di un progetto che voglia modificare gli assetti proprietari delle imprese e favorire una maggiore separazione tra proprietà e controllo;

5)      Ridurre la convenienza a restare piccoli.