Salario e cuneo contributivo

 

Vi sono molte evidenze empiriche che confermano come in questi anni i limiti del sistema industriale italiano e l’incapacità dei governi di dare corpo a linee d’intervento che favorissero innovazione e investimenti, abbiano lasciato spazio a politiche tese a ridurre gli oneri salariali per le imprese. Si è venuto così realizzando nell’ultimo decennio un insieme di provvedimenti (a cominciare da quelli che regolano il mercato del lavoro) che hanno favorito un passaggio dagli utili d’impresa ai salari degli oneri connessi all’instabilità dei mercati.

Un contributo all’approfondimento di questi aspetti ce lo fornisce un saggio di M. Capparucci, E. Ghignoni e P. Naddeo (collaboratrice, quest’ultima, della Fiom per quanto riguarda l’Osservatorio sull’industria metalmeccanica), saggio presentato alla fine di settembre ’05 al XX Convegno dell’Aiel (Associazione italiana economisti del lavoro).

Tralasciamo, comprensibilmente, la parte matematica che sostiene l’analisi, per riferir le considerazioni.

 

Il saggio indaga la relazione tra flessibilità (ovvero le tipologie contrattuali “atipiche”) e risultati occupazionali, ricavandone che laddove un lavoratore si ritrovi a lungo nella condizione di temporaneità contrattuale (con conseguente riduzione dell’importo medio del prelievo contributivo e delle connesse prestazioni sociali rispetto ad un lavoratore standard) e laddove cresca la quota dei lavoratori atipici, verranno generate spinte salariali che avranno il compito di assorbire il preesistente differenziale di costi tra lavoratori con diversi tipi di contratto.

Sarebbe quindi importante che lo stato si assumesse (attraverso la fiscalità generale e in riferimento agli atipici) parte degli oneri che vanno a finanziare la sicurezza sociale.

Quindi –sostengono gli autori – laddove si ipotizzi che una riduzione del gettito contributivo comporti una minore opportunità di accesso all’area delle prestazioni sociali, i salari nominali verrebbero a crescere, data la necessità di acquisire sul mercato – a prezzi più elevati rispetto a quanto potrebbe fornire lo Stato - i medesimi servizi di previdenza, assistenza e sanità (ciò vale in particolar modo per un lavoratore con contratto a termine, maggiormente esposto a rischio di disoccupazione e ad intermittenza dell’attività lavorativa.

Quindi situazioni che creino disparità di trattamenti reddituali tra categorie di lavoratori possono migliorare il rapporto tra domanda e offerta di forza lavoro solo nel breve periodo (picchi congiunturali, fasi di ingresso nel sistema occupazionale). Altrimenti è inevitabile che retribuzioni più elevate verranno contrattate per compensare l’assenza di copertura finanziaria di parte delle prestazioni sociali.

La diffusione della contrattualità atipica (part time e contratti a termine) rappresentano lo strumento che le riforme sul mercato del lavoro mirano a incoraggiare. Ma, mentre il part time (p.t.)configura un rapporto di lavoro relativamente più stabile e tutelato (vedi, ad esempio, la maternità, che non a caso ha favorito la diffusione del p.t. in quei paesi che vantano più alti tassi di occupazione femminile), i contratti a termine presentano un maggior grado di volatilità occupazionale e reddituale.

Quindi mentre la diffusione del lavoro p.t. contribuisce a innalzare più stabilmente il tasso di occupazione aggregato, il ricorso al tempo determinato non sempre corrisponde alle sue finalità più corrette (generando dumping sociale e spinte salariali).

Non a caso nei paesi che hanno realizzato migliori performance occupazionali si è fatto maggiormente ricorso al p.t. che non al lavoro temporaneo (Danimarca, Olanda e Gran Bretagna); laddove si è fatto più ricorso al lavoro temporaneo (Spagna e Portogallo) i risultati conseguiti sul fronte occupazionale si abbinano sia a forti disparità di reddito che di finanziamento e di accesso ai servizi di protezione sociale.

Significativo l’esempio opposto di Spagna e Danimarca. Entrambe i paesi, come la media dei 15 appartenenti all’Ue, hanno lievemente diminuito nel decennio ’90 la quota di spesa sociale rispetto al Pil, arrivando però la Spagna nel 2002 al 20% e la Danimarca al 30%. Mentre la prima ha sperimentato il suo miracolo occupazionale grazie soprattutto all’espansione del lavoro temporaneo, ma ha lasciato inalterata la struttura del finanziamento della spesa sociale – dove solo il 27% è il contributo dello Stato - la seconda, che pure ha elevato il già alto tasso di occupazione, ha potuto contare su una quota strutturalmente più stabile di lavoratori e su un contributo pubblico alla spesa sociale che supera il 67% del totale.

I ricercatori che hanno curato il saggio in esame mostrano anche come, nella ricerca di forme di riduzione del costo del lavoro (ritenuto in Italia uno strumento essenziale per continuare a competere in un contesto di crescente concorrenza internazionale), abbia assunto una particolare importanza il passaggio a tipologie di lavoro atipico. Ciò viene considerato, a parità di retribuzione, un modo per ridurre, non solo i costi indiretti del lavoro, ma in alcuni casi anche gli oneri sociali. Ma spesso il ricorso a forme di lavoro atipico risulta anche un modo per ridurre la retribuzione oraria e mensile.

 

Incidenza del lavoro temporaneo nel 1996 e nel 2004

Unione europea a 15            2004               13,1%.

Intorno a questa percentuale ruotano quasi tutti i paesi, con l’eccezione della Spagna (30,4%) e della Gran Bretagna (5,7%).

I giovani (più che le donne), 15-24 anni, sembrano più coinvolti: nella media Ue il 40 % di questi giovani ha un contratto di lavoro temporaneo (Eurostat, Labour Force Survey), ciò anche a causa della maggiore incidenza dei contratti di inserimento e/o formazione.

L’evoluzione del fenomeno nel tempo non è molto sostenuta, tranne che in Italia, grazie alla recente introduzione di determinati istituti contrattuali.

Incidenza del part time nella media dei 15 paesi Ue nel 2004: 19,5%. Oscilla tra l’8,9% della Spagna e il 26,2% del Regno Unito. In tutti i paesi il p.t. interessa maggiormente la componente femminile (con l’eccezione della Geermania). L’Italia, con il 12,7% è uno dei paesi in cui la quota di p.t. è più contenuta (ma maggiore è stata la crescita relativa negli ultimi anni).

 

La differenza nei costi salariali tra le tipologie contrattuali

Dai dati disponibili le differenze reddituali tra i lavoratori a tempo indeterminato e non (Eurostat, Structure of earnings survey 2002) si evince quanto segue:

Nella Ue a 15, il differenziale di reddito tra le due categorie è superiore al 30%. La differenza tra le due categorie reddituali non appare addebitabile al numero di ore retribuite mensili (che sono sostanzialmente in linea).

In Italia la retribuzione media lorda dei lavoratori a tempo determinato è inferiore del 20%; in linea con quella registrata nel Regno Unito,  mentre in Francia e in Danimarca la penalizzazione risulta inferiore rispetto all’Italia.

Dai dati Eurostat citati emerge che in Italia le ore medie lavorate sono pari a 1.636 (le femmine hanno un orario pari all’87,9% di quello maschile).

Quelli che fanno part time hanno un orario pari al 60,1% di quello dei lavoratori full timer.

I lavoratori a termine risulterebbero svolgere un orario pari al 67,8% della media complessiva, inferiore anche a quello di apprendisti e giovani in formazione e lavoro, in entrambi i casi pari al 94,3%.

Le retribuzioni orarie risultano particolarmente penalizzanti per tutti i tipi di contratto diversi dal lavoro a tempo indeterminato.; particolarmente forte è la penalizzazione per gli apprendisti, la cui retribuzione oraria media è circa la metà di quella dei lavoratori a tempo indeterminato.

La penalizzazione ai danni dei lavoratori atipici non si limita solamente al livello della retribuzione oraria e annua, ma coinvolge il reddito complessivo nell’arco di vita del lavoratore. Vale a dire che incontrano maggiori difficoltà ad accedere ad alcuni istituti di welfare (anche se la legge non lo vorrebbe consentire, questi lavoratori finiscono per essere discriminati in relazione, quanto meno, ai requisiti di accessibilità alle diverse prestazioni.

Il trattamento di disoccupazione spetta ai lavoratori iscritti all’Inps per i due anni precedenti la disoccupazione e che abbiano contributi per almeno 52 settimane. Il beneficio è pari al 40% della retribuzione percepita negli ultimi tre mesi, per un importo massimo nel 2005 pari a 819,62€. Il trattamento di disoccupazione viene corrisposto per 180 giorni. Per come funziona è probabile che molti lavoratori atipici non riescano a raggiungere i requisiti previsti e, in ogni caso, è probabile che il 40% della retribuzione di un lavoro precario non sia sufficiente per ottenere un reddito minimo di sopravvivenza.

In Italia, rispetto agli altri paesi sono praticamente assenti gli interventi per prevenire le forme di disagio legate alla situazione di disoccupazione (nonostante la presenza di un astuto anomalo come la Cassa integrazione), all’abitazione e per altri interventi per ridurre il rischio di esclusione sociale. Viceversa in Italia la spesa sociale per le pensioni d’anzianità e di vecchiaia o di reversibilità, è particolarmente elevata.

L’analisi della spesa per prestazioni previdenziali e assistenziali, mostra che in Italia tale spesa non è affatto generosa e che anzi , per raggiungere il livello medio degli altri paesi europei, bisognerebbe sia aumentarne la consistenza che variarne la composizione interna.

Ciò che manca sono soprattutto quegli istituti che dovrebbero permettere al lavoratore, specie se precario, di sopportare i disagi nel passaggio da un lavoro all’altro. La Cig non è certo un istituto destinato ai lavoratori precari.

In conclusione, il risultato dei modelli teorici applicati dai ricercatori portano a sottolineare il fatto che di per sé, una flessibilità contrattuale realizzata attraverso una compressione degli oneri salariali che ridistribuiscono l’occupazione a favore dei lavoratori temporanei può migliorare l’incrocio (tra domanda e offerta di lavoro) di breve periodo, ma non risulta essere condizione sufficiente a realizzare stabilmente più elevati standard occupazionali nel medio lungo periodo: gli effetti di spinte salariali che presto si avrebbero a seguito di una parallela contrazione delle prestazioni sociali potrebbero annullare gli effetti di crescita occupazionale inizialmente prodotti grazie a tale flessibilità.

Anche l’evidenza empirica mostra che performance occupazionali “stabilmente” soddisfacenti (il caso della Danimarca, dell’Olanda e della Svezia) possono associarsi ad una struttura e ad un livello di costi salariali che includa anche un discreto margine di prelievo contributivo e/o fiscale.

Così pure i dati dimostrano che il ricorso al part-time, più che al lavoro temporaneo, si rivela strumento adeguato per allargare in modo più stabile la partecipazione attiva delle diverse componenti lavorative.

In Italia, negli anni più recenti, si è assistito ad una pressante richiesta di riduzione del costo del lavoro da parte dei datori di lavoro. Da un lato si è puntato ad una deregolamentazione dei rapporti contrattuali per abbattere i costi, mirando a ridurre la retribuzione media e, in alcuni casi, anche il livello di cuneo contributivo. Dall’altro si è cercato di agire sulla fiscalità complessiva del lavoro, richiedendo incessantemente una contrazione di oneri sociali e Irap, ovvero di due fonti di finanziamento del sistema di welfare.

 Nella ricerca gli autori mostrano come il livello di protezione sociale garantito ai lavoratori italiani risulti sostanzialmente inferiore a quello che caratterizza gli altri paesi europei e che l’imposizione sul lavoro, se si esclude la componente Irap, è sostanzialmente in linea con quella dei partner europei.