Politica industriale: il ruolo della finanza e le liberalizzazioni
I. Crescita dell’impresa e complessità finanziaria Sul
ruolo della finanza in rapporto allo sviluppo delle imprese le
conoscenze sono ancora relativamente poche e i sospetti sono frequenti,
a volte a ragione. Negli ultimi anni il mondo finanziario è stato
spesso protagonista di fenomeni di ridotta trasparenza, di atteggiamenti
prevalentemente speculativi, quando non di vicende penali. Sarebbe però
un gravissimo errore rinunciare ad approfondirne il ruolo in termini di
investitore, non cogliere le evoluzioni positive del sistema bancario.
La conseguenza sarebbe quella di rendere più esile la strumentazione
utile a favorirne un’ulteriore democratizzazione e una più vasta
utilizzazioni ai fini della crescita del sistema produttivo. Per questo diamo qui conto di due recenti saggi apparsi sull’ultimo numero della Rivista “Economia e politica industriale”, n. 2, 2005 (Fabrizio Guelpa, Crescita dell’impresa e complessità finanziaria, e Liberalizzazione e politica industriale, di Fabio Gobbo e Cesare Pozzi). Il saggio parte dall’assunto che un’impresa, per crescere, deve saper gestire la funzione finanziaria. Infatti più l’impresa cresce più diventa complessa l’attività di investimento: bisogna gestire attività di acquisizione e/o di internazionalizzazione. In questa prospettiva non può essere la piccola banca locale a seguire lo sviluppo d’impresa né i soci dispongono dei mezzi necessari per investire in azienda. Ad esempio, un nuovo impianto potrebbe non essere realizzato perché la sua dimensione minima efficiente richiederebbe un esborso non alla portata dei soci. Nella sostanza il passaggio da una struttura finanziaria in cui vi è soltanto autofinanziamento ad una invece in cui vi sono anche altre fonti di finanziamento è una discontinuità organizzativa rilevante, che comporta complessità crescenti da gestire. La prima controparte di rilievo che viene avvicinata è il sistema bancario ed in particolare la piccola banca, specialmente se l’impresa opera lontano dai grandi centri urbani. Le piccole banche hanno di solito maggiori legami con il contesto socio-economico (e con le pmi locali). In questo contesto l’impresa può operare alterando solo in misura molto limitata il suo comportamento organizzativo. Infatti le pmi si finanziano soprattutto a breve termine, e il rischio di credito in questo caso è oggettivamente più limitato (servono meno informazioni, non servono business plan, piani finanziari, ecc.). Ne consegue però che questo tipo di banca è poco idoneo come finanziatore di investimenti di più ampia portata. Nel 2003 la quota di finanziamenti oltre i 5 anni rappresentava solo il 32% del totale dei prestiti, contro valori compresi tra il 46% in Spagna e il 64% in Germania. Negli ultimi anni vi è stato comunque un trend verso la riduzione dello squilibrio finanziario tra breve e lungo. L’accordo di Basilea dovrebbe poi dare ulteriori incentivi sia sul fronte della domanda che dell’offerta di credito. Con il processo di crescita le imprese tendono a difendere questo approccio semplificato con le banche, replicando su larga scala attraverso una pluralità di relazioni bancarie, anche con banche nazionali. Nel nostro sistema, infatti, prevale ancora il multiaffidamento. A fronte di un flusso limitato di ricavi nessuna banca ha incentivo per un’attenta politica di screening e monitoring: il rischio rischia di venir gestito con principi di tipo assicurativo. Inoltre le banche hanno pochi strumenti per essere propositive, in quanto manca la conoscenza del cliente. Proseguendo nel processo di crescita, un approccio più intenso con la banca più grande diventa necessario. Le politiche di investimento diventano più complesse, si affrontano i rischi di esportazioni in mercati lontani. Un maggiore orientamento alle banche più grandi è diventato negli ultimi anni spesso una via obbligata, perché il processo di concentrazione che ha interessato il sistema bancario nell’ultimo decennio e la parallela riduzione della presenza delle banche locali, hanno interrotto il rapporto tra localismo industriale e localismo bancario (che ha caratterizzato per lungo tempo le aree distrettuali). Tutte le piccole imprese pertanto si trovano strutturalmente a doversi interfacciare in misura minore, rispetto al passato, con banche di dimensione locale. E’ diffuso il timore che le grandi banche, spesso lontane, non siano in grado di soddisfare le esigenze di finanziamento delle pmi. L’evidenza statistica mostra in realtà che il credito concesso alle pmi negli ultimi anni è mediamente cresciuto di più rispetto alle grandi imprese. Una maggiore interazione con le banche di dimensione più grande, affrontandone i costi organizzativi, è strutturalmente un fattore che sorregge la competitività di imprese che abbandonano le dimensioni più piccole e puntano a diventare per lo meno “medio-piccole”: un’esigenza di particolare attualità. Essere più grandi non è tanto un valore in se stesso, quanto una precondizione per poter essere competitivi. Per alcuni settori sono oggi le componenti intangibili (brevetti, capacità di R&S, controllo della catena distributiva) ad offrire maggiore contributo al valore aggiunto, con la conseguenza che le imprese più dinamiche tendono ad investire in risorse intangibili e ad esternalizzare le fasi produttive più semplici. Le banche sono dunque chiamate a finanziare investimenti intangibili con profili di rischio, forme contrattuali e meccanismi di monitoring diversi da quelli tradizionali e tipici delle piccole banche locali. Le politiche di restrizione del credito in Italia, quando la congiuntura si fa avversa o sono le piccole imprese che mostrano un deterioramento del loro profilo di merito creditizio, dipendono fortemente sia dalla presenza di relationship banking, sia dalla struttura del mercato del credito in termini di concentrazione. Nel processo di crescita può giungere il momento in cui i mezzi propri non bastano e occorre appoggiarsi a investitori esterni. Aprirsi agli investitori esterni può voler dire andare direttamente in borsa o ricorrere al private equity. Quotarsi non è sicuramente indice di “evoluzione” finanziaria per sé: a parità di dimensione esistono ottime imprese quotate ed altrettanto ottime imprese non quotate. Il numero delle imprese industriali quotate rimane particolarmente basso. In Italia si va in Borsa in una fase del processo di crescita più avanzata rispetto a quanto succede altrove. Le imprese quotate italiane sono più grandi che in altri paesi. La “quadratura del cerchio” tra gigantismo e marginalità delle società quotate in Italia dipende dal flottante, ovvero dalla percentuale della capitalizzazione effettivamente negoziabile sul mercato (ovvero al netto di partecipazioni rilevanti, patti di sindacato, partecipazione dello stato e/o dei soci fondatori e qualsiasi forma di restrizione alla circolazione delle azioni). Il flottante delle società italiane è solo di poco superiore al 60% del capitale, contro valori che vanno dal 70 delle società francesi al 91% di quelle finlandesi. Ciò è connesso allo scarso grado di apertura al mercato delle imprese italiane. Il controllo infatti potrebbe essere mantenuto anche con una percentuale di flottante maggiore, come avviene in altri paesi europei. Ma quali ostacoli vi sono alla quotazione? Insieme ai costi elevati, i corsi depressi non permettono di raccogliere abbastanza capitali perché il “grande salto” valga la pena. In Italia dal 2001 il saldo (tra società che si quotano e quelle che si cancellano) è negativo a -19 società, pari al 7% delle società quotate. Il vero problema per le imprese italiane, è tuttavia di carattere strutturale, in quanto la convenienza economica alla quotazione va valutata soprattutto nel lungo periodo. I principali timori alla quotazione sono legati alla sensazione di una complessità organizzativa. Inoltre non vengono gradite la maggiore visibilità che segue alla quotazione, vista come un freno alla libertà decisionale delle imprese e la maggiore esposizione a controlli provenienti da soggetti esterni. La crescente consapevolezza che nel nuovo contesto di mercato la dimensione assume un ruolo più importante come fattore competitivo potrebbe assumere anch’essa un ruolo rilevante. I dati evidenziano alcune aree di vuoto del mercato italiano: poche operazioni su imprese piccole (che sarebbe opportuno crescessero rapidamente); poche anche tra le medie (che crescendo dovrebbero andare ad ampliare la schiera delle molte non grandi imprese rimaste); poche infine su iniziative innovative. Il capitale investito assume dunque un ruolo di rimpiazzo, più che di integrazione dei mezzi propri dell’imprenditore. In conclusione le imprese che crescono devono diversificare le fonti finanziarie, a prezzo di una complessità organizzativa sempre maggiore. A volte le imprese preferiscono concentrare le energie sulla risoluzione delle complessità legate alla sfera produttiva, piuttosto che su quella finanziaria. Ne può seguire uno squilibrio, che rende fragili anche le strategie produttive. Spesso, la mancata disponibilità ad affrontare la complessità finanziaria induce a rinunciare alla crescita. La linea di tendenza va in questo momento in direzione di richiedere di affrontare maggiori complessità, per di più in tempi rapidi. Per molte ragioni la dimensione delle imprese deve essere aumentata, se non altro per poter rimanere sul mercato. Tra i molti problemi che le imprese devono risolvere, probabilmente quello di una gestione finanziaria più complessa non è il maggiore. II.
Liberalizzazione e politica industriale Si è ormai affermata una visione europea della politica industriale. Le direttrici seguite si possono così sintetizzare: - costituzione di un mercato unico; - politica di selezione dei campioni europei; - implementazione delle norme di tutela della concorrenza; - politiche per l’innovazione. Nel perseguire questi obiettivi s i è assistito spesso ad un comportamento imitativo nei confronti del sistema statunitense. La promozione della concorrenza ha assunto soprattutto la veste della liberalizzazione dei servizi a rete. L’azione delle istituzioni comunitarie si è fondata su due idee base: che una maggiore concorrenza avrebbe dovuto allenare le imprese a sostenere una più intensa pressione concorrenziale, e che l’arretramento delle gestioni pubbliche a favore del privato si sarebbe tradotto in un incremento di efficienza. Anche sull’innovazione l’approccio comunitario sembra ispirato ad una filosofia analoga a quella americana: vedi l’Agenda di Lisbona che pone per l’economia europea, fondata sulla conoscenza, l’obiettivo di diventare la più competitiva del mondo entro il 2010. Un obiettivo certamente ambizioso. Il ritardo accumulato nei confronti degli Stati Uniti è tale che sembra difficile un recupero, senza strategie mirate ed un ben più energico impegno diretto del settore pubblico. Occorre prendere atto che: a) il mercato unico è stato una chimera in Europa fino agli anni ’90; b) l’ostruzionismo dei governi nazionali ha reso irrealizzabile l’adozione di efficaci politiche complementari; c) il progetto di creazione di un sistema di campioni realmente comunitari non è mai partito in modo incisivo ed è di fatto imploso nella creazione di una struttura di campioncini nazionali di dimensione enormemente inferiore rispetto ai concorrenti d’oltreoceano, d) la creazione di un tessuto industriale di dimensioni rilevanti attraverso un diffuso supporto da parte dei governi degli Stati membri, è stata fortemente osteggiata dagli interventi della Commissione in materia di aiuti di Stato; e) l’effetto congiunto del mancato completamento del mercato unico e dell’assenza di imprese di dimensione comunitaria ha facilitato l’ingresso di concorrenti extraeuropei; f) le politiche comunitarie per l’innovazione non sono state in grado di tenere il passo con i risultati conseguiti dal sistema pubblico-privato degli Stati Uniti. La crescente perplessità nei confronti dei risultati emersi dalle politiche comunitarie ha posto le basi perché si affermasse nell’ultimo ventennio una particolare visione del mercato per cui questo costituiva lo strumento più efficace per superare le barriere poste dalla spinta degli Stati membri. In particolare, per i servizi considerati essenziali per la competitività (trasporti, energia, comunicazioni), il graduale arretramento dello Stato nella gestione diretta è avvenuto nel presupposto che il monopolio verticalmente integrato e la gestione centralizzata da parte dell’autorità pubblica generassero un elevato grado di inefficienza. Ma aldilà dei rilievi specifici che è possibile muovere sui singoli settori, è stata la contrapposizione tra gli interessi del mercato e della collettività a generare i maggiori inconvenienti. Essa si è conclusa spesso a favore dei primi. Il fatto è che il mercato quale canale principale di finanziamento offre grandi opportunità, ma soffre di un indiscutibile orientamento ai risultati di breve periodo. Questo stato di cose ha fornito alle imprese incentivi incompatibili con la possibilità di intraprendere percorsi di investimento coerenti con l’obiettivo pubblico di potenziare la dotazione delle infrastrutture di rete, curarne la manutenzione e provvedere alla loro gestione tecnica e regolazione. I rischi segnalati si sono realizzati in tutti i paesi e in misura più o meno ampia in tutti i settori a rete oggetto di liberalizzazione e di ristrutturazione (telecomunicazioni, trasporto ferroviario, elettricità). Nelle telecomunicazioni i meccanismi di mercato hanno portato a privilegiare soluzioni di investimento e tecnologie caratterizzate da bassa rischiosità economica in quanto prevalentemente basate sull’utilizzo delle infrastrutture esistenti e trainate principalmente dalla domanda, con la conseguenza di una disomogeneità in termini di distribuzione territoriale degli investimenti. Con riferimento al settore elettrico è possibile soffermarsi sulla logica alla base delle politiche d’investimento e dell’affannoso perseguimento di strategie di multiutility da parte dell’operatore ex monopolista Enel che hanno portato, dopo la creazione di Wind, a convogliare verso il settore delle telecomunicazioni miliardi di euro nel corso degli ultimi anni fra sottoscrizioni di capitale, acquisizioni e ripiani di perdite. Aldilà dei risultati reddituali ottenuti che possono o meno aver sorriso agli azionisti di Enel, è giusto interrogarsi sui possibili risultati che si sarebbero conseguiti se almeno una parte di queste risorse fosse stata destinata alla ricerca e allo sviluppo di tecnologie produttive maggiormente compatibili con gli obiettivi di sostenibilità ambientale oltre che naturalmente a nuovi investimenti infrastrutturali e in capacità di generazione. E’ quindi utile riflettere sul modello delle Autorità indipendenti che nella ridefinizione delle politiche di intervento nell’economia e del ruolo dello Stato regolatore costituiscono l’elemento di maggior cambiamento sotto il profilo istituzionale. Con
riferimento alle Autorità indipendenti, si è soliti distinguere,
seppur in presenza di un’estrema eterogeneità derivante
dall’assenza di un disegno strategico complessivo, fra due distinte
tipologie. Le prime, le Autorità di garanzia – cui vanno ricondotte,
ad esempio, l’Autorità Garante per La seconda tipologia comprende, invece, le Autorità indipendenti di regolazione (Agenzie) che hanno trovato, una rapida diffusione proprio nei settori caratterizzati dalla presenza di infrastrutture di rete. L’indipendenza dovrebbe essere interpretata soprattutto come autonomia nella scelta degli strumenti più idonei al raggiungimento delle finalità cui l’intervento regolatorio è indirizzato e non già un valore assoluto. La responsabilità di definire gli obiettivi dell’intervento regolatorio non può, a sua volta, essere giustificata sulla base di considerazioni tecnocratiche, ma deve rimanere politica dato che le scelta effettuate incidono sul benessere collettivo (ad esempio la distribuzione del reddito) di cui il Governo è di principio depositario in quanto soggetto politicamente legittimato. Da quanto osservato discende l’esigenza di una maggiore consapevolezza che anche la logica delle liberalizzazioni può conoscere delle debacle e che il tecnocrate più capace ed onesto non è comunque un soggetto politicamente legittimato ad assumere le decisioni proprie di un Governo, che non siano, logicamente, quelle che attengono specificatamente alla Costituzione ed al Parlamento. L’incapacità di governare in un’ottica di lungo periodo l’evoluzione degli investimenti di rilevanza sociale ed infrastrutturale e le difficoltà di ricondurre il sistema delle “politiche economiche” ad una chiara responsabilità “politica”, tuttavia, non rappresentano gli unici problemi. Sullo sfondo riposa una questione basilare. Il semplice paradigma della concorrenza non è sufficiente a fornire lo stimolo necessario a superare periodi di crisi con le caratteristiche che abbiamo visto all’opera nei nostri sistemi economici negli ultimi anni. Servono delle politiche attive. Gli elementi più rilevanti intorno ai quali si gioca questa partita ruotano intorno al tema della globalizzazione. Si tratta di un tema che, in effetti, è stato sin dall’inizio trattato all’interno delle teorie del commercio internazionale in termini di benefici dell’espansione delle aree di libero scambio. Con il sostegno di illustri economisti, circolano tuttavia anche alcune interpretazioni meno ortodosse, alle quali occorre riconoscere per lo meno il merito di stimolare riflessioni non convenzionali. John Kenneth Galbraith ha sostenuto l’idea che dietro il processo di globalizzazione riposasse una malcelata politica di penetrazione economica aggressiva degli Stati Uniti nei confronti degli altri Paesi. L’idea sottostante è che la crescita esponenziale degli scambi internazionali è stata in origine pensata “a senso unico”. Le imprese statunitensi hanno da sempre cercato di sfruttare le nuove opportunità offerte dai maggiori spazi per il commercio internazionale soprattutto allo scopo di mettere in atto un intenso processo di delocalizzazione produttiva. Le ragioni di questa scelta strategica erano tutt’altro che umanitarie: beneficiare dei salari di sussistenza e della scarsa tutela del lavoro dei paesi in via di sviluppo; approfittare dell’inesistenza di normative ambientali; talvolta sfruttare addirittura i vantaggi offerti da governi compiacenti. Tenendo fede alla loro strategia sostanzialmente imitativa, i paesi europei si sono mossi su questa stessa falsariga, ma con un’incisività completamente diversa, e, soprattutto, correndo rischi tutt’altro che trascurabili. Il fenomeno della delocalizzazione può assumere, in effetti, connotati preoccupanti quando diviene strutturale, soprattutto nei sistemi industriali che non brillano per il contenuto tecnologico delle loro produzioni. Il pericolo è quello di depauperare il sistema produttivo interno contribuendo alla creazione di una intensa concorrenza estera per i prodotti nazionali. Si tratta di un’idea che deve essere chiara negli Stati Uniti che con questo obiettivo hanno da sempre incentivato un’intensa immigrazione intellettuale di qualità. Lo sviluppo inatteso, che ha ridotto di molto la governabilità dei processi di globalizzazione per i sistemi economicamente più avanzati, è rappresentato dal fatto che l’evoluzione delle condizioni politiche generali ha portato “troppo rapidamente” una parte “troppo grande” del mondo ad avviarsi verso condizioni di mercato. Senza le conquiste sociali per raggiungere le quali i sistemi occidentali hanno combattuto per decenni, quei sistemi si stanno affacciando al mercato “globale” secondo un modello di sfruttamento “proto-capitalistico” delle risorse disponibili, fatto di salari di sussistenza ed orari massacranti di lavoro. Ma la minaccia per il “modello occidentale di vita” muove anche lungo due direttrici diverse, ed altrettanto insidiose. La prima direttrice è sicuramente quella ambientale. Le produzioni di molti paesi in via di sviluppo hanno beneficiato della competitività che deriva loro da normative ambientali più permissive di quelle nostrane, e della mancanza di approcci articolati al problema del controllo e della gestione degli scarti dei processi produttivi e di consumo. Sempre sul piano ambientale, un ulteriore fronte aperto è quello legato alla preoccupazione, diffusa e fondata, che gli elevati e persistenti tassi di crescita delle diverse economie possano finire per esercitare una pressione insostenibile sull’utilizzo delle risorse naturali. A testimoniarlo indiscutibilmente stanno l’incremento vertiginoso del prezzo delle materie prime e dei noli marittimi dovuto all’andamento della domanda proveniente soprattutto dalla Cina, ed il modo in cui ciò stia aggravando i problemi di competitività delle nostre industrie. Allo stesso tempo, rispetto al vertiginoso aumento del prezzo del petrolio si inizia a parlare con sempre maggiore preoccupazione del raggiungimento del cosiddetto peak oil – il momento in cui la maggior parte dei pozzi disponibili avrà raggiunto la metà del suo sfruttamento ed i processi estrattivi inizieranno ad avere rendimenti decrescenti – e ciò può portare ad una drastica svolta nel costo delle fonti convenzionali di energia.. Accanto a quello ambientale, un secondo aspetto, minaccia di modificare gli scenari internazionali. Si tratta del cosiddetto fenomeno della “commoditizzazione”, che ha assunto negli ultimi anni connotati del tutto nuovi. Fino ad alcuni anni fa, quando si nominava la concorrenza proveniente dalle economie emergenti, si faceva implicitamente riferimento ai vantaggi di costo derivanti dallo sfruttamento di una forza lavoro impegnata in produzioni a bassa tecnologia e retribuita con salari di sussistenza. Si è, in generale, prestata sempre poca attenzione alla possibilità che i paesi in via di sviluppo potessero maturare atteggiamenti imitativi efficaci nell’utilizzo di tecnologie sofisticate. India e Cina sono destinate a sovvertire, e in parte lo hanno già fatto, le visioni convenzionali su ciò che dovrebbe essere considerato bassa tecnologia, mostrando che anche alcune produzioni fino a poco fa considerate “di punta” non possono essere considerate a riparo da ogni rischio. La
forza dell’India nel software non è un mistero per gli esperti e Il vero problema del quale dovremmo occuparci come economisti industriali, è che nell’uso quotidiano delle schematizzazioni teoriche sembrano essersi annidati numerosi malintesi, che hanno finito per alimentare la distanza fra il momento dell’elaborazione teorica e quello dell’applicazione pratica. Così, se la prima ha avuto talvolta la tendenza ad isolarsi in una torre d’avorio, e ad abbandonare la ricerca di un contenuto effettivamente operativo, la seconda si è servita della teoria economica interpretandola più come una fonte di slogan di sicura presa che per i suoi effettivi contenuti. Si è persa così di vista quella che dovrebbe essere la funzione principale dell’economia: essere utile all’assunzione delle decisioni nella vita reale. Volendo rappresentare in maniera sintetica questa distorsione si può concentrare l’attenzione su tre concetti, quelli di mercato, di impresa e di concorrenza, che sono premesse essenziali per la definizione degli interventi di politica industriale. 1. Un sistema economico di mercato è uno strumento necessario a raggiungere obiettivi sociali, e di ciò va tenuto conto nella sua costruzione; 2. le imprese del mondo reale sono soggetti diversi dalle imprese della teoria – esse mirano a limitare le occasioni di rivalità con altri soggetti economici e tendono ad esercitare il proprio potere per ritagliarsi posizioni protette. L’impresa ideale dal punto di vista della collettività, d’altra parte, è quella in grado di sostenere un costo elevato del lavoro; 3. la prevalenza di una concezione “strutturalista” ha ridotto la nostra capacità di interpretare il modo in cui le imprese si fanno concorrenza nel mondo reale. Il mercato. Si parla normalmente di “economia di mercato” avendo in mente i risultati teorici in termini di benessere generati da mercati perfettamente concorrenziali. Si usa l’espressione “fallimenti del mercato”, che di per sé suscita una sensazione negativa, per individuare quegli ambiti nei quali è necessario un intervento esterno di correzione per riportarsi ad una situazione ottimale, quella appunto descritta dalla teoria dei mercati perfettamente concorrenziali, trascurando il fatto che si sta parlando proprio delle ipotesi che devono verificarsi perché il modello sia “perfetto”. Se non si considera il ruolo che tutti gli attori del sistema giocano nel contribuire a definire le regole in questione, si può avere l’impressione che il mercato sia un meccanismo che deriva dalla sua stessa natura le proprietà di efficienza descritte per i mercati perfettamente concorrenziali. Da qui ad affermare che qualsiasi esito sistemico il mercato generi esso è di per sé “giusto” e corrisponda al “massimo benessere” cui la collettività può aspirare il passo è breve. Ma ciò corrisponde ad un’abdicazione della politica, che finisce per delegare al mercato delle funzioni che avrebbero più strettamente a che vedere con le finalità che il sistema democratico dovrebbe darsi attraverso il circuito della rappresentanza elettorale. L’impresa. Il benessere di un sistema ha un legame molto stretto con il valore medio della produttività del lavoro che riesce a raggiungere in termini reali. Per i benefici che ha prodotto in questo senso, “l’impresa moderna” rappresenta probabilmente la più grande innovazione dei nostri tempi. Fuori dalla visione naïve dei libri di testo, non è un soggetto che massimizza il profitto, operazione peraltro ontologicamente irrealizzabile in un sistema caratterizzato dalla presenza di incertezza. In mercati oligopolistici le imprese sono interessate innanzi tutto all’espansione del mercato ed a mantenere asimmetria informativa con i consumatori sulla relazione fra valore d’uso e costo di produzione. Ciò spiega anche perché esse siano spinte più spesso a cooperare che a combattere commercialmente. La scommessa di un sistema é quella di riuscire a stabilire delle regole che consentano di sfruttare la loro capacità di aumentare i livelli di razionalità collettiva, al fine di migliorare la qualità della vita di una comunità. Come è intuitivo, quest’ultima è strettamente collegata al potere d’acquisto di cui dispongono i cittadini e quindi al livello delle retribuzioni medie. Se si rilegge una tale considerazione dal lato delle imprese, ci si rende conto che il benessere della collettività è strettamente collegato alla capacità delle imprese di sostenere un costo del lavoro elevato. Parallelamente qualsiasi politica di riduzione del costo del lavoro attuata senza essere affiancata da un corrispondente incremento della produttività porta implicitamente dentro di sé l’ammissione di un intercorso impoverimento del sistema. La concorrenza. Quella di “concorrenza” non è per gli economisti un’idea univoca. Intorno al termine concorrenza esiste, in effetti, una sostanziale indeterminatezza semantica, ed è inutile dire che ciò finisce per creare non poca confusione in merito a quali siano gli obiettivi perseguiti mediante gli interventi regolatori e alla strumentazione impiegata allo scopo di conseguirli. Più come sommario che come conclusioni, quindi, ci pare si possa sostenere che l’arretramento della politica industriale sia a livello comunitario che nazionale degli ultimi anni a favore di una strategia di liberalizzazione e di concorrenza avvia finito per rivelarsi nocivo anche rispetto al sia più deficitario disegno di politica industriale dei primi anni d costruzione dell’Unione europea. Tutto ciò non per negare la rilevanza della più recente strategia per l’industria, ma per sostenere che essa si sarebbe dovuta aggiungere alla precedente senza pensare di sostituirla. Attraverso una più attenta riflessione sui concetti di mercato, impresa e concorrenza si può osservare, infatti, come la politica industriale, quella della concorrenza e le liberalizzazioni non si escludono a vicenda, ma possono e debbono concorrere all’obiettivo comune dello sviluppo sociale ed economico. In questo quadro un ruolo del tutto peculiare è svolto dai sistemi infrastrutturali, materiali ed immateriali, sui quali si gioca larga parte della capacità di tenuta e crescita di ogni sistema produttivo e per i quali una semplicistica politica di liberalizzazione, mostra ben presto tutti i suoi limiti.
Sintesi
a cura di Gianni Ferrante. |