Un modello obsoleto? Crescita e specializzazione dell’economia italiana

 

Il saggio che qui presentiamo, di Riccardo Faini e André Sapir, è inserito nel volume collettaneo, di cui abbiamo gia avuto modo di parlare nelle nostre Letture, “Oltre il declino”, a cura di Tito Boeri, Riccardo Faini, Andrea Ichino, Giuseppe Pisauro e Carlo Scarpa, Il Mulino, Bologna 2005.

Il saggio ci è utile per mettere ancora meglio a fuoco la lettura e l’interpretazione delle difficoltà nella crescita dell’economia nazionale, le sue determinanti e le priorità. Ci serve per rimuovere luoghi comuni e per vedere meglio aspetti ineliminabili.

 

Partendo dalle origini recenti dei nostri problemi di sviluppo, il saggio ricorda come tra il 1950 e il 1980 l’Italia abbia costantemente ridotto in termini di reddito pro capite il proprio divario con l’Europa. Nei 25 anni successivi il panorama dell’economia però è cambiato radicalmente. Il divario con l’Europa dopo essersi annullato si stabilizza fino all’inizio degli anni ’90 per poi riaprirsi.

In soli 9 anni, tra il 1995 e il 2004, il reddito pro capite diminuisce, in rapporto a quello medio europeo, dal 102,6% al 97,4%.

Produttività e salari. Nel dopoguerra l’andamento delle retribuzioni salariali ha svolto un ruolo decisivo nel condizionare l’evoluzione del ciclo economico. Nell’ultimo decennio però la relazione positiva tra moderazione salariale e crescita economica non trova riscontro nei dati.

L’indagine dell’Istat sui salari indica che tra il 1997 e il 1999 i salari, sia contrattuali sia di fatto, registrano una crescita positiva ma modesta del proprio potere d’acquisto. Dal 1999 in poi, la tendenza si inverte e i salari nominali crescono a un tasso inferiore rispetto ai prezzi al consumo. Dal 1999 al 2003, la perdita cumulativa di potere d’acquisto delle retribuzioni di fatto è pari all’1,5% se misurato con l’indice nazionale dei prezzi al consumo (Nic).

Quali le cause dell’andamento depresso dei salari?

Che sia il riflesso – si chiedono gli autori – delle maggiori possibilità di accesso al mercato del lavoro di una forza lavoro meno qualificata o, se più istruita, più giovane e quindi meno esperta e meno produttiva?

Se così fosse avremmo dovuto osservare un’accelerazione della crescita del reddito, sospinto da un’occupazione e da tassi di attività in continuo aumento. Ma così non è stato: il reddito italiano rispetto a quello degli altri paesi industrializzati è diminuito.

Il fatto è che le difficoltà dell’economia italiana hanno radici strutturali.

In una situazione in cui la produttività del lavoro stenta a crescere, i salari reali non possono aumentare, pena la totale perdita di competitività del sistema economico.

A sua volta la crescita anemica della produttività del lavoro va attribuita al crollo della produttività totale dei fattori e non invece alla riduzione dell’intensità di capitale.

L’andamento della quota di mercato delle esportazioni italiane. Tra il ’96 e il 2001, la quota di mercato mondiale delle esportazioni italiane cala dal 4,7% al 4,0%.

La perdita di peso delle esportazioni italiane è certo dipesa da fattori congiunturali come l’apprezzamento della lira nei confronti dei tassi di cambio (fino al ’98) e soprattutto dalla rivalutazione del dollaro (fino al 2001) e dall’aumento del prezzo del petrolio. In questo periodo anche Francia e Germania registrano contrazioni. Ma quando questi elementi terminano di svolgere un ruolo negativo gli altri paesi si riprendono, l’Italia no.

Questo perché i nostri ritardi sui mercati esteri sono legati a problemi strutturali.

E’ colpa dell’euro? Le difficoltà di natura strutturale non possono essere attribuite all’adesione all’Unione economica e monetaria europea e all’adozione della moneta unica, tanto più che altri paesi che hanno adottato l’€ non hanno sofferto i cali di crescita della produttività che noi abbiamo vissuto.

Certo nel 1999 con la fissazione di parità irrevocabili tra le monete europee l’economia italiana ha perso una valvola di sfogo cui aveva fatto ricorso fin dal ’74: svalutazione del tasso di cambio per compensare gli svantaggi competitivi dell’economia.

L’ingresso nell’euro non ha coinciso con un’erosione della competitività dell’economia e delle esportazioni italiane. L’adesione alla Ue si riflette in una forte riduzione della volatilità del tasso di cambio reale e, di conseguenza, in una maggiore stabilità della competitività della nostra economia. E la maggiore stabilità dovrebbe incoraggiare gli investimenti delle imprese.

Il modello di specializzazione dell’Italia. Il vantaggio comparato dell’Italia si situa prevalentemente nei settori tradizionali, a bassa intensità di manodopera qualificata. Nel passato questo modello non ha penalizzato il nostro Paese. Questa rendita è stata però progressivamente erosa dalla crescente integrazione dei paesi in via di sviluppo nell’economia mondiale.

Nel tempo si è rafforzato il vantaggio comparato dell’Italia in settori tradizionali, quali il tessile, gli articoli in minerali non metalliferi, i mobili, gli articoli in cuoio e pelletteria e persino l’abbigliamento, sempre più esposti alla concorrenza dei paesi emergenti. Si è passati poi a una crescente despecializzazione (autoveicoli, macchine elettriche, macchine per ufficio).

Ma il dato saliente è la stabilità del modello di specializzazione dell’Italia, il ridotto cambiamento nel tempo. Per esempio, la Francia , a differenza dell’Italia, negli ultimi decenni ha perso posizioni proprio nei settori tradizionali e ha ridotto i propri svantaggi nei settori delle telecomunicazioni e degli autoveicoli.

Sulla base dell’utilizzo di una serie di fonti (Inps, banca dati Stan, Ocse), Faini e Sapir valutano il vantaggio comparato confrontando diversi paesi tra il 1980 e il 2002. Se ne traggono le seguenti conseguenze:

- il vantaggio comparato dell’Italia rispetto agli altri paesi si conferma nei settori a bassa intensità di capitale umano;

- il vantaggio comparato sopra richiamato si è andato accentuando nel periodo considerato, in netta controtendenza con gli altri paesi;

- la divaricazione del modello di specializzazione dell’Italia ha luogo non solo rispetto ai paesi di più antica tradizione industriale, come Francia e Germania, Regno Unito e Stati Uniti, ma anche rispetto alla Spagna.

Si conferma il risultato per cui fino alla metà degli anni ’80 l’Italia era relativamente ben posizionata per sfruttare la crescita degli scambi internazionali. La capacità di tale modello però si deteriora nel decennio successivo. La Spagna assai più dell’Italia è riuscita nel contempo a modificare il proprio modello di specializzazione.

Le determinanti del modello di specializzazione. L’Italia è un paese in cui da sempre, perlomeno dal secondo dopoguerra, la dotazione di capitale umano risulta relativamente debole.

Il divario (nel livello medio di istruzione) tra l’Italia e gli altri paesi industrializzati non solo non si riduce ma va allargandosi. Inoltre il ritardo accumulato dall’Italia è rappresentato dalla percentuale di individui che hanno completato corsi di formazione post-secondaria sia di tipo universitario che non.

Certamente negli ultimi quarant’anni il livello di istruzione medio della popolazione italiana è cresciuto. Non si è ridotto, però, il divario con gli altri paesi industrializzati che è invece andato accentuandosi in termini sia di anni medi d’istruzione sia di istruzione universitaria.

Oltre il declino? Il ruolo cruciale della politica economica. A causa del suo modello di specializzazione l’Italia si trova ad affrontare una sempre più forte concorrenza dei paesi emergenti.

Il vantaggio comparato dell’Italia è eccessivamente sbilanciato, soprattutto in paragone agli altri paesi industrializzati, verso i settori che fanno relativamente più uso di manodopera poco qualificata e investono relativamente meno in ricerca e sviluppo.

Un intervento sull’offerta di istruzione è essenziale per superare lo stallo e le insufficienze del nostro modello di specializzazione..

Per uscire dalla trappola l’Italia deve agire simultaneamente su almeno due fronti. 1) Migliorare il sistema di istruzione e aumentare l’offerta di laureati, soprattutto in scienze e tecnologia. 2) La politica pubblica italiana deve favorire la domanda di istruzione da parte del settore privato promuovendo l’innovazione e intervenendo sui meccanismi che nel mercato del lavoro ancora scoraggiano l’investimento in istruzione e in formazione.

Le autorità pubbliche dovrebbero concentrarsi su azioni di natura orizzontale (più che di natura settoriale), avendo come obiettivo le attività e non i settori. In tal modo si possono correggere specifici fallimenti del mercato che influenzano contestualmente una pluralità di settori. Inoltre le attività sussidiate devono avere un esplicito potenziale di ricadute tecnologiche (l’attività di ricerca e sviluppo, sia come ricerca di base sia come ricerca applicata).

Per quanto riguarda il finanziamento alla ricerca va ricordato che ad essere carente (soprattutto in termini quantitativi) è la ricerca privata più che quella pubblica. Andrebbe quindi seriamente valutata la possibilità di introdurre un sistema di crediti di imposta a favore degli investimenti in R&S. Tale sistema dovrebbe essere di natura permanente, al contrario di quelli introdotti in questa legislatura.

 

sintesi a cura di Gianni Ferrante