Processi innovativi e contesti territoriali  

 

La Fondazione “G. Di Vittorio” ha di recente pubblicato, attraverso la Casa editrice il Mulino, tre volumi che raccolgono i risultati dell’attività svolta (autunno 2003- primavera 2005) da quattro gruppi di lavoro della sezione Scienze sociali della Fondazione stessa.

Il volume di cui qui diamo conto raccoglie l’attività del gruppo “Innovazione, ricerca e sviluppo, formazione” e di quello dedicato a “Sviluppo locale, lavoro e qualità sociale”. I risultati del lavoro di ricerca - frutto dell’apporto di molti studiosi - sono stati curati da Mario Amendola, Cristiano Antonelli e Carlo Trigilia (Per lo sviluppo. Processi innovativi e contesti territoriali, Il Mulino, Bologna 2005, pagg. 241).

Qui, in particolare, ci riferiamo all’Introduzione, al capitolo su “Una strategia italiana verso l’economia della conoscenza”, con qualche richiamo allo sviluppo locale (Carlo Trigilia) e al sistema contrattuale (Aris Accornero).

 

L’assunto di fondo del volume è che le economie europee sono state incapaci di accedere in modo sostanziale alle tecnologie, cui sono connessi alti livelli di produttività, a causa delle caratteristiche strutturali delle economie stesse (le regole istituzionali che governano i loro comportamenti e il funzionamento dei loro mercati).

Un contesto macroeconomico affidabile (stabilità dei prezzi, conti pubblici) in ordine infatti assicura le condizioni per riforme strutturali, che sono a loro volta la pre-condizione per dare vita a processi innovativi d’avanguardia.

Tali premesse favoriscono la giusta forma di investimento (tecnologie innovative) e generano la crescita dell’occupazione.

Perché dalla tecnologia si passi a rendimenti economici effettivi, occorre un processo economico, che è essenzialmente un processo di coordinamento. Nuovi beni richiedono nuovi processi produttivi, nuove attività che a loro volta nuovi tipi di interazione tra gli attori e le istituzioni.

La crescita economica è quindi il risultato di un complesso processo economico caratterizzato dalla partecipazione di una pluralità di attori privati ed istituzionali.

Il processo di innovazione si realizza in primo luogo attraverso la creazione di nuova e diversa capacità produttiva. Tale processo di ristrutturazione implica rotture, distorsioni e squilibri che dal processo produttivo si estendono all’attività economica nel suo complesso.

Tali squilibri vanno controllati attraverso un coordinamento dell’attività economica (gestione delle risorse, determinazione di prezzi e salari, ecc.).

In quest’ottica – secondo gli autori – una certa rigidità dei salari (che impedisce forti redistribuzioni di reddito e di domanda) è un modo per evitare squilibri come quelli che abbiamo conosciuto negli ultimi anni con pratiche diffuse e aggressive di contenimento salariale (fluttuazioni eccessive mettono in pericolo gli stessi processi di innovazione). In secondo luogo anche una certa rigidità nell’impiego della manodopera (dopo l’ubriacatura da flessibilità [1]) può invece svolgere un ruolo positivo qualora si abbia chiaro il problema da risolvere [2].

La stabilità del quadro macroeconomico, contrariamente a quanto si crede, è il risultato di un processo che richiede interventi discrezionali per essere ottenuto. Gli autori ne indicano alcuni:

- comportamenti delle banche (sulla base di indirizzi di politica monetaria [3]) volti a rendere possibile l’investimento richiesto da processi di ristrutturazione produttiva e non a mantenere un devastante vincolo di liquidità per le imprese al fine di garantire una piena stabilità dei prezzi.

- Regole che garantiscano la coesione sociale (e proteggano l’occupazione), al fine di fronteggiare le turbolente derivanti dalle ristrutturazioni produttive.

- Politiche di concorrenza e di regolazione che considerino anche le imperfezioni di mercato come un aspetto intrinseco e quindi necessario al processo di produzione e di diffusione di nuova conoscenza in un’economia di mercato [4].

Gli autori pongono anche in evidenza come la visione dominante dei rapporti tra istituzioni, tecnologia e crescita, abbia dato luogo in questi ultimi anni all’affermarsi di una fiducia quasi religiosa nel ruolo del mercato interpretato come concorrenza nelle sue forme estreme e a una relativa condanna del ruolo dello Stato.

La differenza fondamentale rispetto agli Stati Uniti è l’assenza in Europa di un’autorità in grado di inviare i forti segnali necessari a spingere ad intraprendere la via dell’innovazione e del cambiamento e di coordinare dal centro e con attività fortemente pervasiva il cambiamento stesso per assicurare il successo [5].

Quindi – sostengono Antonelli e Amendola, curatori dell’Introduzione – le linee guida di un progetto di intervento di politica della ricerca e dell’innovazione dovrebbero ritrovarsi:

- nell’organizzazione di grandi progetti nazionali. Un’iniziativa basata su un numero limitatissimo di grandi progetti nazionali può avere successo in quanto produce processi i coordinamento dinamico tra soggetti diversi. Importanti sfide energetiche in particolare si annunciano all’orizzonte e solo l’azione concertata delle grandi imprese energetiche, meccaniche ed elettroniche nazionali può mobilizzare le risorse e le competenze necessarie per innovare in modo radicale e al tempo stesso coordinare piani di investimento a lungo termine, processi di formazione in sede universitaria, assi di ricerca accademica e pubblica, piani finanziari e modelli di consumo.

- L’intervento pubblico deve concentrarsi su interventi disegnati nello specifico intento di rafforzare la cooperazione nella produzione di conoscenza tra imprese e l’interazione tra apparato di ricerca pubblica, accademica e non, e il sistema delle imprese.

- L’università ha un ruolo centrale da un punto di vista formativo.

- L’intervento statale deve promuovere e sostenere la partecipazione attiva delle nostre residue grandi imprese, dei consorzi di piccole imprese e delle stesse università nei progetti di ricerca e sviluppo promossi dall’Unione europea.

- Il sistema bancario e finanziario in generale deve essere indirizzato e spinto ad assumere il sostegno all’innovazione anche attraverso interventi di politica economica. L’incentivazione alla nascita dei fondi chiusi destinati ai risparmiatori che si specializzino nell’investimento in imprese innovative, ad esempio, può ovviare alla riluttanza delle imprese alla quotazione in borsa.

- Una politica economica attiva ed esplicitamente volta a rafforzare l’efficienza dinamica del sistema non può non tenere conto del fatto che la struttura sociale dei paesi, che hanno sviluppato il modello dell’economia della conoscenza, sembra caratterizzata da dinamiche nuove. In particolare, appare evidente un vistoso processo di redistribuzione del reddito che accresce fortemente le disuguaglianze sociali con una crescente capacità di nuovi gruppi sociali di intercettare quote crescenti del redito e una contrazione delle quote di reddito disponibili per il resto del sistema sociale.

 

Una strategia italiana verso l’economia della conoscenza

I caratteri originari del capitalismo italiano sono noti. Dice Antonelli: la complementarietà tra le tre gambe del sistema, le grandi imprese del primo capitalismo, le piccole imprese giovani e un sistema bancario capillare e flessibile, ha funzionato così bene che si è parlato a lungo di un modello italiano addirittura contrapposto al fordismo.

L’autore si chiede se oggi sussistano elementi positivi sufficienti per impostare una strategia di trasformazione guidata dall’intervento pubblico che non rinneghi i caratteri strutturali del sistema, o si debba procedere a una radicale ridefinizione del modello italiano.

E’ opportuno ricordare che le difficoltà italiane non costituiscono un’eccezione, ma anzi riguardano l’intero continente e in particolare le economie tedesche e francese.

In un contesto continentale, non positivo, il caso italiano presenta caratteri particolari: declino delle quote sui mercati internazionali,contrazione dei tassi di crescita della produttività totale dei fattori. E poi: involuzione demografica; e più in generale, deindustrializzazione con una riduzione delle attività manifatturiere e un significativo incremento delle attività terziarie.

Ci sono poi i dati sconsolanti sulla spesa nazionale in ricerca (pubblica e privata) e sviluppo.

Alla crisi di alcune grandi imprese non sembrano estranei gravi errori manageriali…quanti hanno a lungo sostenuto che l’industria automobilistica fosse matura e anzi obsoleta condividono responsabilità non trascurabili (sostegno a pratiche di diversificazione).

Ma c’è anche la somma di errori che ha messo in ginocchio uno dei potenziali settori portanti della transizione: l’industria dei servizi di telecomunicazioni.

Ma ci sono anche elementi positivi da evidenziare.

1) Il carattere familiare del secondo capitalismo e la lontananza dalla ribalta borsistica riduce la visibilità di un folto gruppo di nuove aziende medio-grandi.

2) La positiva evoluzione del sistema bancario (mentre si indeboliva il sistema finanziario).

Il giocattolo si è rotto soprattutto per fatti di natura strutturale, a partire dalla forte discontinuità tecnologica che si è prodotta nel corso degli anni novanta.

Un colpo mortale è stato infine portato dalle negative conseguenze della privatizzazione dell’apparato delle imprese pubbliche.

Ci sono quindi – secondo Antonelli – numerosi elementi che suggeriscono che la crisi italiana è prima di tutto crisi industriale, legata a un processo di trasformazione radicale in corso a livello mondiale.

 

Il modello dell’economia della conoscenza può ancora rappresentare per l’Italia un veicolo efficace di un progetto di modernizzazione capace di coniugare innovazione e riformismo.

L’Italia rischia però di non essere in grado di compensare l’inevitabile contrazione della base industriale con la necessaria crescita delle attività terziarie ad alto contenuto di conoscenza. Il crollo delle capacità di realizzare attività di ricerca è riconducibile al declino del sistema delle grandi imprese provate e alle inadeguate strategie di privatizzazione delle grandi imprese a partecipazione statale.

La produzione di innovazione è il risultato di un processo complesso con forte carattere sistemico che non può essere lasciato all’improvvisazione. Vi è bisogno di policy orientata alla produzione di meccanismi di coordinamento dinamico. Senza farsi troppe illusioni circa l’ammontare dei mezzi disponibili a riguardo, le risorse e gli incentivi statali dovrebbero servire innanzitutto al rafforzamento dei processi di coordinamento dinamico tra soggetti pubblici e provati favorendo lo sviluppo delle attività di ricerca svolte in ambito universitario per conto di imprese.

La transizione verso un modello basato sull’economia della conoscenza (logistica, trasporti, servizi di comunicazioni, finanza e marketing, servizi informatici e telematici) richiede una precisa azione di politica economica. L’Italia non ha grandi imprese e di conseguenza imprese multinazionali, non ha centri di ricerca aziendale di eccellenza, non ha tecnostrutture private di qualità. Si tratta allora di potenziare l’interazione tra tecnostruttura pubblica e sistema delle imprese (coordinamento dinamico). A questo processo deve partecipare il sistema finanziario.

Quindi, in sostanza:

- un numero limitato di grandi progetti nazionali;

- cooperazione nella produzione di conoscenza tra imprese e interazione tra imprese e apparato di ricerca pubblica, accademica e non;

- ruolo centrale dell’università nella formazione;

- l’intervento statale deve promuovere la partecipazione attiva delle nostre residue grandi imprese, dei consorzi di piccole imprese e delle stesse università nei progetti di ricerca e sviluppo promossi dall’Unione europea.

 

Lo sviluppo locale

Non può essere tralasciato un grande impegno nazionale per lo sviluppo locale come componente cruciale di uno sforzo per l’innovazione, la tutela del lavoro e la qualità sociale.

1) E’ importante che le politiche di sviluppo locale abbiano  un oggetto ben delimitato. Possono articolarsi in programmi diversi, riguardanti le attività innovative, lo sviluppo delle città, lo sviluppo dei territori arretrati.

2) un contributo potrebbe provenire a una riforma della contrattazione che miri a valorizzare il ruolo della contrattazione territoriale.

3) Occorre però considerare lo sviluppo locale in una chiave non localistica. E’ necessario un impegno di attori extra locali.

4) Un aspetto cruciale delle “politiche per connettere” è legato a una maggiore capacità di indirizzo e di coordinamento dello stato centrale nei riguardi delle regioni.

 

Sviluppo locale e sistema contrattuale

Il tema dello sviluppo locale è recentemente entrato nel dibattito sul sistema contrattuale del Protocollo del 23 luglio 1993.

Il Protocollo (modellato sull’industria) prevede un contratto nazionale di categoria (normativo ogni 4 anni, retributivo ogni 2, con riferimento all’inflazione programmata e alla produttività di settore) e un secondo livello aziendale oppure territoriale su materie e istituti diversi e non ripetitivi della contrattazione nazionale. Ma al di fuori dell’ambito di quattro importanti settori produttivi, la contrattazione di secondo livello è prevista esclusivamente a livello territoriale.

Come riformare?

Oggi le parti sembrano concordare sull’opportunità di mantenere il contratto nazionale come base del sistema, ma riducendo sensibilmente il numero di settori dove viene sottoscritto e allungando la cadenza temporale dei rinnovi.

Ma l’adeguamento delle condizioni e delle remunerazioni alla produttività aziendale o territoriale spetta alla contrattazione decentrata. Questa si è svolta principalmente a livello di azienda (quasi mai a livello di territorio), per cui la copertura assicurata ai lavoratori non è riuscita ad andare oltre un terzo circa delle aziende interessate (quasi sempre medio-grandi). Inoltre la parte “mobile” della retribuzione (legata alle performance) non è stata tale da premiare in modo sostanziale la produttività.

In questi anni la diffusione della contrattazione decentrata ha toccato un plafond tale per cui la distribuzione tra parte fissa e mobile della retribuzione premia assai poco le situazioni aziendali e locali più dinamiche. Per superare la povertà del bacino della contrattazione aziendale non è necessario che una maggior quota dei prossimi aumenti si sposti dal livello centrale al livello decentrato: è sufficiente che i sindacati riescano ad avviare contrattazioni integrative anche con una pluralità di soggetti imprenditoriali, e non soltanto con singoli imprenditori.

Il dispositivo del ’93 prevede già una scelta alla pari tra negoziazione territoriale e negoziazione aziendale.

Occorre estendere la contrattazione decentrata al di là delle singole imprese dove l’esperienza e la dimensione suggeriscono di consolidare il negoziato aziendale. Occorre quindi rivolgersi in loco a più imprese o a soggetti imprenditoriali rappresentativi di tutto il territorio questo dove l’esperienza lo possa consentire o anche soltanto suggerire.

I sindacati sono stati fra i principali protagonisti di forme di regolazione territoriale…cui si sono aggiunte di recente le esperienze di promozione e di gestione concertata dei processi attivati in loco. Nonostante gli aspetti critici e i vari casi che pure sono esistiti di concession bargaining, non si possono sottovalutare i risultati che a medio termine sono venuti anche da queste iniziative.

D’altra parte una contrattazione territoriale volta a remunerare il lavoro per la parte concernente i risultati dell’attività svolta in un’area produttiva omogenea non può essere avulsa, a ha tutto da guadagnare, da intese locali che regolino determinati aspetti.

La strada della contrattazione territoriale evita sia le derive del federalismo, perché è negoziata tra l e parti sociali, sia il rischio delle gabbie salariali, perché pone a proprio fondamento il contratto nazionale.


[1] Economie con una significativa protezione del lavoro, quali la Francia e l’Italia sono caratterizzate da una flessibilità e da un dinamismo del mercato del lavoro comparabili se non addirittura superiori a quelli che caratterizzano i mercati del lavoro di Gran Bretagna e Stati Uniti, portati ad esempio di flessibilità da emulare.

[2] L’autorità monetaria centrale può decidere di seguire una politica monetaria permissiva, che accetti un certo grado di inflazione iniziale al fine di stimolare una crescita che, quando affermatasi, permetterà di riassorbire sia la disoccupazione sia le stesse spinte inflazionistiche.

[3] Una politica monetaria restrittiva – dicono gli autori – non rende possibile effettuare gli investimenti richiesti per sostenere la ristrutturazione della capacità produttiva cui è legata l’effettiva realizzazione dei ricavi economici dell’innovazione stessa.

[4] Molto spesso le privatizzazioni non hanno contribuito a vivificare una realtà modernamente competitiva, ma si è avuta piuttosto una sostituzione di monopolisti privati ai precedenti monopolisti pubblici.

[5] Si è avuto un progressivo e controverso tentativo di smantellamento delle politiche industriali nazionali, senza alcuna corrispondente costruzione di una qualche  forma di politica industriale (e quindi anche di una politica della ricerca correlata alla politica industriale).