Audizione alla Commissione Trasporti della Camera dei Deputati

  La Fiom-Cgil è contraria alla privatizzazione e alla quotazione in Borsa di Fincantieri.

Non è un’operazione industriale, ma una cartolarizzazione

 

Il progetto che l’amministratore delegato di Fincantieri ha presentato prima al governo Berlusconi, poi al governo Prodi, concerne la privatizzazione di Fincantieri, da realizzare attraverso la quotazione in Borsa e la vendita della maggioranza del pacchetto azionario della società. Ora il governo deve autorizzare o no questo progetto.

L’operazione su cui si sta decidendo è questa: quindi è sulla quotazione in Borsa che occorre dare un giudizio. E’ inutile discutere in astratto della privatizzazione di Fincantieri. Se ci trovassimo di fronte ad un progetto di privatizzazione fondato sull’esistenza di un soggetto industriale interessato ad acquisire Fincantieri discuteremmo di altro. [Quando, nel 1999, Fincantieri ha ceduto alla multinazionale finlandese Wärtsilä la Grandi Motori Trieste, il sindacato fece un accordo].

L’entrata in Borsa non ha alcun significato rispetto alle prospettive industriali di Fincantieri. La società, se ben gestita, è in grado di produrre le risorse necessarie ai suoi piani di investimento e sviluppo (come si è dimostrato nel caso del recente acquisto di una quota di un cantiere in Gemania). Del resto l’amministratore delegato ha comunicato ai sindacati che più del 90% di quanto verrà ricavato dalla collocazione in Borsa verrebbe destinato all’azionista (il Tesoro), mentre meno del 10% sarebbe utilizzato per la ricapitalizzazione. Un’operazione siffatta è una cartolarizzazione, una svendita per fare cassa.

Fincantieri non ha i livelli di redditività e meno ancora la progressione di redditività che la Borsa pretende. Per questa ragione l’entrata in Borsa è destinata a distruggere la forza industriale di Fincantieri, che è oggi leader mondiale nel mercato delle costruzioni navali per le navi da crociera e i ferries oltre i 150 metri ed esporta l’80% del valore della sua produzione. E’ irresponsabile una scelta che rischia di portare alla liquidazione di una delle più importanti aziende manifatturiere del nostro paese con un forte radicamento occupazionale (25 mila occupati senza considerare la filiera delle forniture) in molte regioni italiane.

Attualmente Fincantieri ha almeno quattro elementi di solidità:

a)     7 anni di risultati economici positivi hanno prodotto una accumulazione di riserve (che ha consentito di assorbire la fine degli aiuti di Stato, ha permesso la distribuzione di un dividendo all’azionista negli ultimi due anni e una politica di acquisizioni);

b)     nessun indebitamento con le banche;

c)      un posizionamento competitivo importante soprattutto nel settore delle navi da crociera;

d)     un portafoglio ordini di 16 miliardi di euro, mai raggiunto in precedenza.

L’immagine di Fincantieri come un’azienda che va a vele spiegate con il vento in poppa non corrisponde però alla realtà. Per avere una valutazione equilibrata sullo stato e sulle prospettive di Fincantieri è necessario considerare anche gli elementi sfavorevoli:

a)     il mercato della cantieristica navale è strutturalmente a bassa redditività e ad alto rischio; i risultati economici del 2005 e più ancora quelli del primo semestre del 2006 già segnalano un’inversione di tendenza; quasi tutte le commesse (cruise e ferries) che “faranno” il conto economico dei prossimi 3-4 anni sono state acquisite con margini assolutamente ridotti;

b)     nel settore militare dopo la diluizione del programma Fremm e la scarsa accessibilità ai mercati esteri Fincantieri si presenta come un soggetto debole sul piano internazionale;

c)      nel portafoglio ordini ci sono numerosi prototipi, soggetti a rischi sia di progetto che di processo; la loro rischiosità intrinseca viene accentuata dal ricorso agli appalti nell’area della progettazione, divenuto ormai strutturale, come purtroppo dimostra il caso Fynnline;

d)     lo squilibrio del modello di organizzazione produttiva (riduzione degli organici e ricorso agli appalti oltre ogni regola definita negli accordi e oltre ogni limite di buon senso) provoca una dispersione di know-how e rischia di riprodurre la stessa situazione della seconda metà degli anni 90, quando gli appalti si mangiavano il valore delle commesse, mentre la Fincantieri accumulava perdite;

e)     la stessa decisione della direzione aziendale di portare l’azienda in Borsa ha portato a una totale focalizzazione del management sugli aspetti finanziari e di rilancio della propria immagine, trascurando le esigenze di una gestione industriale che deve affrontare le criticità indicate.

Decidere di mettere in Borsa un’azienda in queste condizioni significa esporla a pressioni e sollecitazioni che non è in grado di sopportare. L’impossibilità per Fincantieri di rispondere alle attese della Borsa provocherebbe un calo delle sue quotazioni azionarie. A quel punto, Fincantieri sarebbe facilmente scalabile (dopo l’esplosione del caso Telecom nessuno può più farsi illusioni sulla golden share) da un raider che potrebbe effettuare operazioni speculative, “valorizzando” un altro patrimonio di Fincantieri, le grandi aree attualmente occupate dai cantieri navali in zone di grande potenziale turistico-commerciale. La conclusione sarebbe la fine della cantieristica e una consistente ulteriore riduzione della base industriale del paese (gli inevitabili costi sarebbero a quel punto assai superiori ai ricavi della privatizzazione).

 

Roma, 20 settembre 2006