Conferenza Fem per i Cae del settore dell'information and communications technology (Ict) (relazione di Gianni Ferrante, presidente del gruppo ristretto di politica industriale Fem) Elewijt, 22-23 novembre 2002
1. La Commissione europea ha diffuso qualche mese fa un documento dal titolo “Anticipare e gestire il cambiamento: un approccio dinamico degli aspetti sociali delle ristrutturazioni d’impresa”. Il documento parte dalla constatazione che i processi di ristrutturazione in un’economia globalizzata non solo accelerano ma sono un elemento vitale e positivo per il processo di cambiamento. Secondo la strategia individuata nel vertice di Lisbona, il documento ritiene che debba essere innalzata la qualità delle produzioni europee, nonché la qualificazione della manodopera entro un orizzonte di utilizzo flessibile. Si tratta allora di costruire un dialogo sociale che favorisca la partecipazione dei lavoratori al cambiamento. Da questo punto di vista il documento della Commissione propone la diffusione delle buone pratiche in termini di ristrutturazioni industriali effettuate, da utilizzare come riferimenti per determinare, per così dire, un buon clima sociale, o al massimo dei princìpi cui ispirarsi. Dopodiché il documento espone alcune linee delle politiche comunitarie che possono favorire il cambiamento e il dialogo sociale. Si tratta sia di una serie di direttive, come quella sui licenziamenti collettivi, quella sui Comitati d’impresa europei o quella sulla partecipazione dei lavoratori allo Statuto di Società europea. O per altro verso del dialogo sociale attraverso il coinvolgimento delle rappresentanze interprofessionali e settoriali (dialogo che avanza con notevole difficoltà). O infine la promozione di momenti di approfondimento, di tipo seminariali o di ricerca. Il documento si conclude auspicando un accordo tra i partner sociali a livello europeo contenente dei princìpi utilizzabili nelle situazioni di ristrutturazione. 2.Così riassunto il documento, giudico interessante, insieme alle Fem, la proposta avanzata dalla Commissione europea ai partner sociali di realizzare a livello comunitario un certo numero di princìpi che valorizzino le migliori pratiche nell’ambito delle ristrutturazioni industriali dei diversi paesi. I sindacati europei vedono con favore ogni azione e strumento che arricchisca il dialogo sociale nell’ambito del processo di integrazione europeo. Già nel recente passato vi era stato un gruppo di lavoro misto, detto di “alto profilo”, che portava il nome del coordinatore, Gyllenhammer, che aveva prodotto un importante documento; o, più recentemente, nel giugno 2002, la Commissione ha realizzato una comunicazione intitolata “Il dialogo sociale europeo, fonte di modernizzazione e di cambiamento”, in tutti questi casi (come in altri) vi è stato un impegno significativo per favorire il dialogo sociale, ma bisogna dire fin dall’inizio che questo risultato è stato raggiunto molto parzialmente. È mancata la possibilità di consolidare questo dialogo, di portarlo al di là di una giusta ispirazione, di trasformarlo appunto in regole, in proposte concrete che condizionassero i comportamenti delle parti in causa. In
altre parole è mancata la volontà di praticare il dialogo sociale non solo
come strumento generico per esercitare le relazioni industriali, ma anche come
struttura per l’informazione, la consultazione e la negoziazione che
accompagna le decisioni delle istituzioni europee. 3. Dal punto di vista economico, stiamo vivendo una fase difficile della crescita dei paesi industrializzati: Il 2001 e il 2002 sono stati in Europa anni di forte rallentamento dell’economia quando non di recessione. Molti settori dell’economia metalmeccanica sono coinvolti in questi andamenti negativi. Una situazione che si riflette su un abbassamento quasi generalizzato dei consumi delle famiglie nel 2002 in quasi tutti i paesi. La mondializzazione dell’economia ha contribuito a intensificare le sfide tra i paesi concorrenti, spingendo le imprese a ristrutturarsi continuamente per poter restare attive sui mercati. Come sappiamo le ristrutturazioni rispondono a molteplici esigenze delle imprese e vengono portate avanti in diverse maniere (concentrazione sul core business, processi di razionalizzazione, esternalizzazioni e delocalizzazioni, nonché acquisizioni e fusioni). Sappiamo anche che molti processi di fusione tra imprese non hanno avuto esiti positivi perché finalizzati innanzitutto a realizzare vantaggi finanziari a breve, mentre gli sviluppi di carattere manifatturiero e produttivo sono rimasti in seconda linea, spesso privi di una strategia di mercato. Le statistiche ci dicono che l’occupazione mediamente in questi ulti anni in Europa tende a crescere, ma con forti squilibri da settore a settore. Cresce in modo particolare nei servizi, meno nell’industria. Nell’industria metalmeccanica, quando cresce, ciò avviene in quantità molto limitate e i nuovi rapporti di lavoro sono sempre più contraddistinti da condizioni di precarietà (più che di flessibilità). Questo stato di cose si è riflesso in una legislazione del lavoro che negli ultimi dieci anni è stata particolarmente attenta alle esigenze delle imprese, nonostante sia stato praticato in generale un modello di relazioni industriali non conflittuale. 4. Di fronte a questo stato di cose le rappresentanze dei datori di lavoro, comprese quelle metalmeccaniche, hanno risposto negativamente alle proposte contenute nel documento della Commissione. Dichiarando semplicemente che le ristrutturazioni vanno inquadrate nelle consuetudini e nelle regole già esistenti nei singoli paesi, aggiungendo che le conseguenze sociali delle ristrutturazioni sono regolamentate da un quadro giuridico già esistente sia a livello comunitario che nazionale e che la Confederazione europea degli imprenditori (Unice) giudica impossibile prendere a riferimento le migliori (per chi?, dicono loro) pratiche perché ogni ristrutturazione va ricondotta al caso specifico e al suo contesto. In pratica è stata dichiarata l’indisponibilità a convergere su alcune regole che rendessero impegnativo il dialogo sociale per le parti. Da questo punto di vista sorprende l’eccesso di neutralità con cui la Commissione prende atto di questi atteggiamenti delle rappresentanze dei datori. La prassi che si è instaurata nel periodo recente e che vede il ricorso ai cosiddetti coordinamenti aperti, ovvero momenti in cui le parti sociali si incontrano per discutere di problemi predefiniti che si concludono senza alcun impegno per le parti che si sono confrontate, non può rappresentare un passo in avanti nella direzione di un effettivo dialogo sociale. Nel vertice di Lisbona – con cui pure i datori di lavoro si dichiarano d’accordo – l’Europa operò la scelta di puntare a una maggiore qualificazione delle produzioni, all’aumento del grado tecnologico di innovazione delle stesse, puntando a divenire l’area principale di un’economia basata sulla conoscenza. In altre parole una realtà industriale protesa a sviluppare i settori strategici, a cominciare dall’informatica e dalle sue applicazioni. Si è trattato di una scelta tesa a ridurre in termini competitivi il gap tra Europa da un lato e Giappone e Stati Uniti dall’altro e a non subire irreversibilmente la concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione. Ristrutturazioni senza crescita del contenuto tecnologico nei processi produttivi e nei prodotti, senza crescita delle capacità professionali dei lavoratori rischiano di impoverire invece di arricchire il sistema industriale europeo. Noi sappiamo che le cose da questo punto di vista non sono molto migliorate negli ultimi anni. Le ristrutturazioni nell’industria dell’Ict, ad esempio,non sono protese a rilanciare il suo grado di competitività o a creare miglioramenti nell’occupazione. In generale si registrano condizioni precarie crescenti per le prospettive del settore, a cominciare dalle aziende più piccole. Allora ben venga la proposta della Commissione basata su una gestione sociale delle ristrutturazioni, su un ruolo attivo del partenariato sociale. I sindacati europei non hanno alcun problema a dichiararsi aperti al cambiamento, all’innovazione e al dialogo sociale, come richiede il documento. Cambiamento e innovazione sono certo motori del progresso, ma non per questo i lavoratori sono disposti ad avallarli passivamente, senza una continua ed efficace partecipazione. Non è affermando un po’ paternalisticamente che bisogna essere favorevoli al cambiamento che un lavoratore di un'azienda in ristrutturazione può affrontare serenamente l’incertezza del proprio futuro, magari delegandolo all’impresa. Vanno quindi adottati tutti i rimedi per ridurre i costi sociali delle ristrutturazioni, attivando in tempi non sospetti strumenti come la formazione, strumenti per la riqualificazione , per la rotazione del lavoro, compensazioni salariali durante i periodi di transizione: in sostanza un ricorso tempestivo a tutti gli strumenti che possano evitare i licenziamenti. Quindi si al cambiamento, ma lungo una strada che sancisca il diritto (se effettivamente si vogliono anticipare e gestire i processi di ristrutturazione) dei lavoratori e dei loro rappresentanti, sul piano sia interprofessionale che settoriale, di essere consultati sulla situazione economica e finanziaria delle imprese. Oggi l’informazione e la consultazione, anche in caso di ristrutturazioni aperte, avvengono nella grande maggioranza dei casi quando ormai l’impresa ha già preso le sue decisioni. Si tratta nella gran parte dei casi di una semplice presa d’atto, facilitata dal fatto che non esistono sanzioni per l’impresa. Potrei citare qui il caso della Fiat, la cui attuale crisi ha radici che risalgono a 4-5 anni fa, ma che è precipitata repentinamente, e ciò è avvenuto in assenza di un (reale) confronto con le parti sociali (solo comunicazioni), confronto che ancora oggi viene negato, nonostante sia alle porte la chiusura di uno stabilimento e il licenziamento di migliaia di lavoratori ( per non parlare di quelli dell’indotto). Ancora una volta vale ripetere che il dialogo sociale acquista una dimensione positiva se è sostenuto da alcune regole che lo rendano certo e pongano le parti sociali su un piano di parità. In termini di proposte, equi mi esprimo prevalentemente a titolo personale, si potrebbe pensare alla realizzazione sulla base delle migliori pratiche, derivanti da positive esperienze a livello nazionale, di un codice di condotta europeo che fissi gli standard minimi, le azioni minime su cui un’azienda si deve impegnare, per rafforzare le azioni e gli strumenti di anticipazione e di gestione delle ristrutturazioni. Inoltre si potrebbe costruire una disponibilità delle parti a un accordo quadro europeo per la realizzazione di un rapporto annuale sulla gestione del cambiamento. Ancora si può pensare alla redazione di un compendio delle migliori pratiche curato dall’Osservatorio europeo sui cambiamenti (Emcc), che ha sede presso la Fondazione di Dublino (l’ Osservatorio manifesta però una vistosa carenza di risorse e di personale). Tali conoscenze potranno utilmente essere utilizzate nel corso di seminari e incontri tra le parti e con le istituzioni europee. Inoltre possono essere previsti seminari che affrontino aspetti specifici delle ristrutturazioni, come la loro dimensione territoriale, oppure e la riqualificazione e ricollocazione dei lavoratori con particolare riguardo alla piccola e media impresa. O ancora, studio sugli effetti delle ristrutturazioni nei paesi candidati. Una conferenza europea dei Cae sulle ristrutturazioni. 5. Credo che proprio il riferimento ai Cae, presenti in questa Conferenza, ci consenta di completare il discorso dal punto di vista delle esigenze dei lavoratori in termini di informazione. Tanto più che come Fim, Fiom e Uilm nazionali stiamo seguendo il progetto europeo del Cae della General Electric Power System per un miglioramento delle informazioni e della partecipazione dei lavoratori attraverso il Cae stesso. È nota l’esigenza di rivedere la direttiva sotto vari profili. Infatti il concetto di informazione che lì viene esposto risulta troppo vago. Una formulazione migliore, ad esempio, la si trova nella più recente Direttiva sullo Statuto di Società europea dove appunto si dice che “deve essere fornita con tempi, modalità e contenuti che consentano ai rappresentanti dei lavoratori di procedere a una valutazione approfondita dell’eventuale impatto e, se del caso, di preparare consultazioni con l’organo competente”. Anche nella Direttiva generale sull’informazione e la consultazione dei lavoratori viene specificato che l’informazione deve essere effettiva ed efficace, tale da permettere ai rappresentanti dei lavoratori di procedere a un esame appropriato e di preparare eventualmente una consultazione. È chiaro che potendo riunirsi solo una volta l’anno è difficile per il Cae potere intervenire efficacemente. Bisognerebbe quindi rendere più frequenti queste riunioni, soprattutto in concomitanza con situazioni di particolare gravità, dove potrebbero essere convocati con maggiore frequenza almeno dei gruppi ristretti. Quindi non solo un’informazione tempestiva, ma dei vincoli verso l’impresa nel caso in cui, ad esempio, le informazioni non risultassero attendibili, vere. La prescrizione di un obbligo di riservatezza in capo ai membri del Cae, ha permesso alle imprese di non dare nessuna informazione nel caso in cui questo risultasse dannoso per l’impresa stessa. Ora, pur non volendo toccare la libertà di iniziativa privata, un miglioramento potrebbe essere rappresentato dall’obbligo di spiegare i motivi specifici, in modo esauriente, del perché l’azienda sceglie di mantenere il silenzio, altrimenti la riservatezza serve a coprire qualsiasi cosa. In conclusione, informazione e consultazione devono essere fondate su un reale spirito partecipativo, su relazioni sindacali forti e stabili. A livello comunitario esistono già una serie di strumenti importanti, ma in merito alle ristrutturazioni e al coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori occorrono anche alcune regole e procedure minimali che impegnino le parti, altrimenti il rischio è quello di trasformare il dialogo sociale in un perenne dibattito tra le parti sociali accettato con un’eccessiva neutralità dalla Commissione. Il documento di cui stiamo parlando chiama giustamente in causa anche il tema della responsabilità sociale dell’impresa. Certo noi crediamo che essa debba esprimersi anche sul terreno di un comportamento responsabile verso l’ambiente, nel pieno rispetto delle leggi vigenti, ma riteniamo anche che la responsabilità sociale dell’impresa vada considerata nella disponibilità reale dell’impresa a confrontarsi con il sindacato sulle scelte di politica industriale e in caso di ristrutturazioni a considerarlo come un interlocutore effettivo, con cui condividere, ognuno nella propria autonomia, tutto il percorso di ricerca di soluzioni. |