L’economia del Mezzogiorno

 

Riprendiamo qui alcuni elementi di analisi sullo stato recente dell’economia meridionale desunti dal Rapporto Svimez 2005; più in particolare dai “Quaderni Svimez”, n.6, dicembre 2005, Quaderno dedicato al “Dibattito sul Rapporto 2005” , dal quale riprendiamo le considerazioni introduttive di Riccardo Padovani (Direttore Svimez).

 

 

1. Nel 2004, per la prima volta da diversi anni, l’economia meridionale ha fatto segnare un tasso di crescita inferiore a quello del Centro-Nord (0,8% contro 1,4%). All’interno di una fase di sviluppo lento dell’economia nazionale, è proprio l’economia meridionale a manifestare evidenti segni di difficoltà.

Rispetto al dato nazionale, la congiuntura economica si è caratterizzata nel Mezzogiorno per un minore apporto complessivo della pur debole ripresa della domanda estera e per una più forte decelerazione dei consumi interni (passati dall’1,7% del 2003 allo 0,9% del 2004).

Nell’ultimo biennio l’occupazione si è ridotta al Sud di 48mila unità, a fronte di una crescita del Centro-Nord di oltre mezzo milione di unità.

Si è andata indebolendo quella spinta propulsiva che si basava su una diversa qualità della crescita (meno trasferimenti assistenziali, maggiore apertura internazionale, maggiori investimenti) ma anche sulla ricostruzione di valori civili.

 

2. Occorre partire dalla constatazione che per l’Italia, e ancora di più per il Mezzogiorno, l’industria rimane un crocevia obbligato: la scorciatoia del terziario non è praticabile, anche perché il terziario avanzato potrà svilupparsi solo insieme all’industria.

Vanno quindi analizzate le condizioni perché il settore industriale possa uscire dalle difficoltà in cui attualmente versa. L’esperienza dell’ultimo decennio ha indicato che è sul campo dell’integrazione internazionale che si giocano le possibilità di crescita del Paese.

Il cedimento della quota italiana nel commercio internazionale sembra riflettere anche i mutamenti nella “divisione internazionale del lavoro” dovuti alle scelte di localizzazione delle grandi imprese multinazionali. Il successo della Cina e di altri paesi emergenti – come l’Irlanda all’interno dell’area dell’euro – è in misura rilevante da attribuire agli investimenti esteri affluiti negli anni ’90, che hanno mutato radicalmente la geografia mondiale della produzione e delle esportazioni manifatturiere.

L’incidenza percentuale delle esportazioni di merci meridionali sul totale nazionale è stata pari nel 2004 al 10,6% (sul commercio mondiale la quota del Sud è pari a meno dello 0,5%; livello analogo a quello del Portogallo, la cui popolazione è la metà di quella del Mezzogiorno).

La quota di addetti impiegati in aziende di proprietà estera localizzate nel Mezzogiorno si è attestata nel 2004 poco sopra il 6% del totale nazionale; al 2% il peso degli addetti impiegati in unità produttive estere appartenenti ad aziende del Sud (“internazionalizzazione attiva”).

 

3. Per offrire convenienze alla localizzazione di nuovi investimenti è necessario un sistema integrato di interventi in grado di fare “massa critica”. La strategia di politica di sviluppo dovrà riguardare una pluralità di campi di intervento (infrastrutturazione, logistica, politiche di vantaggio fiscale, potenziamento del sistema universitario e della ricerca di base, centri di ricerca applicata, ecc.).

In sostanza scelte coerenti con le nuove, più concorrenziali condizioni dell’attuale scenario internazionale, ma anche con le nuove opportunità che esso può offrire. Ad esempio, l’ampliamento della movimentazione delle merci provenienti dalla Cina e dagli altri produttori dell’Estremo Oriente stanno infatti lentamente mutando la posizione del Mezzogiorno da”periferia” a possibile “porta d’accesso” all’Europa e ai suoi mercati. Si tratta di condizioni che offrono all’Italia l’opportunità di trasformarsi nella più importante piattaforma logistica europea, e al Mezzogiorno un’occasione di rilancio, attraverso lo sviluppo della logistica e dei servizi ad alto valore aggiunto ad essa collegati, ma anche di attività industriali per la manipolazione delle merci prima della loro collocazione su i mercati.

I dati presenti nel Rapporto Svimez danno conto di una presenza di infrastrutture portuali superiore a quella del Centro-Nord, ma con evidenti deficit di dotazione per la movimentazione e stoccaggio delle merci.

Una migliore dotazione di infrastrutture funzionali è condizione indispensabile per la crescita dell’industria manifatturiera e dei servizi produttivi, ma anche per lo sviluppo dell’industria turistica.

 

4. Lo prospettive di ulteriore avanzamento del processo di industrializzazione del Mezzogiorno sono strettamente legate allo sviluppo di un tessuto di imprese produttive caratterizzate dalla capacità di raggiungere livelli di competitività adeguati alle nuove, assai più concorrenziali, condizioni dello scenario economico.

Si tratta di cambiare orientamento rispetto a un’impostazione complessivamente “debole” delle politiche industriali, nazionali e regionali, in cui hanno prevalso gli interventi “ad assorbimento”, capaci al più di assecondare la specializzazione industriale esistente.

La chiave della selettività è quella cruciale anche nel caso delle piccole e medie imprese meridionali, che hanno costituito negli anni ’90 e nei primi 2000 la componente più dinamica del sistema.

Il parametro di intervento da privilegiare sembra oggi quello delle filiere produttive – da arricchire con l’ispessimento dei settori a più alta produttività relativa e intensità di ricerca – piuttosto che quello del distretto, esposto a qualche rischio di astrattezza quando lo si proietta su un tessuto produttivo, quale quello del mezzogiorno, spesso frammentato e disperso sul territorio.

Tra i vari livelli della politica industriale l’onere di una maggiore selettività ha finito per ricadere sugli strumenti della politica regionale e soprattutto sulla 488/1992. Nel frattempo quest’ultima ha nettamente accresciuto il suo ambito settoriale di operatività, ridimensionando fortemente la parte destinata all’industria manifatturiera; e da ultimo, con la riforma avviata dal cosiddetto decreto sulla competitività – che pure contiene elementi di innovazione - non è parsa avvicinarsi ad un modello di intervento ispirato a obiettivi di arricchimento e modificazione del mix produttivo.

In un quadro internazionale profondamente diverso da quello nel quale furono concepiti strumenti quali i patti territoriali, rivolti ad imprese operanti prevalentemente sui mercati locali, le Regioni avrebbero dovuto già da tempo cominciare a concentrare le risorse sulle imprese destinate a competere sui mercati internazionali. Se ciò non è successo, lo si deve anche a un quadro normativo inadeguato, alla mancanza di opportuni raccordi istituzionali, ma soprattutto alla mancanza di linee strategiche di riferimento nell’azione dello Stato centrale e dell’unione europea.

L’Ue infatti ha continuato ha condurre gli stati nazionali lungo un percorso che agevola, anziché ostacolarla, la distribuzione a pioggia delle risorse: vedi le proposte per la revisione degli Orientamenti in materia di aiuti di Stato a finalità regionali. Secondo queste proposte, l’obiettivo di riduzione degli aiuti postula una diminuzione delle intensità massime di aiuto, compensata, però, da un aumento delle intensità per le pmi anche nelle aree non assistite. Quando si commisura ai problemi di un’industria destinata a confrontarsi con minacce prevalentemente extra-europee, il principio della continua riduzione degli aiuti appare con tutta evidenza vieppiù incongruo. Applicata alle aree in ritardo, questa continua riduzione suona anche come un’implicita condanna quando si traduce in una diminuzione delle intensità agevolative.

L’Ue ritiene inoltre distorsiva per la concorrenza l’introduzione di regimi fiscali differenziati all’interno di un stesso paese e non discorsiva, invece, la previsione di regimi fiscali di favore se applicati agli Stati nella loro interezza (come avviene non solo nei casi dell’Irlanda e della Spagna ma in diversi Stati membri dell’Unione). La penalizzazione del Mezzogiorno rispetto a questi paesi è del tutto evidente. Ed è duplice. Si consideri, infatti, che sul versante del costo del lavoro, l’essere inseriti in una nazione sviluppata comporta per la parte in ritardo un costo del lavoro più elevato, fattore che meriterebbe comunque una compensazione sul terreno contributivo o fiscale.

Occorrerebbe che anche da parte della Commissione europea e degli Stati membri ci si convincesse del fatto che il Mezzogiorno può giocare un ruolo strategico nelle dinamiche economiche che coinvolgono i paesi del Mediterraneo.

 

5. L’Italia potrà riprendersi a svilupparsi a tassi significativi se sarà in grado di offrire opportunità di realizzazione personale e professionale alle nuove generazioni che stanno entrando nel mercato del lavoro.

Al Sud risiedono oltre 9 milioni di persone con età fino a 34 anni, pari a quasi la metà (il 45%) ella popolazione complessiva dell’area; nel Centro-Nord il peso di tale fascia di popolazione è del 35%.

Sulla componente giovanile si scaricano interamente le esigenze di flessibilità del sistema,: ne emerge un quadro del mercato del lavoro duale: estremamente garantito nelle fasce adulte ed estremamente chiuso rispetto alle forze giovani, condannate ad una situazione di precarietà, con effetti negativi sulla posizione contributiva e sulle possibilità di crescita professionale (nonché sulle scelte di vita).

L’attuale sistema di piccole imprese concentrate nei settori tradizionali esprime una bassa domanda di capitale umano qualificato. Su circa 50mila laureati meridionali, 20mila a tre anni dalla laurea sono disoccupati e dei 30mila che lavorano, circa un terzo ha trovato lavoro al Nord.

Tra il ’98 e il 2004 circa 70mila persone, la maggior parte di età compresa tra i 20 e i 29 anni e con un buon livello di istruzione, è fuoriuscita dal Mezzogiorno. Ciò vuol dire che molto dell’investimento formativo che viene effettuato al Sud o si disperde o va a favore delle regioni ricche del Nord.