Distribuzione del reddito e produttività

 

Il volume qui considerato è il II Rapporto dell’Ires (Cgil) su ”Potere d’acquisto, contrattazione, retribuzioni e distribuzione del reddito in Italia e in Europa” (Aa. Vv., I salari nei primi anni 2000, Ediesse, Roma 2005). Il volume si avvale dei contributi di A. Megale, L. Birindelli, G. D’Aloia, R. Pelusi e P. Naddeo. Qui esaminiamo il capitolo (di Lorenzo Birindelli e Agostino Megale) dedicato a Distribuzione del reddito e produttività. Il calo della produttività, il declino dell’Italia, la questione retributiva.

 

Il saggio parte dalla ormai nota constatazione della bassa crescita economica italiana negli anni 2002-2004 e dalla relativa crescita positiva dell’occupazione in quegli stessi anni. E, in coerenza con un quadro di stagnazione, anche la produttività reale per unità di lavoro ha vissuto andamenti negativi.

Il primo interrogativo che si pongono gli autori riguarda le motivazioni che hanno consentito la crescita occupazionale in una fase di stagnazione (e per l’industria, di recessione) e di calo della domanda estera.

Va allora evidenziato come nel triennio 2002-2004 la crescita dell’occupazione si sia concentrata soprattutto in due settori: le Costruzioni e le Altre attività professionali, ovvero i servizi (dove peraltro si è particolarmente sviluppato il lavoro interinale).

In questo periodo inoltre gli operatori (nelle costruzioni) si sono avvalsi di tassi di interesse ai minimi storici (il che ha anche favorito il peso degli oneri finanziari nel conto economico delle imprese).

Per quanto riguarda il cattivo andamento dell’Industria in senso stretto (ovvero esclusa l’Energia) nell’ultimo triennio, va ricordato che esso è il risultato di andamenti settoriali differenziati: ad esempio, le manifatture della moda e buona parte della metalmeccanica (esclusi i Prodotti in metallo) sono state investite dalla recessione.

In questo contesto era lecito attendersi un rallentamento dell’inflazione. Invece si è assistito a una ripresa della stessa per cause soprattutto interne e non in linea con la media europea. Dai dati emerge come la componente del rialzo dei prezzi abbia giocato in questa fase un ruolo importante nella strategia delle imprese (in particolare di quelle non manifatturiere, meno esposte alla concorrenza internazionale).

In merito ai prezzi al consumo il saggio di Megale e Birindelli fa un approfondimento ricorrendo al deflatore implicito dei consumi interni delle famiglie (Istat, Conti economici nazionali), considerato dagli autori una misura più che attendibile dell’inflazione: questo indicatore ha fatto registrare nel lungo periodo una crescita superiore a quella degli indici dei prezzi al consumo. Facendo un esempio, se nel 1975, dopo un periodo di dinamica salariale sostenuta, la retribuzione contrattuale lorda utilizzata dall’Istat per il calcolo dell’indice era per un operaio dell’industria di circa 215 mila lire mensili, per 13 mensilità, la retribuzione mensile media lorda nel 2004 è pari a circa 1.360 euro. Se la retribuzione avesse seguito semplicemente l’indice Foi (ovvero per famiglie di operai e impiegati, quello tradizionalmente utilizzato nei rinnovi dei Ccnl dei metalmeccanici), essa sarebbe stata nel 2004 pari a 950€, quindi un 30% in meno del dato effettivo. Rivalutando invece la retribuzione lorda con il deflatore dei consumi interni si sarebbe arrivati a una cifra superiore di circa 100€, con uno scarto ridotto al 22%. Molto più vicino al dato effettivo il risultato che si ottiene rivalutando le retribuzioni contrattuali con il deflatore del pil, con uno scarto che si riduce al 5%!

La questione del mancato contenimento dell’inflazione si riflette, oltre che sulla competitività del Paese, anche sullo scarto tra inflazione reale e inflazione programmata. L’obiettivo di un’inflazione che scende nel breve su valori attorno all’1,5% è stato con regolarità smentito da una dinamica che si è attestata tra il 2 e il 3%.

La tendenza progressiva al declino del tasso di crescita del pil italiano si inserisce in un quadro che nell’Ue trova eccezioni.

Negli anni ’70 sia l’Italia che la Spagna , ad esempio, partivano da un identico tasso di crescita (3%), superiore alla media europea. Negli anni ’80 la Spagna è passata al 2,9% e poi negli anni più recenti al 2,6%, mentre l’Italia è scesa prima al 2,3% e poi all’1,4%.

Stesso discorso si potrebbe fare per l’andamento della produttività per ora lavorata.

Il rallentamento della crescita e della produttività – si chiedono gli autori – è da ricollegare a un rallentamento degli investimenti fissi lordi produttivi? Dai dati sembra emergere il fatto che il declino del tasso di crescita si verifica nonostante l’andamento, relativamente sostenuto, degli investimenti produttivi. Sembra quindi di assistere ad una riduzione dell’efficienza degli investimenti produttivi nel produrre crescita.

Allarmante anche il dato relativo alla spesa in Ricerca & Sviluppo in rapporto al valore della produzione. Pur in rapporto con il nostro modello di specializzazione, fa comunque impressione verificare la distanza, non solo con gli Stati Uniti e il Giappone, ma anche rispetto a Francia, Germania e Regno Unito. Quello che allarma maggiormente è l’aumento di tale distanza nel corso degli anni ’90.

Negli anni 2002-2004 vi è stata una difficoltà delle retribuzioni contrattuali a seguire l’andamento dei prezzi al consumo, al contrario di quanto accaduto nel periodo 1996-2000, quando si era riusciti ad effettuare un parziale recupero rispetto a quanto “lasciato sul terreno” nel 1993-95.

Nell’insieme del periodo 1993-2004, le retribuzioni contrattuali lorde hanno perso terreno rispetto all’indice dei prezzi al consumo, perdita che si amplifica se invece del tasso medio dell’indice dei prezzi al consumo (+2,7%) si considera il deflatore della spesa per consumi (3,4%).

Il saggio di Megale e Birindelli prende poi in considerazione il cosiddetto slittamento salariale allargato, comprendendo in questo le variazioni di tutte le possibili voci che differenziano la retribuzione di fatto da quella contrattuale standard: contrattazione di secondo livello ed individuale, una tantum ed arretrati, straordinari ed indennità ed “effetto composizione”, ovvero le modifiche sulla struttura qualitativa dell’occupazione che hanno un impatto sulle retribuzioni medie.

Dal punto di vista delle vicende dei decenni trascorsi, si vede come con lo slittamento salariale viene gestito, con esiti alterni il conflitto distributivo.

Nel 1993-95, nella fase di rodaggio dei nuovi meccanismi contrattuali e di grande instabilità del quadro macroeconomico, la crescita contrattuale viene nettamente sopravanzata dall’inflazione e lo slittamento assume la funzione di tutela del potere d’acquisto. I tale periodo si determina anche una notevole crescita della produttività reale, che resta praticamente, in questa fase, tutta alle imprese.

Nel 1996-2001, la crescita delle retribuzioni di fatto innescata dalla contrattazione nazionale riesce a tenere il passo con l’inflazione e lo slittamento (1,3%), che corrisponde sostanzialmente in media d’anno a quello del periodo precedente (1,2%), riesce a incidere sulla distribuzione del reddito. Il tasso d’incremento reale della produttività si riduce considerevolmente, ma resta comunque positivo.

Nel 2002-2004 la forbice tra inflazione ed incrementi contrattuali si riapre, e lo slittamento assume nuovamente la funzione di tutela del potere di acquisto. Poiché in tale fase la produttività reale non aumenta e quella corrente cresce meno dell’inflazione al consumo, anche la semplice difesa dell’inflazione ha un impatto sulla distribuzione del reddito, accrescendo la quota percentuale del lavoro sul prodotto lordo.

Lo slittamento (0,9%) si riduce di qualcosa rispetto al periodo precedente, passando dal 39% al 31% degli aumenti retributivi complessivi.

La questione dei livelli, e quindi dei differenziali di produttività e di reddito per dipendente (e quindi anche dello wage gap tra retribuzioni contrattuali e di fatto), si declina nel nostro paese non solo per settore, ma anche per dimensione d’impresa e per area geografica.

Dai dati la variabile “settore” ne esce ridimensionata a favore del ruolo della dimensione e dell’area geografica. Risulta inoltre un rapporto abbastanza stretto tra differenziali di costo del lavoro e differenziali di produttività (lorda) del lavoro.

Il costo del lavoro medio nelle piccole imprese (fino a 19 addetti) è nettamente inferiore a quello nelle imprese con almeno 20 addetti, in ciascun settore e per ogni area.. Nel 2002 il costo del lavoro medio oscillava tra i 18,5 mila€ annui delle imprese meridionali dell’Industria in senso stretto e gli oltre 36 mila€ delle medio-grandi imprese del Nord-Ovest appartenenti alla stessa branca.. Il costo del lavoro medio è quindi nelle prime pari a poco più della metà di quello del secondo gruppo di imprese.

In termini di retribuzione annua lo scarto è di circa 12mila€ annui. In termini di retribuzione netta tale scarto si traduce in circa 550-600 € mensili.

Sempre dall’Indagine sulla struttura e competitività del sistema delle imprese industriali e dei servizi dell’Istat si deduce la composizione dell’occupazione per ciascuna branca e area geografica. A livello nazionale circa il 62% dei dipendenti risulta occupato nelle imprese con almeno 20 addetti, ed il restante 38% in quelle con non più di 19. Nel Meridione la quota dei dipendenti occupati nelle piccole e piccolissime imprese sale a più del 47%.

La produttività lorda (valore aggiunto per addetto) riflette un quadro comparativo non troppo dissimile da quello osservato per i redditi da lavoro dipendente, con una netta differenziazione per dimensione d’impresa e ed un distacco del Mezzogiorno rispetto alle altre aree del Paese.

I differenziali di costo non si riflettono sulla quota distributiva che va al lavoro: al contrario, nel confronto all’interno di ciascuna branca in una singola area la quota distributiva è più elevata nelle imprese con meno di 20 addetti, dove il costo medio invece è inferiore. Ciò riflette evidentemente una produttività lorda (cioè al lordo degli ammortamenti) nettamente inferiore.

Tali differenziali di produttività risentono della diversa intensità di investimenti nei processi produttivi: più elevata è tale intensità più elevato deve essere il valore aggiunto per addetto che deve far fronte a un maggior peso degli ammortamenti. Infatti, a livello nazionale, il livello degli investimenti per addetto nel 2002 non arriva in media nelle imprese più piccole alla metà di quello delle imprese di maggiori dimensioni; per branca, tale rapporto è pari al 50% nell’Industria in senso stretto, al 70% nelle Costruzioni e scende sotto il 40% nel terziario.

Anche ponendo praticamente pari a zero l’incidenza degli ammortamenti sul prodotto lordo, e di conseguenza facendo coincidere produttività lorda e netta, i differenziali retributivi rispetto alle imprese medio-grandi dovrebbero comunque rimanere necessariamente cospicui. Essi risultano quindi iscritti nel Dna delle piccole imprese, nelle quali i minori investimenti si traducono in minore produttività anche al netto degli ammortamenti.

 

(sintesi a cura di Gianni Ferrante)